TRAMA
Isaac, un giovane fotografo ebreo, viene convocato da una famiglia facoltosa nel mezzo della notte e incaricato di ritrarre il cadavere della bella Angélica, spirata appena dopo le nozze. L’obiettivo della macchina fotografica sembra riportare momentaneamente in vita la donna, ma solo agli occhi di Isaac.
RECENSIONI
Nella prima decade del nuovo millennio il grande maestro portoghese ha sfornato quasi due pellicole all’anno, fra corti e lungometraggi. Una produzione ancor più sbalorditiva se si considera che l’11 dicembre del 2010 Oliveira compirà 102 anni. Alcuni di questi film sono dei capolavori imperdibili, come Je rentre à la maison (2001) e Palavra e Utopia (2000), mentre altri sono semplicemente lavori interessanti ma non fondamentali. Nonostante sollevi delle questioni interessanti e tocchi delle tematiche care al cineasta, Angélica fa parte di questa seconda categoria. Il regista rispolvera una sceneggiatura scritta nel 1952 e la adatta al giorno d’oggi, pur mantenendone inalterati degli aspetti e quindi creando una sorta di mondo ibrido, in cui il progresso esiste ma è atemporale, in cui diverse tecnologie coesistono e si compenetrano, in cui la materia e lo spirito si intersecano inesplicabilmente. Ecco quindi che il protagonista, che era stato ideato come un ebreo sopravvissuto all’olocausto e rifugiatosi in Portogallo, perde la gravità e la disperazione che il suo personaggio, vittima di un’ossessione, invece richiederebbe. Datata è anche la sua situazione da pensionante presso la signora Justina, padrona di casa materna ed invadente, e la divisione fra le classi, dai contadini che cantano mentre lavorano alla ricca famiglia di Angélica, attorniata da servitori in livrea. La stessa architettura di Régua rispecchia questa strana, quasi inorganica divisione, in cui viottoli ciottolati e gru mastodontiche convivono apparentemente senza integrarsi. Questa mancanza di congruenza sembra lasciare spazio però ad elementi poetici, come la macchina fotografica caricata a pellicola che usa Isaac, o la zappa con cui i contadini lavorano i vigneti. E l’aspetto vintage del film si rispecchia negli effetti visivi, volutamente naïf, ed accostabili tematicamente al procedimento fotochimico di stampa che permette ad Isaac di ritrarre la bella Angélica a colori (altra licenza poetica). Piuttosto che la forma di quest’opera, in cui si ritrovano anche i tratti fondamentali di Oliveira, come la staticità della macchina da presa, sono i suoi contenuti che riflettono le reali preoccupazioni del regista. In un racconto che echeggia Edgar Allan Poe e Oscar Wilde, il maestro riflette nuovamente sull’immortalità dell’anima in relazione all’opera d’arte figurativa, e utilizza l’amore (o l’ossessione amorosa) come catalizzatore. Le origini ebree di Isaac vengono sottolineate da subito, e messe in contrasto con la devota cristianità dell’ambiente in cui si ritrova a muoversi e che, in un certo senso, causerà la sua disfatta. Ironico il finale, in cui proprio questo dato, che durante tutto il film ha separato il protagonista dalla comunità, viene cancellato da un velo bianco, quasi a sottolinearne l’irrilevanza di fronte alla cessazione della vita terrena.
