TRAMA
New York, 1863. Per la conquista del territorio, Five Points – Manhattan, si affrontano sanguinosamente due bande rivali, quella “nativa”, guidata da Bill Poole, e quella dei nuovi immigrati capeggiata dal giovane Amsterdam Vallon, determinato a vendicare la morte del padre, ucciso proprio da Poole in uno dei primi scontri.
RECENSIONI
Il Medioevo delle Mean Streets, gli antenati di Quei Bravi ragazzi, il tribale Mad Max di New York. Le radici di Little Italy e Chinatown sono cinque dita (il quartiere di Five Points) serrate in un pugno demolitore: parola del giornalista Herbert Asbury, il cui documento affabulato (1928) è trasformato in kolossal (a Cinecittà) da Scorsese, eternamente ossessionato da etnie, violenza e religione. La storia parla di sanguinosa rivolta, Scorsese analizza la fonte dell’esasperazione in un complesso, allegorico, spettacolare trattato di sociopolitica ed etica comportamentale: affogato nella miseria, nel vizio e nel terrore, il microcosmo umano, già multietnico e xenofobo, esplode di rabbia quando Disordine e Ingiustizia s’associano (contro) ad un potente perturbatore estraneo. Vessazione e Caos, se (ri)conosciuti, sono legittimati: Scorsese non demonizza il personaggio di (un grandissimo) Day-Lewis, ne descrive il codice d’onore e la coerenza nelle direttrici di sangue e paura per preservare i “nativi”. Al contempo, fa di quello di DiCaprio un antieroe titubante che vive a cavallo fra conservazione dello status quo (il sangue preservato sul coltello) e Nuova Era (imbrattata di sangue). La miccia della ribellione è accesa da un terzo contendente (la sovranità dello Stato) che turba gli equilibri di potere, s’arroga lo stesso diritto di rappresentanza della Nazione e non esita a reprimere brutalmente i dissenzienti: religione, razzismo, identità culturale e lotte di classe sono bandiere da sventolare più che profonde convinzioni. Scorsese non canta la Nascita di una Nazione e della Civiltà, descrive una ridistribuzione del potere. Male necessario, verso il meglio, spezzando il circolo vizioso delle faide e la logica settaria delle tribù? Forse. Feconda sospensione del giudizio. Certo è che in questa Storia non ci sono ideali patriottici, di affrancamento e di rettitudine. Solo i commensali benestanti (fra cui compare Scorsese) possono permettersi di invocare un Dio misericordioso. Ai pezzenti resta il Dio della vendetta e l’Amore furioso (tre incontri di passione Diaz/DiCaprio: un rubato décolleté di medaglie rubate, un esame di cicatrici, una presa sessuale aggressiva). Fra impiccati volontari, bande di pompieri in competizione, cinismo politico (la legge va sempre rispettata, specialmente quando viene infranta), preti in cerca di fedeli più che di fede e reclute trasformate in bare (memorabile la sequenza dell’imbarco), è inquietante e grottesco il girone infernale mantenuto dai gangs(ter). Mentre piovono le bombe dal cielo, si consuma, sempre uguale a se stesso, l’ultimo rituale dei Sorpassati, impegnati in un duello ninja fra la nebbia: lo skyline di New York ha rimosso le loro tombe, Scorsese ne filma i fantasmi, con didascalia (troppo) solenne. Il suo saggio feroce si nutre di stilizzazione cruenta (con qualche movimento “digitale” di troppo), visionarietà (il totale del “condominio” con le impalcature di legno) e istinto musical (il canto nel negozio del macellaio), mancando il capolavoro per una manciata di minuti: la produzione ha preteso tagli (da 218 a 160 minuti) che tolgono il fiato alla parte introduttiva, pregiudicando anche porzioni del seguito.
Martin Scorsese è certamente l’ultimo baluardo della New Hollywood, che poi oggi come oggi ha ben poco di new ed è invece sinonimo di “cinema americano classico”. Se infatti è vero che gran parte del movimento è confluito nella “old Hollywood” per vie troppo dirette (lo stucchevole “classicismo” di Spielberg) o troppo traverse (la metacinematograficità postmoderna di De Palma), Scorsese sembra ormai l’unico regista americano che ancora crede nel potere evocativo del Cinema, nella grandeur epica e nell’affresco dal respiro ampio ed ambizioso. Non si trovano mai, nei suoi film, tracce di “americanata” votata all’entertainment à la Lucas, né il distacco autoreferenziale riscontrabile in un classico solo apparente come Gli Intoccabili: Martin Scorsese non ha voglia di scherzare né di smontare il suo giocattolo per svelarne i meccanismi di funzionamento, Martin Scorsese fa terribilmente sul serio, e Gangs of New York lo dimostra prendendo Storia e Cinema di petto, a viso aperto, e non facendo nulla per nascondere le proprie ambizioni; il racconto è corale, il taglio è quello della saga, la ricostruzione scenografico-costumistica precisa e i temi affrontati molti, alti, importanti. Il problema è che GoNY, ad una visione più attenta, è un racconto corale ad appena due voci, è una saga che soffoca per il troppo serrato incedere degli eventi, si svolge in (ed “inquadra”) sempre gli stessi luoghi (in forte odore di palese falsità scenica) e si limita ad accennare e non risolvere le tematiche che tratta: i consueti motivi religiosi, la questione etnico-razziale, la natura sporca e corrotta della politica, la Storia americana, l’indagine psicologia del rapporto padre-figlio con espliciti riferimenti edipici (l’ “autoaccecamento” di Bill/Daniel Day-Lewis): c’è tutto questo e altro ancora, in GoNY, e c’è in definitiva troppo perché il film non finisca per crollare sotto il peso delle sue ambizioni. Gangs of New York, semplicemente, non “respira”, non si prende pause, non approfondisce come dovrebbe (e vorrebbe) ma si limita a inanellare una serie di fatti dall’esito prevedibile con una narrazione che nell’ultima mezz’ora perde anche di chiarezza e lucidità. Rimangono, certo, alcune sequenze memorabili (su tutte: l’incipit fino alla morte di padre Vallon e il piano-sequenza che mostra lo sbarco degli irlandesi a New York, il “forzato” arruolamento nell’esercito e il loro imbarco su un’altra nave dalla quale vengono contemporaneamente scaricate le bare dei caduti), e rimane aperta la questione delle traversie produttive con tanto di vociferato director’s cut di 240’, che suona un po’ come ipotetico alibi tutto da verificare; ebbene, in attesa di un DVD triplo o quadruplo di GoNY “nella versione lunga che voleva il regista” (più ore e ore di epifanici extra), così com’è uscita nelle sale l’ultima fatica di Martin Scorsese non mi sembra meritare neanche il già abusato epiteto di “capolavoro mancato”, fermandosi invece un gradino sotto. Un mancato capolavoro mancato.