TRAMA
Un uomo, alla vigilia di Natale, massacra una famiglia di tre persone. Il caso viene affidato al procuratore distrettuale Anthony Fraser, da sempre convinto oppositore della pena di morte.
RECENSIONI
RAMPAGE è, come l'HENRY di Mc Noughton, film antispettacolare su un serial killer. Combinando elementi diversificati, problematizzando ogni implicazione e mettendo sul piatto diversi personaggi e altrettanti punti di vista, Friedkin espone tutte le posizioni, anche le più scomode, e offre un affresco controverso in cui si incrociano dilemmi e aut aut. Esaurito il capitolo delle efferate uccisioni si apre quello processuale in cui si affronta il tema della pena capitale: il regista, prosciugando i fatti, risulta scarno e ambiguo nello stesso tempo, fa un uso magistrale del fermo immagine, seziona la psiche del killer come questi seziona la sue vittime, lasciando allo spettatore dubbi e disturbi. Lontano dalle sale per problemi distributivi, il film uscì, modificato dal suo autore, nel 1992. Tratto da una storia vera.
Girato nel 1987, in un periodo in cui non andavano ancora di moda i serial killer e l’unione di poliziesco, dramma giudiziario e horror di Il Silenzio degli Innocenti, la sua distribuzione (già avvenuta) fu bloccata dal fallimento della De Laurentiis Company (la stessa di Pollice da Scasso) e il film di Friedkin (anche sceneggiatore), poté ri-uscire grazie alla Miramax solo nel 1992 (in Italia solo in Vhs), facendosi poco notare sia per l’argomento ormai abusato sia per la sua forma di genere. In realtà Friedkin era più interessato ad imbastire un’originale riflessione sulla pena di morte e l’alibi dell’infermità mentale, mettendo alla prova le idee liberali dello spettatore, ribaltando la retorica sull’argomento e simulando una presa di posizione contraria: sceglie il soggetto più odioso che possa circolare nella società (prima della “moda” cinematografica dei pedofili), un sadico e apparentemente lucido serial killer (ispirato, previo libro del viceprocuratore distrettuale William Wood, al caso del “Vampiro di Sacramento”); lo mostra in azione con crudezza (non nei passaggi televisivi con tagli), riportandoci anche nell’immaginario “satanico” di L’esorcista con chiese, preti e loro dissacrazioni; affianca come eroe e alter ego una pubblica accusa con principi garantisti teorici che, di fronte all’orrore, cambia idea, cerca la vendetta, mosso dalla “furia” del titolo originale. La controparte, la difesa, ha volti e sembianze finanche repulsive, Michael Biehn (ottimo come “folle omicida”) appare sempre più inquietante e fatti (drammaturgia) alla mano, crediamo di coglierne la mera malvagità senza attenuanti. Anche lo spettatore, quindi, s’identifica con la giuria (nel nocciolo, è un film processuale con dilemma etico) grazie agli espedienti di regia che culminano con la bellissima invenzione dei “3 minuti di agonia” (il procuratore chiede 3 minuti per far riflettere sulla durata del supplizio delle sue vittime sventrate). Quello che manca nel film di Friedkin è un “colpo di scena” finale che scuoti lo spettatore (e i caratteri in campo) creando una sorta di senso colpa, una riflessione, un parallelo fra la trasformazione del protagonista e i cambiamenti nella sua vita privata (la morte della figlia, il divorzio) oppure una sospensione ambigua: ciò è dovuto al fatto che, rispetto al primo montaggio del 1987 (dove Reece si suicidava perché dichiarato sano di mente), cambiò idea e aggiunse una voce fuori campo per dire che Reece viene dichiarato malato di mente e scrive lettere di scuse alle vittime. In questo modo, il film propende nettamente per la pena di morte (sono cambiati i tempi del suo The people versus Paul Crump), cozzando con l’intera ragione d’essere del film stesso. Avrebbe dovuto anche, forse, rinunciare del tutto alle convenzioni di genere e alla relativa struttura manierata del suo racconto. Conosciuto anche come Ritratto Di Un Serial Killer.