TRAMA
Qualcuno sta uccidendo le più grandi popstar del mondo e Derek Zoolander, dopo essere stato il modello più cool del pianeta, pare l’unico, insieme al fidato amico Hansen, che può fare qualcosa per scoprire il colpevole.
RECENSIONI
Quando uscì, nel 2001, Zoolander non lasciò particolare traccia. È stato solo successivamente, grazie al successo in dvd e a un travolgente passaparola, che è diventato oggetto di culto. Espressioni come “bello, bello, bello, bello in modo assurdo!”, “Figoso!”, le pose “Magnum” e “Blue Steel”, sono entrate nel gergo dei giovanissimi (e non solo). Un po’ azzardato, ma comprensibile, ipotizzare un secondo capitolo. Come la norma impone per i sequel, la parola d’ordine è esagerare. Dopo un prologo irresistibile (la morte di Justin Bieber celebrata da un selfie pre morte), il film cerca di non perdere i fan, ma anche di agganciare i nuovi adepti, raccontando cosa è successo ai due protagonisti nei 15 anni trascorsi tra il primo e il secondo capitolo. E già in queste sequenze di raccordo arrivano i primi cedimenti, causati soprattutto da un divario tra il ritmo dell’azione e quello delle gag comiche. Se il primo, infatti, accentuato da un montaggio frenetico che punta a valorizzare il dettaglio e l’effetto, risulta adrenalinico, il secondo non è supportato da una scrittura sufficientemente brillante, per cui si ridacchia a singhiozzo ma poco convinti.
Nel blackout che ne deriva si apprezzano la simpatia dei protagonisti (soprattutto Stiller), il prendersi nuovamente gioco dell'universo moda con la complicità di chi quel mondo lo crea (tanti i camei illustri), le nuove pose create per l'occasione ('Acquavite' ed "El Niño") , ma il film fondamentalmente non esiste e si gioca tutto su quei particolari sciocchini che ambiscono a diventare nuovi slogan. Sorbirsi una sbilenca spy story diventa quindi un po' pesante, perché è un surplus che poco aggiunge alle icone distruttive e canzonatorie rappresentate dai personaggi. Quando il film entra nel vivo, quindi, e qualcosa deve pur sforzarsi di raccontare, i problemi peggiorano ulteriormente, perché si continua a ridere poco e gli eventi si complicano esageratamente cercando di conciliare trame e sottotrame. Ma è tutto troppo esile per tenere insieme la morte delle più importanti popstar mondiali, il tentativo di recuperare la stima di un figlio in sovrappeso, la voglia di tornare a essere stelle di prima grandezza della passerella contrastando, al contempo, i piani oscuri di una setta di stilisti.
Ben Stiller funziona più di Owen Wilson (tutta la parte nel deserto è imbarazzante) e la new entry Penelope Cruz, in gran forma, fa quel che può, ma il suo personaggio è puramente esornativo e serve solo per abbozzare una sciapissima love story. Ad affossare del tutto il film è però la estenuante parte finale che punta smaccatamente al baraccone roboante, con Will Ferrell che monopolizza l'attenzione senza strappare, come al solito, manco un sorriso. Il film finisce quindi per coprire le risate con il rumore perdendo per strada la carica iconoclasta che di solito accompagna il genere demenziale. Null'altro da aggiungere per un sequel che dilata l'originale, azzecca la cornice ma dimentica che, in fondo, si tratta di un film e non solo di una rimpatriata tra vecchi amici. Se il divertimento si riduce a riconoscere le star che si sono prestate a una comparsata, alcune divertenti eh, significa che qualcosa nell'insieme non funziona. Riuscirà, dopo lo scarso successo che sta ottenendo, a diventare un cult in futuro? Pare improbabile, ma non è da escludere. Si verifica, infatti, un interessante effetto paradosso. Provate a raccontare alcune gag, o svolte, o trovate, ad un amico e riderete molto di più di quello che avete fatto in sala. Tutto ciò potrebbe tradursi in un involontario passaparola positivo. Ai posteri quindi, come sempre, l'ardua sentenza.