Recensione, Spionaggio, Storico

ZERO DARK THIRTY

TRAMA

L’agente della CIA Maya è ossessionata nella ricerca del nascondiglio di Osama Bin Laden. Le indagini si svilupperanno nell’arco di dieci anni fino alla notte del 2 maggio 2011, quando una missione speciale dei Navy SEAL (Operazione Geronimo) scoverà e ucciderà il leader di al-Qāida.

RECENSIONI

Sullo schermo nero riecheggiano le telefonate dell'11/09, gli ultimi atti prima della tragedia, fantasmi ossessivi e irrappresentabili, verso i quali non rimane altro che gettare un po' di luce. Una luce mai così incompleta perché non cauterizza la ferita, ne evidenzia il vuoto, mostrando l'inter(n)o (del) meccanismo, la sua cervellotica complessità, la diffidenza burocratica, il prismatico gioco di bugie e mezze verità.
Lo stacco di montaggio rende bene l'intenzione alla base di Zero Dark Thirty: illuminare quel buio e dissiparne le paure, aggrapparsi retoricamente a quell'operazione d'intelligence (la cattura del mostro) che, piuttosto che riscrivere la Storia, ha rafforzato lo spaesamento di una nazione, i suoi sintomi di psicosi e profonda solitudine.
Ed è agghiacciante quanto tutto sia lecito e si mascheri da baluardo per il Bene.
Non poteva esserci niente di più esaustivo che quel raggio di sole iniziale, flebile nell'accompagnarci dentro la sala della tortura, primo tassello di un'ossessione pronta ad autogiustificarsi e impossibilitata a chiudere il cerchio.
Nella sequenza dell'assalto alla fortezza di Abbotabad la perizia tecnica della Bigelow evidenzia ulteriormente la viscerale necessità di esorcizzare con la luce, alternando uno sguardo oggettivo immerso nella notte con la soggettiva del dispositivo di intensificazione d'immagine, medium monocromatico ai limiti della virtualità, pronto a districare lo spazio-labirinto del terrore le cui radici estirpate (?) si cristallizzano nel fascio delle torce che abbagliano il corpo esanime di Bin Laden.
Che cosa rimane ora che l'incubo è finito e gli eroi possono persino regalare un bagliore rassicurante alle vittime indirette della guerra (la starlight  data dal NavySeal alla bambina), ora che il nemico numero uno è stato sconfitto?

'There's no shame if you wanna watch from the monitor'

Avevamo lasciato il Sergente James (The Hurt Locker) scendere dal Chinook e ritornare in mezzo alle bombe, nell'esaltazione machista e off limits di un feticismo bellico che diventava unico credo possibile, fuga dalla realtà (emblematica la scelta della scatola di cereali nel supermarket) e dalla fragilità psichica di un intero Paese che trovava nel travestimento adrenalinico, nella manipolazione dell'oggetto guerra la propria cura illusoria.
In Zero Dark Thirty tale patologia si riflette nella posizione di Maya, evidente doppio complementare dell'artificiere, nella sua crociata personale verso un nemico invisibile, frustrante gioco strategico in cui è costretta sì a scalare i vertici del controllo, ma sempre in una posizione spettatoriale, relegata dietro le quinte di un sistema tutto al maschile e mai operativa sul campo.  In questo frangente le logiche della Cia intensificano ulteriormente il senso d'insoddisfazione autopersecutoria, esemplificate dalla continua mediazione tecnologica che, alla fine, si trasforma in nevrosi.
Perché non c'è altro modo di interpretare e risolvere l'enigma del reale se non attraverso la tecnologia e Maya lo comprende nella sua escalation di frustrazione, quando, con la morte di Jennifer, avviene il suo profondo cambiamento.
Quest'ultima si pone come modello ideale e di emancipazione al femminile, portatrice di ottimismo e tolleranza (nell'attesa di al-Balawi prepara pure una torta), l'unica figura amica con la quale riesce a entrare in intimità, ma destinata a risvegliarla bruscamente con la sua uccisione e a reimmergerla nel clima di terrore.
L'esterno è sinonimo di pericolo da cui rifugiarsi e Maya, dopo aver rischiato più di una volta di perdere la vita, è costretta a nascondersi dietro uno schermo, pronta a pianificare la sua vendetta in attesa di una risposta che, durante la missione a Camp Chapman, non era mai arrivata.

Gli ingranaggi del congegno spionistico, disposti a tutto pur di raggiungere l'obiettivo agognato, diventano una barriera infrangibile per lo sguardo, quello strumento di contatto, confronto e rispecchiamento con l'altro, che ha sempre caratterizzato il cinema della Bigelow. Un legame scopico necessario per la risoluzione dei conflitti dei personaggi, sempre tesi alla ricerca di un oggetto sul quale proiettare le proprie pulsioni interne.
Zero Dark Thirty in questo caso isola gradualmente Maya, le permette di travestirsi da carnefice nell'interrogatorio con al-Faraj per poi emarginarsi sempre di più dentro il reticolo della CIA.
E nel momento stesso in cui si rompe il velo (di Maya) e il feticcio di ogni male giace morto lì davanti, un corpo-fantasma di cui è negato (e ci è stato negato) l'ultimo ritratto, emerge la profonda verità del film.
Se in The Hurt Locker la misantropia era colmata nel riflesso del giocattolo detonante e permetteva all'America di proseguire la sua dipendenza belligerante, proliferazione di pericoli da dover disinnescare, in Zero Dark Thirty è costretta a guardarsi dentro.
Gli occhi di Maya rigati dalle lacrime, pronta a tornare a casa, comprendono quanto l'elaborazione del lutto e il ritrovare una propria identità siano ancora molto lontani.

LA PROCEDURA DEL BENE
La parola e l’azione in Lincoln e Zero Dark Thirty

Il cinema di Kathryn Bigelow racconta l’uomo che oltrepassa i limiti: con lo sceneggiatore-fidanzato-reporter Mark Boal ha creato un sottogenere in cui, definendosi mera restitutrice di contenuti, inscena reportage di scottante attualità in ambito bellico. In The Hurt Locker il protagonista era malato di adrenalina, qui Jessica Chastain è ossessionata dal proprio target (dettaglio fugace in voluta assenza di background psicologici: non risponde quando le chiedono se ha amici o fidanzati), tipica figura femminile della regista, ad “altezza” uomo, in ambienti prettamente maschili, capace di mettere in riga e sottomettere ai propri desideri l’altro genere da sé. A parte questa caratterizzazione, nemmeno tanto romanzata (c’è stata davvero un’analista determinante per arrivare al “mostro”), il film, oltremodo lungo, si fonda su documenti e fatti realmente accaduti, da cui la sua natura cronachistica fino all’osso: non era strettamente necessario, e la forma pone l’interrogativo sul suo scopo. Celebrazione di una vittoria? Il film è stato accusato di avvallare i metodi sommari stile Guantanamo, Bigelow è stata paragonata a Leni Riefenstahl: ma, resoconto dei fatti per come si sono svolti a parte, se ambiguità (quindi riflessione) c’è, per quanto troppo sottile per essere potente, alberga nel mostrare i crimini del nemico per soppesarli con le torture (necessarie?) per fermarlo, fino al ritratto “gentile” del “direttore” delle carceri segrete della Cia. La stessa, lieve e non del tutto efficace ambiguità la troviamo nel finale (è veramente Bin Laden?). Sicuramente la sceneggiatura organizza i fatti in modo da edulcorare i metodi americani e rendere tutto “inevitabile” (crea un collegamento fra interrogatori con tortura e ritrovamento di Bin Laden, fatto smentito da altre fonti), ma è difficile trovare appigli di una partigianeria registica: tutto è freddo e distaccato, Bigelow non esalta e non condanna. L’anima dell’opera, la sua etica, sta tutta nella breve scena in cui l’agente Cia di Mark Strong incontra il portavoce del presidente Obama e, mentre quest’ultimo accusa i metodi guerrafondai di Bush, il primo critica l’inanità dell’Amministrazione, perché non prendere posizione è il rischio più grande. Un colpo al cerchio ed alla botte, di più alla botte (uccidere Bin Laden con ogni mezzo). Il fulcro di Bigelow, reportage a parte, pare essere un altro, ovvero la descrizione di un’eroina disturbata: si crea lo stesso corto circuito di The Hurt Locker, dove l’eccesso di realismo della messinscena faceva sembrare l’eroismo follia. Formalmente, la regista ripropone il suo cinema elaborato nel montaggio e nei punti di inquadratura, ma imperano le riprese da battaglia, che trovano lo zenit nel lungo raid finale, reportage d’assalto in finto tempo reale, infrarossi compresi. Il titolo è un termine militare che indica le 00.30.