TRAMA
Mentre camminavo per le strade di Taipei in cerca di volti per il mio film, alcuni versi hanno cominciato a risuonare nella mia mente.
Li ho trascritti:
«C’è una luce, c’è una storia.
Il tuo volto mi parla del trascorrere del tempo e di luoghi che hai attraversato.
Nei tuoi occhi, un velo di confusione e di tristezza.
C’è una luce, c’è una storia.
Il tuo volto mi parla dell’amore e dei luoghi in cui si nasconde.
Nei tuoi occhi, un riflesso di luce, e il buio».
Questo è il significato del film.
(Tsai Ming-Liang)
RECENSIONI
Esordio: “Quello che vedo sullo schermo è diverso”. È questa la sicura affermazione di un’anziana signora inquadrata in primissimo piano, mentre si “specchia” in un monitor.
Epilogo (falso): Lee-Kang Sheng, attore feticcio di Tsai Ming-liang, posizionato esattamente al centro del frame (l’unico dei presenti, curiosamente, a non essere decentrato), parla della propria somiglianza fisica con il padre e dice: “Secondo mia madre, sono identico a mio padre quando era giovane… ormai non sono più tanto giovane nemmeno io”.
Il film del grande regista di Taiwan oscilla tra questi due poli: da un lato, il cinema sembra essere indissolubilmente legato alla materia che si trova a filmare; dall’altro, i corpi stessi si presentano come puri avatar, veicoli di una manifestazione altra, fuori e oltre il piano fisico.
L’interlocutore è lo stesso Tsai, oppure la complice macchina da presa, distante eppure implacabile nella propria distruzione prospettica. I volti senili che abitano Ni De Lian sono, infatti, schiacciati dal teleobiettivo su un’impalpabile superficie, esibiti nella loro corporeità in disfacimento. Questa volta, a differenza del precedente lavoro in VR The Deserted, opera nella quale lo spettatore si (dis)incarnava nel corpo-macchina-da-presa per divenire tutt’uno con l’ambiente circostante, Tsai sceglie di avvicinarsi ai corpi e di filmare esclusivamente primi piani, volti scolpiti da un’illuminazione che, in accordo con la dimensione ottica, rende ectoplasmatico (e, paradossalmente, iper-presente) il salone – teatro che li contiene.
Oltre alla durata, quindi, si aggiunge una prossimità che solo in apparenza pone l’accento sulla dimensione fisica, materica dei protagonisti. Ciascun personaggio, del resto, condivide con il cineasta i propri dolori e rimugina sui molti rimpianti, testimoniando il venir meno stesso del corpo: c’è chi fa esercizi per tonificare lingua e muscoli facciali (“le persone di una certa età devono farlo”, si ripete), chi racconta i propri fallimenti sentimentali e professionali, chi si addormenta in completo e fiducioso abbandono.
È lo svuotamento finale, con il grande salone disabitato, a costituire il superamento dell’onnipresente corpo-volto: una lunga inquadratura, che indugia sullo spazio vuoto e sulle micro-variazioni della luce che filtra dalle vetrate, ci lascia contemplare quel piano invisibile appena evocato all’inizio, la materia oscura differente che segna il margine tra macchina da presa e soggetto.