TRAMA
Un’agente Fbi è scomparsa nei boschi della Virginia, un prete sensitivo sostiene di “avere delle visioni”… Gli X-Files sono chiusi, ma è ancora un caso per Mulder e Scully.
RECENSIONI
Il Film
The X-Files: I want to believe, secondo film tratto dalla serie, ha un doppio, chiarissimo obiettivo: lusingare i vecchi e reclutare nuovi ammiratori. Ovvia quindi la formula del case file, che si limita a ingrandire su scala filmica il concetto telefilmico di monster of the week, e praticamente inevitabile deludere entrambe le categorie: gli x-philes perchè, in nove anni di culto, hanno goduto di cases molto migliori; i neofiti a causa della giungla di rimandi interni[1] in cui, inesorabilmente, si smarriranno. Il 'film e basta' è infatti insalvabile: all'atto di incrociare, più o meno casualmente, diverse venature dei personaggi, si procede per ripasso ipertrofico e si ottiene un patchwork di situazioni che ricorda vagamente e lontanamente i toni del tv-movie (un esempio: l'ironia caustica di Mulder - lo scetticismo dubbioso di Scully); ma il costrutto resta sempre scollato, i nodi tramici sono contradditori e discontinui (Mulder si fa serio Scully è disposta a 'credere'), i tratti narrativi dei personaggi emergono una tantum per poi inabissarsi e riaffondare del tutto. Se sorvoliamo sul capitolo buchi narrativi - premonizioni, agnizioni estemporanee, raccordi casuali: la logica non è mai stata il forte di XF, naturalmente -, bisogna rilevare il tentativo manifesto di 'stare al passo coi tempi', almeno quanto il suo veloce fallimento: la foto di Bush, su cui parte il motivo della serie, lancia un messaggio (eh sì) - 'è il presidente l'X-File più pericoloso' - e già segnala la grana grossa dalla quale non interessa a nessuno affrancarsi. E dunque, sempre nel recupero dei dati sparpagliati nella serie, si evidenzia su base concettuale la costruzione del dilemma morale: un prete pedofilo può essere la voce di Dio? Questo problema, che mette radici nel tardo XF (Scully meno arroccata su posizioni scientifiche e più aperta al paranormale), viene enunciato - proprio a livello dialogico - e non strutturato, ovvero 'detto a priori' senza alcuna inclinazione a stratificare e problematizzare: cade così anche il possibile e agognato link all'attualità contemporanea (vedi sopra). In più, si aggiunga che Chris Carter non è un buon regista cinematografico: nei pochi momenti squisitamente filmici - a memoria tre: la prima visione di Padre Jo, la caduta dell'agente Whitney, la ripresa in laboratorio -, risolve l'azione in una sintassi elementare, camera mobile, campo/controcampo o al massimo un ralenti, con effetti mediamente ordinari e piuttosto confusionari. Mentre lo script di Carter/Spotnitz è principalmente impegnato a 'far capire tutto', al contrario, sempre interiore, incalzante, straniante è ogni singola nota del mitico Mark Snow.
Il Mito
Finora il disastro. Ma c'è un aspetto, che prescinde dall'analisi specifica, a far slittare TXF:IWTB dalla legge della vendibilità hollywoodiana (riciclo - ritorno - incasso) al campo della discussione metafilmica/telefilmica: l'indagine antropologica sulla rimanenza del Mito. Cosa resta del fenomeno di costume? In questo 'sguardo al futuro', ormai presente, gli attori portano i segni dei personaggi che sono stati; gli stessi Duchovny e Anderson diversi, mutati esteriormente e interiormente rielaborati - come Mulder e Scully -, nella modellazione dei propri doppi esseri ripongono il senso del conato evolutivo negli anni. Il film abiura verso il telefilm[2], ma non contro di esso: The X-Files: I want to believe non è più The X-Files [3] e per questo, paradossalmente, gli permette di sopravvivere. Il confronto tra actors e characters si impone allora come motivo fondante e ragione di vita della pellicola, dipinge un ambiente residuale, una diffusa atmosfera da reduci, e per negazione riafferma la sostanza: loro sono gli ultimi rimasti, ma ci sono. Rientra nel merito anche la sorte del film: così diversi, saranno riconosciuti? riconosceranno il pubblico? Solo in questo senso si può inquadrare logicamente lo scherzo finale, post titoli di coda (restare seduti, please): gli agenti che salutano e ringraziano in un impossibile quadro idilliaco. C'è questo aspetto, dunque, alibi comodo e involontario, rilettura oltranzista senza speranza, inside view per soli fans: l'aspetto del Mito è l'unico possibile. E il Mito c'è.
Il voto è 4 per il Film e 8 per il Mito, il totale è la media degli opposti.
[1] Mulder è ostile a collaborare con l'Fbi 'dopo quello che mi hanno fatto'; Mulder e Scully parlano di 'loro' figlio, William; l'agente Whitney cita Luther Lee Boogs, il serial killer sensitivo dell'episodio 1x13 Beyond the Sea; Scully si rivolge al vice direttore del Bureau, Walter Skinner'
[2] Si contano numerosi 'tradimenti': dall'approccio sentimentale, con la Unresolved Sexual Tension della serie che si scioglie quasi subito, al look estetico, inamovibile su piccolo schermo, che vede Mulder 'deturpato' dalla barba.
[3] Scully consiglia a Mulder di scrivere un libro sui casi che ha affrontato: l'invito a entrare in passività, la rinuncia alla prassi della detection è la negazione assoluta del perno ideologico della serie.