TRAMA
Una serie in sei parti che esplora i limiti della nostra conoscenza del passato e fino a che punto siamo disposti a spingerci nella ricerca della verità. Si tratta della storia famigliare di un uomo che per sessant’anni tenta di chiarire le circostanze della misteriosa morte del padre, in una ricerca che lo porta faccia a faccia con alcuni dei più oscuri segreti degli Stati Uniti.
RECENSIONI
Di fronte a un film di Errol Morris (pensiamo soltanto a The Unknown Known) l'unica certezza è quella dell'impossibilità di poter arrivare a una verità incontrovertibile. È quello che accade anche alla fine di Wormwood, miniserie in sei episodi prodotta da Netflix che indaga sulla misteriosa morte di uno scienziato militare della Guerra fredda coinvolto in un programma segreto di armi biologiche. A conferma di quanto detto il commento al film dello stesso regista che si articola in una lunga serie di interrogativi e si conclude sulla domanda: «fino a che punto può una democrazia mentire ai propri cittadini e continuare ancora a essere una democrazia?».
«La nostra ragione – scrive Leopardi nello Zibaldone - non può assolutamente trovare il vero se non dubitando; ella si allontana dal vero ogni volta che giudica con certezza; e non solo il dubbio giova a scoprire il vero, ma il vero consiste essenzialmente nel dubbio». Morris assembla un collage di frammenti (soluzione compositiva che applica sia sulla struttura generale dell'opera che all'interno della singola inquadratura attraverso l'impiego di split-screen) attraverso il quale compone una controstoria d'America che, moltiplicando esponenzialmente sulla scena gli attori e i fili narrativi, scava al di sotto delle versioni ufficiali e privilegia la pluralità dell’interpretazione alla monologia del punto di vista. La storia è costruita a partire dai racconti di un uomo che per sessant’anni tenta di chiarire le circostanze della misteriosa morte del padre: la credibilità della sua testimonianza, data dal coinvolgimento affettivo con la materia narrata, sostituisce la verificabilità delle fonti ufficiali; è lui a plasmare la forma del racconto ed enucleare tensioni e snodi narrativi. Il regista fa cortocircuitare brani d'interviste, filmati di repertorio, ricostruzioni d'epoca: forme diverse per dimostrare come ogni definizione che diamo alla realtà altro non sia che un costrutto strategico, ovvero un criterio fondamentale di valutazione: noi selezioniamo solo alcuni aspetti della realtà, quelli sui quali intendiamo intervenire, o perché li giudichiamo più importanti o maggiormente manipolabili, ciascuno comunque costituisce sempre uno scarto rispetto all'accaduto e per questo motivo rientra nella categoria delle produzioni di senso.
Morris ricostruendo le diffrenti cornici discorsive, storiche, giuridiche e mediatiche smonta la presunzione di oggettività, quell'atteggiamento che guarda al reale come cosa ovvia e pronta da catturare, e quindi anche il principio della stessa “rappresentabilità” del reale, del filmare senza interventi. Del resto, come scrive Ivelise Perniola nel suo saggio L'era postdocumentaria, «quelli che vediamo attualmente non sono più documentari, sono post-documentari. Il documentario è entrato in una fase di superamento totale delle proprie strutture, sino a trasformarsi in qualcosa di altro». E questo perché che ogni forma di “realismo” della rappresentazione è soggetto a usura e quindi anche il cinema deve porsi di fronte alla necessità di reinventare il linguaggio e i dispositivi dell’“oggettività”. Quello che preme a Morris non è mostrare per ricostruire uno spaccato socio-politico, ma raccontare per ricreare una storia polverizzata dall’omertà istituzionale di uno Stato.
