Horror

WOLF CREEK

Titolo OriginaleWolf Creek
NazioneAustralia
Anno Produzione2005
Genere
Durata99'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Tre amici sono in viaggio lungo la costa australiana. Quando decidono di visitare il parco naturale di Wolf Creek (cratere generato dalla caduta di un meteorite), la loro auto subisce un guasto. Vengono aiutati da un misterioso locale che apparentemente sembra gentile e disponibile, ma…

RECENSIONI

Pur non esulando da innegabili concessioni agli stereotipi del genere - road-trippers sperduti nella landa ignota e desolata, omicida seriale con tanto di macabri trofei hooperiani appesi in bella vista, etc. - Wolf Creek si offre come cruda, artaudiana, messa in scena di un graduale, inatteso sprofondamento (l’immagine del cratere millenario in tal senso non ha lo stesso valore estetico di un qualsiasi sito descritto da un documentario della National Geographic) negli abissi di un orrore colto nella sua più mefitica flagranza visiva. La disseminazione di infausti segn(al)i (l’universo delle macchine che si ferma: gli orologi, le auto; l’incontro con un gruppo di rurali autoctoni il cui esplicito dialogo di antifrastico candore mette i brividi anche solo ascoltato sul piano meramente fonetico) che preannunciano l’imminenza di un senso tragico che si fa via via, in un climax di raggelata plasticità di corpi faticosi e di sguardi lancinati, sempre più palpabile fino al catastrofizzarsi ultimo degli eventi, calata in uno scenario caro a certo cinema australiano da Weir (Picnic a Hanging Rock) a Eggleston (Long Week-End), sembra voler risemantizzare la fobia legata a un territorio sconosciuto come quello australe.
È un film impastato dalla prima all’ultima inquadratura di elementi materici che per il loro sostrato sensoriale concorrono al raggrumarsi di un senso i cui effetti vengono percepiti a livello epidermico, la costruzione della tensione è decisamente più un fatto di struttura foto-scenografica che di infingimento diegetico, le atmosfere generate o semplicemente evocate attraverso calibrati contrasti di luce contano più del mero defluire narrativo, le dinamiche psicologiche che intercorrono tra le figure di questa fabula virata al nero più nero provengono da accumuli sinaptici, sovraccarichi emotivi non dissipabili, cortocircuiti di energia psichica inconscia che pesca nel torbido serbatoio delle più ancestrali e sedimentate paure. La preoccupazione stilistico-espressiva di McLean si risolve tutta in questa messa in rappresentazione di un doloroso percorso che giunge ad inabissarsi fino ad un nucleo di oscura disperazione di una morte al lavoro che diffonde pervasivamente e sinesteticamente mescolanze di clangori distorti, suoni disarticolati, funerei miasmi e che ammanta la pellicola, mediante una sapiente, spasmodica architettura filmica amalgamata di materia e memoria, di suggestioni davvero malsane (molto al di là delle due o tre sequenze topiche di calcolata atrocità) che chiamano violentemente in causa, per l’appunto, le sensazioni dello spettatore allontanando qualsiasi ipotesi di studiata cerebralità, una naturalità boormaniana tutt’altro che rassicurante con paesaggi alieni e desertificati, una bituminosa notturnità illuminata sinistramente da fiochi bagliori in lontananza di fari di automobili e dai glaciali baluginii allucinati degli sguardi dei personaggi nel loro incerto trafiggere uno spazio sospeso tra la vita e la morte, avvolti nel terrorizzante cuore di tenebra della vicenda, zona altrettanto limbale tra finzione e verità, tra rappresentazione in imagine e trasfigurazione di realtà irrapresentabili. Cinema estremo (per)che(’) addensa presuntivamente matericità su immagini non catartizzabili, che non indica possibilità alcuna di scampo al voler vedere corpi che non sfuggono al loro sfarsi pellicolare, cinema per questo più spietato e freddo di una (doppia) morte già avvenuta.