Drammatico, Duetto, MUBI, Recensione

WINTER BOY – LE LYCÉEN

Titolo OriginaleLe lycéen
NazioneFrancia
Anno Produzione2022
Durata122'
Sceneggiatura
Fotografia

TRAMA

Lucas ha 17 anni quando improvvisamente perde il padre. Con l’aiuto del fratello, che si è trasferito a Parigi, e della madre, dovrà lottare per imparare di nuovo a sperare e ad amare.

RECENSIONI

CONCHIGLIE

Non ti sei fatto male
Proprio come pensavo
Vedi, non serve a niente
Ripararsi dal vento
Siamo solo conchiglie

Sparse sulla sabbia
Niente potrà tornare
A quando il mare era calmo

In Le Lycéen Christophe Honoré, scavando nella materia dolente che lo ha condotto a porre morte e lutto al centro del suo cinema, perviene infine al trauma primario, la morte del padre. La mette in scena nel modo irruente e scoordinato a cui ci ha abituato: mischiando i tempi, creando una linea di narrazione in prima persona (il protagonista che parla in camera: il cinema dell'autore introietta e rimanda in forma di schegge modi e mondi dei grandi cineasti francesi, nouvelle vague in primis), per smentirla, alla fine, con il frammento in cui è la madre (Juliette Binoche) a prendere le redini del racconto e a chiosarlo. A chi stanno raccontando queste cose, Lucas e sua madre? Al pubblico: come faceva il Louis Garrel all’inizio di Dans Paris, ché - al di là di ogni realismo - c’è sempre in Honoré una coscienza precisa di rappresentazione, di struttura finzionale forte da smentire, da far collassare, da mettere a nudo o dalla quale, anche per una sola sequenza, distaccarsi completamente. Così la prima scena del film dice già della morte paterna (la strada col mazzo di fiori nel luogo dell’incidente), mentre la seconda racconta del tragitto per portare quei fiori sul selciato. Poi il film va ancora indietro a mostrarci il rapporto tra Lucas e il padre in quella prova generale dell’incidente che condurrà alla morte Claude, un viaggio in macchina presagico che serve a inquadrare il rapporto padre-figlio e un modo di comunicare. È una cronaca disordinata quella a cui stiamo assistendo perché si sta costruendo in maniera estemporanea, attraverso le parole di Lucas - che affastella impressioni, ricordi, considerazioni e cerca di allinearli con precisione -, ma anche con le anticipazioni, i ribadimenti, le inevitabili lacune da colmare - sulle quali si torna -, che caratterizzano un discorso verbale. Così il racconto della prima giornata parigina, accennando appena all’incontro sessuale e al colloquio col prete, arriva direttamente alla sera. Solo in seguito - con uno dei consueti u-turn che punteggiano la sua filmografia - il regista fa riprendere a Lucas quegli episodi. Quando? Quando il ragazzo sente di avere la lucidità, il coraggio o la voglia di narrarli.

È questo impressionismo a fare da sempre di quello del francese un cinema vivissimo e personale, qualcosa che si apparenta alla disinvoltura di altre arti (Honoré è anche romanziere e regista teatrale, il suo un cinema transdisciplinare per vocazione). Quindi, per esempio, non sorprende che quello che è un ricordo personale, un evento cruciale della sua giovinezza, il regista lo ambienti nel presente (un presente ineludibile: non siamo in un’attualità qualsiasi, siamo in piena pandemia, è l’oggi che più oggi non si può, il tournage è iniziato alla fine del 2021), che la comunicazione tra madre e figlio avvenga attraverso lo smartphone, che si girino filmati e si scattino foto da inviare via whatsapp. Perché bastano certi umori ad evocare l’epoca reale dei fatti (le note degli Orchestral Manoeuvres in The Dark, le mise del fratello Quentin che sembra vivere in un’incongrua bolla anni 80), in quel tipico mescolare i tempi del regista che, solo per dire di titoli recenti, si trova, esplicito, anche in L’hotel degli amori smarriti

Rapsodico, scostante come l’adolescenza che racconta, Le Lycéen dice anche dell’uscire dal nido, della scoperta della metropoli (un nuovo Dans Paris) che è anche una scoperta di sé e delle possibilità di vivere se stessi, il proprio corpo e il sesso in una maniera diversa dal quieto rapporto a due (Lucas ha già avvertito il suo fidanzatino: non lo ama). Da questo punto di vista il lutto è un terremoto che porta il ragazzo ad accelerare il suo interrogarsi esistenziale: si spiegano in questo senso il suo dubbio sul possibile suicidio del padre (che in macchina parla di infelicità) e il timore di essere solo tollerato nel microcosmo familiare («Papà era deluso dal fatto che fossi frocio?», vedi anche L’infamille, romanzo cruciale del 1997 che contiene, tematicamente - ma in maniera ben più inquietante e perversa - Le Lycéen e Dans Paris).
«Siamo solo conchiglie sparse sulla sabbia» canta Lilio, ché la canzone di Andrea Laszlo De Simone ha un ruolo di didascalia implicita, ché Lucas si sta confrontando con la vacuità del tutto, sta prendendo coscienza di come l’esistenza sia in balia degli eventi («Vedi, non serve a niente ripararsi dal vento»). Il disordine del film, dunque, è lo specchio di quello interiore del protagonista («Non mi piace la mia mente in questo momento, preferirei fosse il corpo a occupare tutto lo spazio») che si innamora di Lilio, che reagisce al suo vendersi offrendosi di prostituirsi al suo posto: il lutto, la tristezza, la grande città, l’infatuazione incontrollata lo destabilizzano. Una lezione di vita - quella che gli fa Lilio in musica - che Lucas dimostra, alla fine, di aver  appreso.

Ed è miracoloso il modo in cui Honoré riesce a tradurre questo muoversi continuo tra malinconia, pianto, leggerezza, entusiasmo improvviso, con una naturalezza e una verità abbacinanti, senza mai cadere nella trappola pietistica o patetica. È lo stesso miracoloso modo in cui i visi di Paul Kircher, Juliette Binoche e Vincent Lacoste passano dal luminoso sorriso alla lacrima fino al singhiozzo (la crisi di pianto di Lucas quando il dolore gli scoppia dentro).
Che poi a colpire davvero al cuore è la rivelazione, all’inizio del film, che nel ruolo di suo padre c’è proprio lui, Christophe Honoré, un atto così significativo e simbolico, ma anche spontaneo nel suo voler prendere quei panni, nel voler vedere il se stesso ragazzo attraverso lo sguardo del padre che davvero, ancora una volta, nella sua semplicità drammatica, ci lascia senza fiato.

ELECTRICITY

Our one source of energy
The ultimate discovery
Electric blue for me
Never more to be free

LE STORIE

Riconnettersi alle storie. Il cinema di Christophe Honoré parla dell'attrazione-repulsione per il nucleo, del (non) trovare il proprio posto nel mondo, della postura esistenziale del naufrago, del bateau ivre, la più ricca di trionfi, tohu-bohu e disperazioni. Arriva il tempo - al cinema se non nella vita - in cui ci si scopre improvvisamente pronti a collocarsi, a modo proprio, dentro una trama. Honoré fa passare quel momento attraverso il film autobiografico da quarant'anni rimandato a proposito della prematura scomparsa paterna. Ma lo fa a modo proprio: «volevo stare molto attento a non fare un film nostalgico. Molti registi evocano la loro adolescenza ed è anche un modo per ricreare un'epoca, attraverso scenografie, costumi, musica. A me non interessava, volevo concentrarmi sulle emozioni, sui sentimenti, per non farmi prendere da un'onda malinconica e dolce. Volevo provare a ritrovare la violenza e la brutalità di questo momento particolare. Ecco perché mi sono subito detto che dovevo trasporre e riprodurre queste scene oggi. È su queste due idee che si costruisce il film: non aver paura di attraversare sentimenti e un periodo che non è stato il più sereno della mia vita, ma evitare la nostalgia, il compiacimento, cercando di metterlo a confronto con un giovane di oggi e con il desiderio di ritrarre un giovane di oggi». Riconnettersi alla propria storia biografica prevede anche di riconnettersi alla propria personale linea dentro la storia del cinema e l'operazione è cristallina fino dal casting: il regista si prende il ruolo del padre e significa al tempo stesso "perdonare" il proprio padre e accettare di essere il padre che era negato nelle "famiglie queer" dei film passati; Juliette Binoche e Paul Kircher (figlio di Irène Jacob) non possono non rimandare ai due estremi del tricolore di Kieslowski, i due studi sul lutto, la separazione dal mondo e l'amore come lingua degli angeli che stravolge i piani umani; Vincent Lacoste è l'attore feticcio, la continuità, ma anche l'accenno a tutto un nuovo cinema francese cui Honoré guarda - Xavier Giannoli in primis - per ibridare ulteriormente il proprio stile. L'attesa quarantennale paga: Le Lycéen, oltre che culmine, è oggetto speciale all'interno della sempre ambiziosa, coraggiosa, deterritorializzante filmografia del regista. Perché è un labour of love e anche perché è stato così a lungo pensato. È un'opera più grande, un capolavoro, un scarto ulteriore che esorbita per verità privata e autoriale. E per attenzione, cura - succede quando di tratta di amore. Per precisione.

FILM ROSA

Sono plurimi i miracoli dentro Le Lycéen. Per trasporre il vissuto privato in partitura emotiva eseguibile - non a caso era letteralmente il tema di Film Blu con Juliette Binoche in carico dell'operazione come mezzo per far vincere l'amore sulla morte - utilizza vari strumenti tra cui attori, clima, colore. Se Le Lycéen è un complemento queer ai Tre colori, allora non può che essere "Film rosa". Il rosa è dappertutto nelle inquadrature come tono medio standard e come punctum. Il lavoro di Rémy Chevrin è sensazionale: la prima scena (una panoramica di una strada extraurbana che si sofferma sul luogo di un incidente stradale) è subliminalmente virata a un rosa che si impasta al bianco trasparente della luce invernale. Segue il lettering dei titoli di testa in rosa per nulla subliminale. E poi vistosissimi maglioni rosa, fiori rosa (tutti oggetti transizionali di desideri e sentimenti) e anche palazzi rosa, pareti rosa... Se il film vuole e riesce a essere sismografo, strumento di precisione tutto comincia dalla temperatura tanto emotiva quanto atmosferica. Il termometro del film è dettato da un continuo accurato dosaggio di rosa e freddo. Raramente si è visto un film tanto riuscito nel far sentire il freddo, come si attaccasse alla pelle attraverso lo schermo - e armonizzarvi fotografia e recitazioni. Il gelo savoiardo di strade vuote notturne, brina e nebbia, fiato che condensa, luce rifratta e resti di neve e l'altro freddo parigino, città dalle strade quasi altrettanto deserte durante un jogging mattutino o nella scena più incantevole nel suo vuoto di tutto il film quando il winter boy deluso si lascia caracollare e attrarre, falena che non può raggiungere i riflessi rosa del palazzo dell'amore, verso le luci bianchissime freddissime accecanti di un cartello del metrò. Sono tipi di freddo differente e ne percepiamo tutte le sfumature. Diremo dei temi dominanti queer e flâneur: cominciamo a segnalare, a proposito di pattern visivi e cromatici, come i vestiti elaborati, i maglioni e la camicie patchwork del protagonista e dei comprimari collaborino nell'allusione a territori tanto fisici quanto mentali che reclamano la propria queerness, in senso stretto e lato. Se, come detto, il casting non può non far pensare a un discorso ipertestuale profilmico, la miracolosa autenticità del film deve moltissimo all'aderenza degli attori ai personaggi, alla naturalezza di una recitazione tanto perfetta da raggiungere il grado zero, l'impressione che nessuno reciti, Juliette Binoche in primis. L'espressione, nel finale, del sollievo materno attraverso alcuni palleggi e tiri a canestro restituisce tutta la verità della gioia che rompe gli argini del previsto con atti senza senso - chi ha mai immaginato Juliette Binoche che gioca a basket? Non sappiamo se lo sia ma la scena ha il feeling dell'improvvisazione. E poi c'è l'incredibile semi-esordiente ma doppio figlio d'arte Paul Kircher, il suo ritratto di adolescente tutto slanci, sorrisi spalancati a pieno viso, smarrimenti e crucci, ora Rimbaud (il grande archetipo adolescente francese, anche lui venuto a Parigi dai limiti montuosi della Francia per trovare, tra le altre cose, l'omosessualità), ora Antoine Doinel, ora lost boy. Honoré dichiara di aver voluto il più possibile "avvicinarsi all'adolescenza", alla sua verità, ed essendo il suo un lavoro precisissimo, Kircher risponde con una recitazione che è una traduzione dei sentimenti adolescenziali universali, una recitazione che svaria dall'obliterazione del corpo al suo esorbitare (i passi di danza a caso, pura gioia, puro eccesso) per cui i messaggi passano - come in tutto il cinema di Honoré - dal corpo.

SESSO, SPAZIO E CANZONI

Il cinema di Honoré ha spesso inglobato il registro pornografico come nel seminale e foucaultiano/debordiano Homme au bain. Anche nell'economia del relativamente più casto Le Lycéen i corpi, il sesso sono decisivi. Lucas, l'adolescente, è (vorrebbe provare a essere) perverso e carnefice, è innocente e romantico e risulta sexy per entrambi i motivi. Il suo corpo viene indagato dalla macchina da presa di Honoré nei suoi aspetti alieni: le spalle strette, le gambette troppo piccole, il collo lungo e curvo da xenomorfo. È un corpo in fieri, mutante. Il senso dell'adolescenza passa dal suo corpo come dalle sue relazioni con i corpi che coabitano nell'appartamento parigino: il corpo queer (corpo del desiderio) incarnato dal corpo "perfetto" di Erwan Kepoa Falé e il corpo straight di Vincent Lacoste rappresentato nell'incarnazione contemporanea fluida in termini di immaginario e cromia (i capelli decolorati, i maglioni camp, la vita bohémien di successo) come quello che resta del maschile dopo la morte del padre, fratello maggiore, modello di riferimento/contrapposizione. Il sesso è anche la chiave dello spazio. Da che mondo è mondo la necessità di nuovi partner sessuali e l'opportunità di diversi corredi genetici è spinta evolutiva all'esplorazione. Lo sviluppo sessuale e conseguente tempesta ormonale è lo stesso meccanismo su scala individuale piuttosto che di specie. È il sesso, il "cruising" in forma analogica o digitale, a portare fuori e nel caso di Lucas la scoperta di Parigi (ossia: la formazione) passa anche dagli incontri Grindr. Parigi opposta alla Savoia/provincia come antonomasia di diversi spazi per diverse fasi esistenziali non ricorda solo la vicenda di Rimbaud ma ovviamente ancora prima la Commedia Umana di Balzac - ed ecco, tornando a Giannoli e al nuovo cinema francese, un film imprescindibile come Illusioni perdute, con Vincent Lacoste. L'arrivo in città è un topos anche se le intenzioni del protagonista sembrano piuttosto lontane da quelle di Rastignac o Lucien de Rubempré o del Bel Ami di Maupassant. E perfino il vagabondo Rimbaud, l'enfant terrible dalle suole di vento che voleva calpestare tutto il mondo e non legarsi a niente, aveva sognato la presa del potere letterario. Nessuna smania di conquista, nessuno studio militare della toponomastica sociale parigina invece per Lucas. Lo spazio psicogeografico urbano resta quello preferito da Christophe Honoré: un luogo scoordinato fatto di attrazioni e distanza, pieno di luci, passaggi da scoprire e esplorare, andando alla deriva, entrando in chiesa a pregare o da un coetaneo a scopare in entrambi i casi senza fine che non sia sperimentale. Parigi percorsa da Debord meno la teoria. Infine le canzoni hanno un ruolo centrale - e non stupisce da parte dell'autore del musical queer e camp Les chansons d'amour. C'è una playlist "winter boy" che giustappone Orchestral Manoeuvres in the Dark, Andrea Laszlo de Simone, Toto Cotugno, un pezzo trap francese non meglio identificato, Robert Palmer (chiaramente canzoni coeve o all'epoca del fatto biografico di Honoré o alla diegesi contemporanea). Electricity degli OMD scatena un momento di ballo famigliare nell'apice del lutto ed è attraverso scene simili che passa la magnifica, essenziale e antinaturalista trattazione del tema da parte del regista-sceneggiatore. Mai un momento stantio, monodimensionale, stereotipato, banalmente lugubre, formale come vediamo nella grande maggioranza dei film in cui si muore. Piuttosto la verità di un evento che strappa il mondo (come diceva uno che non faceva sconti a nulla e quindi rappresentava la morte meglio di ogni altro, Ingmar Bergman): una galassia complessa e contraddittoria di emozioni e reazioni fisiche. È un film che conosce e asseconda i tempi e le fasi del lutto, quanto ci mette la morte degli altri a prendere consistenza e poi le fluttuazioni, le negazioni, la furia e la dissociazione e quel momento improvviso quando si sente che dentro tutto va a pezzi. Ma anche le allegrie generate dalla vicinanza forzata dei corpi, per cui Electricity - che poi Lucas fa ascoltare al giovane boyfriend prima di scoparci, perché Eros e Thanatos sono l'associazione più sana e terapeutica eppure quasi solo i francesi riescono a mostrarla serenamente liberata da tabù cattolici (ricordo molti anni fa quanto fu sorprendente e liberatorio il dialogo di un altro caposaldo del cinema di formazione queer, Les roseaux sauvages di André Techiné, quando Stéphane Rideau dice di aver consolato la moglie del ragazzo ucciso in Algeria "scopandola tutto il giorno" dopo il funerale). La poesia sghemba e lunare di Andrea Laszlo de Simone invece fa da collettore alla tensione romantica del film, la (ri)apertura all'altro e al mondo attraverso l'amore come complemento dell'elaborazione del lutto che ci riporta alla trilogia di Kieslowski. Lucas si innamora di Lilio mentre quest'ultimo gli suona Conchiglie e sembra per primo vederlo e riconoscerlo; il film si chiude con Lucas che la interpreta per ridonarla a Lilio via filmato whatsapp. È il ritorno alla vita del protagonista e, saldati i conti col passato, la riconnessione al tempo presente del cinema di Honoré: un atto di tenerezza come regalo speculare, una clip girata col cellulare da Juliette Binoche. Lucas può rigettarsi nel mondo, Honoré regista può dimettersi, Honoré padre può sparire.

WINTER BOY

Abbiamo già detto in quali modi il liceale/adolescente risulta archetipo e specifico grazie alla camera di Honoré e all'interpretazione di Kircher. Resta da trattare come la scrittura del ruolo e l'intenzione di catturare l'adolescenza in presa diretta abbiano informato la struttura del film. Dice il regista: «Sono stato molto ispirato da L'adolescente di Dostoevskij, il cui narratore prende in carico il racconto all'inizio del romanzo ma allo stesso tempo non è in grado di occuparsene. Per me era molto importante che Lucas raccontasse un passato così recente da invadere il suo presente. E soprattutto non volevo raccontare questo film dall'uomo che sono oggi con un distacco di più di trent'anni, come spesso accade con una voce fuori campo dove il resoconto è già storia, perché anche se sei sincero, spesso finisci per rimettere le cose in ordine. Lì, volevo che l'adolescenza fosse presente nella storia stessa, non solo nel tema, nell'età del personaggio, in ciò che gli succede, nelle idee delle prime volte, ecc., ma più nell'immaturità del racconto, che sembra non addomesticato. Questa voce fuori campo è esitante, balbetta, annuncia che racconterà qualcosa e alla fine parla di qualcos'altro». Il racconto del protagonista in un voice-over con messa in scena nouvelle vague da screen test che tutti diremmo omaggio a I quattrocento colpi pare sia stato invece serendipità: "quando ho ripreso Paul Kircher non pensavo necessariamente che avrei usato questo filmato nel montaggio, ma in questi 12-13 minuti di registrazione del suo testo, ha letteralmente incarnato questa voce". Lucas comincia con una tipica esagerazione adolescenziale ("la mia vita da animale selvaggio") e continua contraddicendosi senza sosta come quando giura solennemente di avere chiuso con l'amore e un istante dopo cade in uno di quei tremendi sublimi assoluti innamoramenti-cometa adolescenziali. Il suo racconto (dis)organizza la materia filmica trattando il tempo al modo in cui lo spazio segue la deriva psicogeografica situazionista, come una flânerie, facendo coincidere temi e modi - vedi per esempio il racconto caotico della prima giornata parigina. È curioso notare come i due più celebri registi gay francesi della loro generazione abbiano deciso quasi contemporaneamente di affrontare il tanto rimandato autobiografico racconto crudele di giovinezza e di formazione omosessuale ma forse ciò ci conferma soltanto l'esistenza di un orologio biologico cinematografico. È più interessante confrontare i diversi modi. Se Le Lycéen e il bellissimo Estate '85 si riferiscono a storie con tanti tratti comuni le cui radici cadono nello stesso periodo dello scorso secolo, Ozon sceglie di ricostruire accuratamente il passato attraverso costumi, scenografie, musica per tradire prima l'autobiografia pura attraverso la letterarietà e poi l'autobiografia traslata letteraria con la meta-narrazione con lo scopo programmatico di "fuggire dalla propria storia". Honoré invece vuole riconnettersi alla storia / alle storie dopo una vita in fuga ma ritiene che la verità non si trovi nella fedeltà alla lettera del particolare (proprio e dei personaggi) bensì all'universalità del sentire che mostra, dell'atto d'amore per l'esistenza.

LA DERIVA E L'ESISTENZA

Le Lycéen è un film che non potrebbe venire da un luogo diverso dalla patria di Albert Camus e Guy Debord. È un film di estrema intensità emotiva, gemello dell'altro capolavoro di quest'anno, Aftersun, un film che mette al centro l'esistenza, l'intensità dell'esistere, dell'occupare uno spazio con un corpo vivo, all the beauty and the bloodshed. È un film che sta addosso all'esistenza dichiarandone l'assoluta supremazia come solo valore assoluto e perciò rifiuta di comprimerla in struttura. È un film estuario con tanti finali che sfociano nello stesso sentimento oceanico: la corsa nouvelle vague, Juliette Binoche che dice alla camera e al marito morto "mi manchi, ti vorrei raccontare la gioia di questo momento e non posso ma devo andare avanti, non sono più arrabbiata con te", il videomessaggio con il sorriso e il saluto in fermo immagine e le note energetiche di Robert Palmer che partono sui titoli di coda... La vita è tutto questo e molto altro, è sempre oltre, di più. È un film straziante e commovente perché pieno di amore per la vita nonostante tutto il lutto; è un cinema la cui propensione alla deriva discende da una postura esistenziale. Se esiste un valore specifico all'essere queer (vale per gli individui come per le opere d'arte) è nella sensibilità per gli interstizi, le eterotopie connaturata allo stato divergente, fuori posto. È un film che ha perfettamente chiaro che non c'è niente così bello - non ci si sente mai così tanto vivi - come fumare una sigaretta di notte da soli, su un balcone affacciato sulla metropoli oppure la sensazione indefinita di armonia universale quando si esce a correre in un'alba rosata e lentamente la città si sveglia oppure - il film è ambientato in piena pandemia - com'era abbassare per un attimo la mascherina, la carica erotica, l'intimità del momento di disarmo, svelamento, simpatia. "Non si può mandare tutto a puttane per la tristezza". Ogni immagine, ogni inquadratura, ogni primo piano, ogni ambiente viene trattato come una cosa preziosa, in Le Lycéen. Di cosa abbiamo più bisogno, se abbiamo bisogno di cinema?