TRAMA
Seconda guerra mondiale. Nel corso della battaglia di Saipan, i marines Joe Enders e Ox Anderson vengono incaricati di proteggere dei code talkers, indiani Navajo, che usano un codice militare basato sulla loro lingua.
RECENSIONI
La guerra è sempre un grande spettacolo soprattutto se se ne affronta la messinscena consapevoli di questo, senza pelosi paraventi. Ecco che in Windtalkers la battaglia più cruenta e orrorifica, mantenendo tutta la sua drammaticità, si fa coreografia da macello, corpi che saltano in aria, schizzi di sangue, mani recise, movimenti di bazooka che duettano con dolorosi fili spinati conficcati nelle carni. In un balletto di agonie - uomini visti dalll'alto come formiche impazzite - Woo, senza nulla nascondere, neanche il compiacimento, mette in mostra tutto il suo straordinario talento di orchestratore, non rinuncia ai suoi proverbiali ralenti, mantenendo leggero il suo stile nella pesantezza dell'aria bellica. Cinema cinico? Probabilmente, ma cinico una sola volta e dichiaratamente, ché certi altri lo sono due volte dal momento che rappresentano lo stesso spettacolo nascondendolo dietro la falsa cortina fumogena di una tragedia posticcia. O si opta per il dramma puro (Kippur di Gitai) oppure per lo spettacolo puro [la guerra è un'occasione visiva senza pari) in cui si muore e si soffre certo, ma in nome di un ideale più sincero della patria, il Cinema. Detto questo resta un film da giudicare, film che non si esaurisce (purtroppo) nelle scene di combattimento ma che si muove su diversi piani e che su di essi non mantiene continuità: al segmento di vita nella base militare, in cui si abbozza qualche carattere, molto convenzionale, e in cui non dispiacciono alcune scene piuttosto riuscite di verità quotidiana, fa riscontro un pericoloso rovinare nel cliché (dialoghi, soprattutto, e situazioni a dir poco già sentiti e viste). Di fronte a questa pellicola ci si chiede se Woo faccia ancora marchette o se in un progetto come questo ci creda un po' di più (e se, soprattutto, questo sia un bene o un male). Certo che di ibrido si tratta e di questa indecisione il film soffre abbastanza sapendo far affidamento a tratti sulla particolarità del tema (che è quello della razza, ma visto in una prospettiva piuttosto originale) ma non sapendo rinunciare a facilonerie e superficialità. Perché il sentimentalismo, il vecchio andante dell'amicizia virile, il conflitto yankee navajo japo non solo accarezzano lo stereotipo ma a tratti puzzano anche di facile retorica da studios, pervenendo facilmente a risoluzioni telefonate, non approfondendo nulla, girando a vuoto tra i personaggi (e se Slater fa il suo sporco dovere, Cage appare più imbambolato del solito). Cosa succede? Il prepotente denaro di Hollywood continua a tarpare le ali di Woo? Probabilmente sì, se anche stavolta il regista non usa il suo talento ma lo saccheggia. Esiti controversi dunque, FACEOFF rimane il miglior titolo americano dell'orientale che, anche se guadagna di più, siamo sicuri, oggi si diverte meno che in passato. E' ancora Woo, questo? E' probabile e a dircelo sono i titoli che alla fine nominano un esercito di stuntmen, quello sì vero sul serio.
Condivido e sottoscrivo le considerazioni dell’ottimo Pacilio, ma avanzo un dubbio amletico che da sempre m’affligge: chi ci dice che Woo sia l’auteur che ci siamo convinti sia? Siamo davvero certi che quella zozzona di Hollywood l’abbia trasfigurato e dunque rovinato? E se il volontario esilio americano non avesse che messo in evidenza e dato piena forma a difetti connaturati al cinema del nostro regista cinese cresciuto a Hong Kong e trapiantato negli Stati Uniti preferito? Personalmente ho sempre trovato stucchevoli i suoi melodrammatici inni all’amicizia virile, il suo crepuscolare senso dell’onore, le sue continue apologie dell’eroismo e del sacrificio, ma ho sempre attribuito quell’aura di ridicolo che mi sembrava affliggere A Better Tomorrow o The Killer all’”occidentalità” di uno sguardo (il mio) forse inadatta a giudicare e ad apprezzare l’”orientalità” di una poetica (la sua). Da quando Woo gira negli USA, però, film dopo film sento che il politicamente corretto m’abbandona e che, bando alle ciance relativistico-culturali (si fa per scherzare...), i suoi sentimentalismi retrò, indubbiamente ingloba(lizza)ti dalla retorica hollywoodiana, mi suonano fastidiosi ora come (e, lo ammetto, anche “più di”) allora. Se quella è una poetica, beh, grazie ma non ci sto, lascio, non è la mia. Certo è che con l’ottimo Face/Off avevo avuto un sussulto: quel magistrale scambio di ruoli, quell’acuta riflessione sui “volti” del Bene e del Male, quel perentorio affermare che “l’abito FA il monaco” m’erano piaciuti assai... poi calma piatta, fino al minuto x di Windtalkers in cui il buon Navajo veste i panni del cattivo Giapponese: tornano i fasti “scambisti” dell’epoca Travolta/Cage?... macché, tutto fila liscio e va proprio come (non) ti aspetti, senza sussulti e contaminazioni di sorta. Resta il melò, lo zucchero, i dialoghi inascoltabili. E resta anche, vivaddio, la consueta tecnica sopraffina, il riconoscibile e personalissimo virtuosismo, l’entusiasmata, estatica estetica della violenza sulla quale sarebbe inutile dilungarsi... sul fatto invece che/se un’estetica basti da sola a fare una poetica e dunque un Autore ci sarebbe da dilungarsi troppo e col rischio di non cavare il classico ragno dal classico buco. Non ce la faccio a non chiudere con almeno due parole su Nicolas Cage: il suo mestiere sarebbe quello di recitare, ma la cosa ha ormai varcato da miglia e miglia le Colonne d’Ercole dell’oltraggio al pudore...