TRAMA
Il Pacific Crest Trail è un sentiero di trekking che parte dal deserto del Mojave e attraversa la California e l’Oregon fino allo Stato di Washington. Nel 1995 la ventiseienne Cheryl Strayed, reduce da un divorzio e dopo la morte della madre, decide di percorrerlo in solitaria.
RECENSIONI
Non è un film sul rapporto tra un personaggio e la natura in cui è immerso. Non gliene importa nulla a Cheryl Strayed, dalle cui memorie il film è tratto, del Pacific Crest Trail, almeno fino a quando non si caccia incautamente nell’impresa di percorrerlo. Ma, soprattutto, non è un Into the Wild al femminile: nessun ideale, anticonformismo, scelta ponderata, animano la protagonista e la sua fatica. Ciò a cui assistiamo è più che altro l’elaborazione di un lutto. Un momento, per Cheryl, di isolamento totale per capire che fare della propria vita dopo che le cose sono andate in modo diverso da come sperava, e droga e sesso compulsivo sono diventati un anestetico per un dolore che chiede di essere affrontato.
Con la morte della madre, molto amata, sebbene in modo conflittuale, la giovane protagonista resta infatti per la prima volta senza punti di riferimento, sotto il peso di una quotidianità schiacciante. Tutto sembra ricadere sulle spalle di Cheryl, il mutuo della casa, un fratello fragile e assente, lo spettro di un padre violento. Non è nemmeno in grado di godere dell’amore di un marito comprensivo, perché con troppi nodi irrisolti e sensi di colpa per vivere il rapporto con serenità. Per mostrare questo percorso catartico il canadese Jean-Marc Vallée adotta uno stile (già evidente in C.R.A.Z.Y. che gli ha dato notorietà internazionale) che antepone l’ascolto al giudizio, e argina cliché e banalità nonostante premesse tutt’altro che originali e situazioni a rischio “cartolina del dolore”.
Già creare curiosità nei confronti di una protagonista borderline e con ben poco di interessante da dire e dare non è cosa facile, ma il regista raccoglie la sfida andando alle radici dei suo malessere. E lo fa evitando la linearità e optando per flashback che, però, non sono didascalici, ma più che altro suggeriscono, indirizzano, stimolano. Non tutto è infatti sempre completamente a fuoco nelle motivazioni dei personaggi, nel loro agire e interagire, e questo aiuta a mantenere vivo linteresse nei confronti della vicenda.
La sceneggiatura di Nick Hornby (evidente il suo contributo nei numerosi riferimenti musicali) non osa granché, ma ha il pregio di impostare una progressione efficace, utilizzando stereotipi (il ripetuto confronto con l’animale ferito in cui specchiarsi, il bel musicista con cui fare sesso), ma anche cavalcandoli (il rude villico in trattore che non si rivela un maniaco, il compagno di camminata con cui non nasce un flirt). Tra gli incontri più riusciti l’intervistatore di barboni e quello, misterioso ed evocativo, con una donna e un bambino sulle tracce di un’alpaca. La natura è ovviamente protagonista trasversale, la sua forza e bellezza sono un dato di fatto, ma finisce per essere più un mezzo che un fine.
Reese Witherspoon conferma la sua determinazione: ha opzionato il libro, fiutandone le potenzialità, prima ancora che fosse pubblicato e ne co-produce la trasposizione ritagliandosi il ruolo di protagonista assoluta per cui è stata candidata all’Oscar come Migliore Attrice. Una capacità imprenditoriale notevole, ma anche, va riconosciuto, un’interpretazione apprezzabile. C’è anche Laura Dern, eccessivamente incensata (anche lei candidata all’Oscar, ma come non protagonista), per un ruolo, quello della madre dinoccolata, impulsiva e amorevole, in cui si limita a fare Laura Dern. Pur con qualche sbavatura, quindi, un’operazione complessivamente riuscita che circoscrive la retorica del viaggio come purificazione e racconta la presa di coscienza risolutiva di un personaggio problematico e tendenzialmente poco empatico.
