TRAMA
Cosa unisce un bambino sopravvissuto al cancro, la ragazza più isolata delle scuole medie che ritrova il suo primo amore, un professore di sceneggiatura in crisi esistenziale e una donna alle prese con i rimpianti della vecchiaia? Wiener-Dog, un bassotto itinerante che attraverserà le vite di questi quattro personaggi, ciascuno colto in un momento di transizione o difficoltà.
RECENSIONI
Quanto è crudele il cinema di Todd Solondz? Una domanda che ci poniamo sinceramente, senza retorica. C’è crudeltà in questo cinema così acido e rivelatore, sicuramente doloroso ma carico spesso del più spiazzante sarcasmo?
Certo è che nella carriera di Solondz (otto film all’attivo con questo Wiener-Dog, in pre-produzione Love Child con Penélope Cruz) ogni spettatore avrà trovato la sua linea di confine, il limite oltre il quale l’irrompere della realtà sembra lasciare il posto a un beffardo accanimento d’autore. Ma forse questo passaggio è solo la reazione più immediata e fisica a un dialogo ben più complesso ed elaborato, quell’incontro di umanità e cinismo attraverso il quale il riso si spezza a favore di una vicinanza tra spettatori e personaggi che arriva improvvisa, disagevole, non voluta. Araldo di quell’infinito numero di esistenze e circostanze che il cinema (più in generale il racconto collettivo) americano ha chirurgicamente rimosso dal proprio immaginario, o in alternativa ammesso ma solo se all’interno di codici drammatici e catartici molto precisi e ormai storicizzati, Solondz costruisce i suoi film come trappole di empatia non richiesta, sentieri apparentemente definiti da umorismo nero, stilizzazione dei caratteri e forme ultrapop, ma di fatto circuiti emotivi direttamente connessi ai mostri di un reale più o meno quotidiano che di colpo ci ritroviamo vicino, intimo, umano. Pedofilia, disfunzione emotiva e psichica, disabilità, disperazione, vittimismo e autocommiserazione, quello che sembra un oceano di fango e veleno e merda diventa il contatto obbligato con una prospettiva altra, appena fuori asse rispetto alla nostra. Perché queste forme di disagio sono comunque insite nel legno storto da cui nasce la natura umana, e non possono per questo essere risolte o magicamente superate (Palindromes è alquanto esplicito a riguardo).
Che ci sia cattiveria o meno in queste considerazioni è un fatto che può e deve rimanere a discrezione dello spettatore, entità che Solondz ha sempre rispettato profondamente e mai guidato dall’alto di una morale precostituita. Non fa eccezione all’approccio questo Wiener-Dog, in cui la tipica coralità narrativa si radicalizza in un’ampia struttura a episodi, quattro frammenti che raccolgono gli altrettanti padroni che si susseguono nella vita di un bassotto particolarmente itinerante.
L’escamotage narrativo è evidente; per quanto determinante nei primi due episodi, la presenza di Wiener-Dog funge soprattutto da scusante per tracciare una parabola umana sulla disillusione crescente e sul ciclico confrontarsi con la morte. I tasselli di questo percorso sono: un bambino scampato al cancro, la rediviva Dawn Wiener di Fuga dalla scuola media (di cui Solondz aveva mostrato il funerale nell’apertura di Palindromes), un professore di scrittura cinematografica sull’orlo di una crisi esistenziale, un’anziana donna i cui ultimi giorni di rimpianto vengono interrotti dalla nipote in cerca di soldi. Una squadra di personaggi in perfetto stile Solondz, fedeli a una poetica da tempo riconoscibile ma capaci comunque di ritagliarsi un loro spazio di autonomia. Del resto, rispetto agli argomenti affrontati fino allo splendido Perdona e dimentica, Solondz sembra aver voluto alleggerire il peso dei propri mondi narrativi, probabilmente per evitare di trasformare le sue ossessioni in cliché. Il tentativo di cercare strade che fossero almeno in parte nuove era già evidente con Dark Horse, per la prima volta così a contatto con la commedia americana a lui coeva. Wiener-Dog sembra proseguire in meglio questa poetica di intima variazione, abbracciando uno stile visivo neutro all’interno del quale far prosperare un disagio esistenziale più diffuso, universale, meno ancorato alle grottesche mostruosità partorite dal chimico benessere della borghesia americana.
Certo, anche qui tornano personaggi isolati e incapaci di relazionarsi al tessuto sociale, corpi estranei espulsi per mancanza di normalità, soddisfazione, felicità espressa, ma lo sguardo d’insieme è meno acido ed eversivo rispetto al passato. A dominare è piuttosto un senso di malinconia diffuso capace comunque di affondare i denti nell’ipocrisia dei sistemi costituiti, soprattutto quegli artistici inerenti le università di cinema e il mondo dell’arte contemporanea. Quest’ultimo è chiamato in causa con un colpo di coda che ha il sapore della ferocia di un tempo, come altrettanto crudele appare la fine impietosa cui va incontro Wiener-Dog (ribattezzato dalla sua ultima padrona Cancer), ma la generale atmosfera che traspare dal film è quella di uno sguardo attento alle insoddisfazioni e sofferenze più banali, piccole, quotidiane. E se i dubbi riguardanti la cattiveria di Solondz possono comunque rimanere leciti, Wiener-Dog ci offre la prova più evidente di quanto egli ami, oggi forse più di prima, i suoi personaggi. Dawn Wiener torna infatti dalla morte suicida e resuscita a nuova vita, un dono che la porta all’incontro con il suo primo spasimante Brandon e a quello che forse sarà un futuro sentimentale assieme. Poi certo sopraggiungeranno i rimpianti e le insoddisfazioni, l’amarezza e la paura della morte, ma è un destino che attende tutti, spesso in solitudine. In attesa della vita e dei suoi orrori Solondz regala alla sua Dawn la speranza di un amore, cristallizzato in quell’infinito quadro di tempo garantito dal cinema.