DISNEY+, Drammatico, Musical, Recensione

WEST SIDE STORY

Titolo OriginaleWest Side Story
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2021
Durata156'
Sceneggiatura
Trattodal musical di Leonard Bernstein, Stephen Sondheim e Arthur Laurents
Fotografia
Scenografia

TRAMA

New York, anni 1950. Mentre la rigenerazione urbana avanza nel West Side di Manhattan, il quartiere è conteso da due gang rivali: i Jets, composti da immigrati europei di seconda generazione, e gli Sharks, una banda di immigrati portoricani.

RECENSIONI

Sfavillante e terminale: un lungo orgasmo che si chiude con un epitaffio.

Dalle rovine del presente, il sogno del (cinema) passato riaffiora, ed un'idea di cinema puro trionfa, prima di congedarsi, forse definitivamente.

Un altro tempo, un'altra storia, nuove e vecchie figure che cercano a place for them. Uno sforzo prometeico, e sublime; un'esperienza che vale la pena di essere vissuta ed esperita, come l'amore, nonostante il suo carattere effimero, e la fine già scritta. Viverla, e goderne, oggi: per la bellezza del gesto.

Nelle ultime due decadi, mentre le immagini e le storie si facevano sempre più piccole – così piccole da rischiare di scomparire, definitivamente, dai nostri (grandi) schermi –, il cinema di Spielberg diventava sempre più grande. Fin da War Horse, l'autore ha inteso riedificare il Mito per re-incantare lo schermo, innalzando un vero e proprio “sistema-fortino” dentro il quale arroccarsi per preservare la settima arte, lottando contro la proliferazione, indistinta e dissennata, di immagini senza sguardo e di occhi che, come una palla demolitrice, distruggono ciò che (non) vedono. Con West Side Story, l'autore prosegue e porta a compimento il suo discorso, con una consapevolezza e una disillusione inedite. La sua nuova, magnifica Visione è, infatti, abbagliante ed insieme spettrale; il suo sguardo continua a sprigionare luce, ma proietta egualmente sullo schermo il suo opposto: ombre affilate come coltelli, splendide ma mortifere.

L'adattamento firmato Spielberg/Kushner della celeberrima commedia musicale del 1956 (su chi parla di remake e di inutilità dell'operazione, eterno anatema!) è come un miraggio, sporco, sudaticcio, materico ed evanescente al tempo stesso, nel quale i morti risorgono non, come in passato, per dare un senso alla Storia (salvare un soldato, un paese diviso, una comunità, il nostro presente), ma per assecondare il trionfo di un gesto cinematografico autotelico e di inaudita potenza, che trova il suo fine nel racconto della sua stessa fine. Spielberg non sembra più confidare nel potere taumaturgico e palingenetico del Grande Racconto. Per questo, cesella, da oramai solitario artista e artigiano, un'opera che parla di ciò che solo conta e di ciò che solo incanta. Il cinema, nel suo essere, nel suo farsi e nel suo darsi, sembra suggerirci l'autore, è l'unica realtà che valga la pena di essere vissuta e raccontata, oggi; l'unico motore in grado di (ri)animare, disseppellendo, ciò che più non è e che più non sarà.

La vera storia d'amore che il regista mette in scena, e che tutto muove e commuove, non è quindi (solo) quella che conosciamo, tra Tony e Maria, ma un'altra: quella tra l'autore e la settima arte. In West Side Story, Spielberg ci parla di sé, del “Bad Boy” senza padre che avrebbe potuto essere, e che ha rischiato di essere, se non avesse trovato nel cinema il suo place to be, la sua fiamma, la sua accecante speranza di bianco vestita, la sua Maria. Ed è questa “fiamma” originaria ad illuminare il film, pura luce che resiste e lotta, per 156 minuti, contro le ombre che essa stessa proietta, contro il passare del tempo, contro la morte e la fine: del film, del cinema. Cinema allo stato puro, come illusione e rifugio, esattamente come la cripta, divenuta museo, nella quale si ritrovano gli innamorati. In quel luogo separato dal mondo, la vetrata irradia lentamente di mille colori il loro spazio e i nostri occhi. Con loro, viviamo una magia che è magnifica illusione: il sole è semplicemente sceso e, filtrando attraverso la vetrata, ha proiettato nello spazio un incredibile, ma “reale”, florilegio di colori.

Con West Side Story, Spielberg firma un meta-melo struggente, un sogno d'amore puro che risplende sulle rovine del mondo contemporaneo e si esaurisce nel presente della visione. Un sogno senza futuro, quindi, ma carico di passato, in cui confluiscono e convergono non solo tutto il cinema dell'autore, che si autocita a più riprese (da 1941-Allarme a Hollywood a Indiana Jones e il tempio maledetto, da Jurassic Park a Salvate il soldato Ryan, passando per Munich e Lincoln, che narrano parimenti di conflitti comunitari), ma il cinema hollywoodiano che ha forgiato il suo immaginario di adolescente e adulto appassionato: dal musical minnelliano al noir, dalla commedia slapstick al melo fiammeggiante, senza contare gli amici della New Hollywood (Scorsese, De Palma e, soprattutto il Coppola de I Ragazzi della 56a strada e di Un sogno lungo un giorno). Più che sterile e necro(cine)filo citazionismo (à la La La Land), quello di Spielberg è un esempio di “necro-follia” tentacolare e onnicomprensiva: il ritorno di fantasmi cinematografici dall'oltretomba; un'ultima danza, irresistibile, sulle rovine del sogno americano, e prima del tanto annunciato tramonto del cinema. Ombre, polvere, specchi, finestre, cornici, ovali cimiteriali, riflessi, panni bianchi che assomigliano a sudari: tutto, nel film, sembra rinviare, contemporaneamente, allo splendore del dispositivo filmico e alla (sua) fine imminente, come se la vera dialettica interna al film, la vera opposizione, non fosse quella diegetico/narrativa, tra le bande Jets e Sharks, e tra i generi (gli uomini, maschi tossici e ridicoli, ragazzi perduti e disillusi, animali notturni mossi da pulsioni di morte; le donne, portatrici di ragionevolezza e speranza), ma tra l'arte e la sua negazione. Se, come suggerisce Tony, non c'è distinzione tra vita e amore, vita e (amore per il) cinema si confondono, negli occhi e nella mente di un autore che, per la prima volta, ci racconta di una paura intima, personale: quella di scomparire, lui stesso ed il proprio sguardo, con il (suo) cinema; di divenire egli stesso ombra; di non poter più parlare al mondo; di non poter più aprire squarci di pura meraviglia nella nostra terra desolata, come ha sempre fatto e come fa, in maniera incredibile, in West Side Story (su tutti, la fenomenale “America”, con i suoi ragazzini scalmanati che, verso la fine della sequenza, si uniscono alla danza, mentre gli spettatori “borghesi” scrutano la scena meravigliati).

Come per esorcizzare la paura della fine, della stasi, opponendo ad essa un dinamismo forsennato ma ragionato, lo sguardo dell'autore, vero protagonista del film, attraversa lo spazio in lungo e in largo senza sosta, con una fluidità che non ha nulla da invidiare alle piroette digitali di Tintin o di Ready Player One. Dall'inizio alla fine, la macchina da presa danza, vola, plana, scivola, cade, si rialza, accarezza, si inclina, si raddrizza, volteggia con i suoi “personaggi-fantasma” che pure corrono, lottano, giocano, come se volessero sfuggire al loro destino: ritornare negli scantinati dai quali sono, provvisoriamente, usciti. Ma, quando la tragedia arriva, e le voci smettono di cantare, e i corpi di danzare, la macchina da presa si ferma un instante, prima di spiccare nuovamente il volo. Verso dove? L'ultima inquadratura, con il suo lentissimo Dolly, è un testamento che spezza il cuore più del dramma che si è appena compiuto. Mentre Anybodys guida la marcia funebre e Jets e Sharks portano sulle spalle il cadavere di Tony, scomparendo per sempre con Maria, la macchina da presa si allontana lentamente dalla terra insanguinata, fino a rivelare, sfiorando, le scale antincendio di un palazzo già sventrato. Su queste scale, che rievocano quelle dell'effimero sogno d'amore di Tony e Maria in una delle più belle sequenze del film, l'occhio dell'autore decide di fermarsi, osservando così la “realtà”, desolata e violenta, attraverso delle sbarre simili a quelle di una cella di prigione. Da quelle scale, Spielberg pronuncia la sua sentenza di condanna nei confronti del mondo. Ma su quelle stesse scale, che ancora resistono e tengono in piedi il ricordo di un amore, sospese tra il cielo, luogo del sogno oramai irraggiungibile, e la terra, spazio del conflitto insanabile e della guerra eterna, l'autore sembra aver trovato il suo e il nostro rifugio: the place for us, para siempre...