Drammatico

WELCOME

Titolo OriginaleWelcome
NazioneFrancia
Anno Produzione2009
Durata110'
Scenografia

TRAMA

Bilal, un ragazzo curdo diciassettenne, giunge a Calais nella speranza di oltrepassare clandestinamente la Manica e raggiungere la sua fidanzata Mina. Dopo un tentativo finito male, gli rimane un’ultima e folle possibilità: sfidare il mare, nuotando da solo verso la costa inglese…

RECENSIONI

La denuncia è tanto intensa quanto taciuta.
Welcome vive di respiri trattenuti, telefonate segrete, emozioni costrette. E’ la clandestinità della sofferenza, relegata nel più intimo silenzio, la chiave con cui Lioret affronta il tema dell’immigrazione.
In una Calais tetra e tremendamente gelida, un mare d’acqua domina la profondità di campo, si affianca al sogno di Bilal, ne predispone la sfida, ma il tutto rimane così illusorio, una via di fuga che già dal principio presagisce il fallimento. Se ci rivolgiamo al nostro entroterra invece, trionfa la costrizione, ideologica, sociopatica, spaziale. Gli interni si sorreggono su una messa in scena rigida e chiusa, l’antitesi, purtroppo veritiera, allo sconfinato grigiore dell’acqua che si estende verso quella tanto amata terra promessa. Non avendo più sogni sui quali aggrapparsi, l’Occidente, quello che ha ancora qualcosa di umano dentro, quello di Simon, vive dei rimpianti, degli effetti della propria espiazione. Riaprirsi all’altro, soffermarsi sulle colpe nella speranza di una redenzione, è l’unica chiave per cercare un riscatto. Da una parte l’incoscienza di un amore desiderato, dall’altra la lenta presa di coscienza che questo amore ormai se n’è andato.
Se Simon si avvicina dapprima a Bilal per far bella figura nei confronti dell’ex-moglie (una volontaria nel campo), la sua intenzione piano piano acquisisce una connotazione più profonda. Attraverso il giovane si riaccende anche la speranza di fare pace con se stessi, perché sebbene Simon sappia di non poter cancellare il passato (emergono lentamente i tratti di un uomo irascibile e violento), vede in Mina un modo per darsi pace.
Lioret impagina un dramma con una forte identità. Certo, le digressioni divulgative, che sembrano scemare in situazioni tipiche, ci sono, come a voler ricordare la denuncia di fondo. L’autorità indifferente e spietata, il vicino di casa inacidito e pregiudizievole, il direttore del supermarket intollerante e razzista, e giù di lì, tutte “macchiette” che manifestano d’improvviso, ciò che è reso latente in tutto il resto del discorso. Quello che conta però è la trasparenza e solidità con la quale il regista tiene in considerazione il suo spettatore. Il messaggio arriva, è reso limpido, fruibile, non facendosi mancare allo stesso tempo delle rime interne poetiche: l’intima e silenziosa solitudine della realtà in opposizione all’assordante ribalta del sogno (guardate la funzione disturbante della televisione), il rovesciamento simbolico del valore dell’acqua, la sottrazione negli affetti (in un clima di profonda sofferenza, l’unico a piangere è il personaggio più indifeso, Mina).
E’ un cinema che sa il suo perché, corretto ed educativo, in cui persino qualche enfasi “di troppo” (Cristiano Ronaldo, ancora giocatore del Man Utd e idolo di Bilal, punta il dito al cielo dopo una rete) trova una sua legittima collocazione.
Noi, pensando ad opere simili nel nostro panorama filmico, ci guardiamo intorno…

Affacciatosi al mondo del cinema negli anni ’90 come ingegnere del suono, Philippe Lioret (classe 1955) ha raggiunto la notorietà col suo quinto lungometraggio, quel Je vais bien, ne t'en fais pas (2006) che in Francia ha riscosso un enorme successo di critica e di pubblico ed è valso un paio di César 2007 agli interpreti (migliore attore non protagonista a Kad Merad e migliore promessa femminile a Mélanie Laurent). Adattamento dell’omonimo romanzo del 2000 di Olivier Adam (edito in Italia nel 2007 da minimum fax col titolo Stai tranquilla, io sto bene), Je vais bien, ne t'en fais pas era una patetica e patinatissima trasposizione cinematografica di un libro tutt’altro che disprezzabile, cosceneggiata da Lioret e dallo stesso Olivier Adam (che dunque non può dirsi estraneo all’opera di appiattimento filmico).
La premiata ditta Lioret-Adam tenta di bissare il successo con Welcome, dramma sociale sul problema dell’immigrazione e sulla legge che considera un reato aiutare clandestini entrati illegalmente in Francia. La formula è studiata accuratamente: un attore solido e affermato (Vincent Lindon nel ruolo dell’istruttore di nuoto Simon) messo a confronto con un giovane non professionista (Firat Ayverdi nei panni del diciassettenne curdo Bilal). Tema edificante propugnato e difeso contro la xenofobia dilagante e legalizzata, messaggio beffardamente umanitario esplicitato a chiare lettere nel titolo e sullo zerbino del vicino, manicheismo e buonismo da fiction televisiva della domenica sera: il populismo consolatorio imperversa. E su tutto un’atmosfera di irrecuperabile mestizia che promette tragedie e calamità in quantità esiziali. Per l’operazione lavaggio cattive coscienze non potrebbe esserci macchina più efficace.
E difatti, pur non raggiungendo l’inaggettivabile entusiasmo ricevuto da Je vais bien, ne t'en fais pas, il sesto lungometraggio di Lioret ha guadagnato consensi a destra e mancina: la cosa non mi sorprenderebbe più di tanto se gli estimatori italiani di Welcome avessero visto il film precedente di Lioret, in confronto al quale quest’ultima fatica è davvero una finesse alla Ophüls. Ma dal momento che Je vais bien, ne t'en fais pas in Italia non è uscito, l’unica spiegazione plausibile che riesco a darmi è che la nobiltà del tema metta anora una volta in secondo piano i limiti cinematografici di un film che si dibatte tra la monotonia e la grossolanità indovinando sì e no una mezza dozzina di sequenze in tutto.
Nonostante un doppiaggio avvilente (non c’è cosa peggiore dell’accento straniero di seconda mano nei misfatti di traduzione), i primi minuti hanno una loro durezza (pregevole la sequenza nel camion ispezionato), ma dall’incontro tra Bilal e Simon in poi Welcome si arena nelle secche dello psicologismo (il parallelismo tra le rispettive situazioni sentimentali): la caparbietà del giovane curdo infonde coraggio allo stagionato istruttore di nuoto, dandogli in qualche modo l’esempio per provare a riconquistare la compagna perduta. Pas mal! Se l’impianto narrativo lascia parecchio a desiderare, Lioret si sbarazza dei calligrafismi che addobbavano Je vais bien, ne t'en fais pas e gira con un taglio semidocumentaristico privo di orpelli, non brillando certo per inventiva (rigida e prevedibile la gestione delle soggettive) ma ottenendo comunque un equilibrio compositivo con la materia rappresentata che raggiunge il culmine nella sequenza della traversata a nuoto di Bilal (parzialmente guastata da un montaggio che la alterna alla lezione in piscina di Simon). Musiche strappalacrime di Nicola Piovani.

Dramma d’immigrazione ispirato ad un fatto di cronaca, j’accuse alle nuove “leggi speciali” francesi (volute da Nicolas Sarkozy) che arrivano a punire con cinque anni di reclusione chi aiuta i clandestini, anche solo ospitandoli in casa. L’ex-tecnico del suono Phillippe Lioret, regista anche di quel Tombés du Ciel basato sugli stessi assurdi eventi di The Terminal di Spielberg, redige una pellicola esemplare, anche troppo (nella sua prevedibilità), vedi la figura del francese separato, che non ha combattuto a sufficienza per trattenere la moglie e si specchia con il minorenne che fa di tutto per raggiungere l’amata. Ma ha il coraggio di non edulcorare il background degli iracheni clandestini: Bilal entra in campo con intenzione di rubare una barca e ”fottere” i nostri sistemi, i suoi amici rubano e si picchiano. Il messaggio, coraggioso, suona così: costretti o meno dalla miseria a delinquere, vanno accettati, hanno anche grandi qualità. Un dramma di denuncia doveroso, che punta il dito con allarmismo contro il neo-fascismo imperante nelle istituzioni (Lioret ha fatto un parallelo con le leggi naziste che punivano chi aiutava gli ebrei), stimola la coscienza dello spettatore che (attraverso il personaggio dell’eccellente Vincent Lindon, novello Jean Gabin) impara a conoscere il diverso e, complici le note meste di Nicola Piovani, lo porta alle lacrime. Il Corridore (la citazione del film di Amir Naderi è d’obbligo, non casuale) Bilal, piccolo campione di calcio in patria, non ha contro solo le istituzioni ma anche il destino infame.