Sperimentale

WE CAN’T GO HOME AGAIN

TRAMA

Ragazzi negli Usa di fine anni ’60: i rapporti personali, la cultura hippie, la contestazione.

RECENSIONI

- Sei tu il regista di Gioventù bruciata? Sei tu il regista de La donna del bandito? E allora cosa ci fai qui?

Il Festival di Venezia 2011 ha presentato la versione restaurata di We can't go home again, venticinquesimo e ultimo lungometraggio di finzione di Nicholas Ray: il leggendario cineasta di Galesville dopo aver ultimato la pellicola del 1976  fu colpito dal cancro ai polmoni che in tre anni lo condusse alla morte (i suoi ultimi giorni sono raccontati in Nick's Movie del 1980, girato insieme a Wenders). Ma fino alla fine, in realtà, egli continuò a lavorare sul film in sede di revisione e montaggio, lavoro interrotto solo con la sua scomparsa. In occasione del centenario della nascita (1911-2011), la Nicholas Ray Foundation, presieduta dalla moglie Susan Ray, si è applicata nella difficile opera di ricostruzione della pellicola sperimentale. Dopo aver riscritto dall'interno le regole della 'Hollywood classica' (si perdoni la vieta definizione), negli ultimi anni Ray decise di condividere la propria cultura e tecnica cinematografica, accettando la cattedra dell'Harpur College di New York. Per insegnare il cinema ai suoi alunni, il professor Ray scelse il più ovvio, immediato ed efficace dei modi: l'esercizio sul campo. We can't go home again è il risultato di questo metodo, una tesi di fine corso che si è allargata e ha gradualmente inglobato gli autori; come paradosso da una pratica teoricamente precisa e disciplinata, l'insegnamento universitario, deriva il film più estremo e libero del cineasta, una spallata all'ingessata industria del cinema americano che infatti non lo accolse, anzi lo respinse decisamente.

Con la collaborazione dei suoi studenti/attori, Ray divide lo schermo in quattro in un perenne split screen; qui scorrono le vicende quotidiane dei protagonisti, alternati ai fatti americani di fine anni '60, dallo sviluppo della cultura hippie alla convention democratica del 1968, fino alla vittoria di Nixon alle presidenziali dello stesso anno. Se in una porzione di schermo vediamo immagini, suoni e colori della società Usa di quel periodo, nell'altro seguiamo i passi dei personaggi, invischiati in vicende famigliari e sentimentali (come il dissidio dell'attivista Tom Farrell con il padre poliziotto) ma anche alle prese con il contesto macroscopico e politico della grande contestazione. Per trasmettere la tecnica cinematografica agli alunni, il cineasta adotta lo sperimentalismo più ardito (immagini sovrapposte, pellicola in negativo, uso destabilizzante di luci e colori) e lo coniuga alla minuziosa ricerca di spontaneità nella direzione degli attori; respingendo la trappola del 'cinema d'autore' che detestava (la regola: sempre l'inquadratura più funzionale possibile), Ray preferisce tirare i fili dell'mprovvisazione, cogliere espressioni e situazioni estemporanee, esplorare il fuori scena e catturare il momento fino a filmare l''infilmabile' (la bellissima ripresa di Tom che si rade la lunga barba, dopo la vittoria di Nixon, spiegando in lacrime le sue ragioni). In questo senso la divisione dello schermo, che sulla carta può sembrare ostica e difficile, aiuta a penetrare compiutamente il costrutto dell'opera, il suo sviluppo e i temi portanti. Gli accostamenti coraggiosi disegnano un senso preciso: come il titolo di giornale Nixon wins, avvicinato alla delusione dei movimentisti in una sintesi colma di significato.

Nel documentario Don't expect too much, presentato insieme al film, Susan Ray racconta la gestazione dell'opera; partendo proprio dal titolo, un aneddoto del marito che invita uno studente a non aspettarsi troppo dal suo corso-fim: appare subito chiaro il motivo di WCGHA, che da una parte rifugge il virtuosismo e dall'altra propone un'idea di cinema homemade, povero e fiero di esserlo, realizzato con la sola forza delle idee. Attraverso i racconti degli attori, amici e conoscenti (tra cui l'ex assistente Jim Jarmusch) emerge, inevitabilmente, la personalità straripante e complessa di Nicholas Ray: nella doppia veste di padre comprensivo/docente severo dei suoi alunni, si intratteneva in lunghi dialoghi con i collaboratori e interminabili sedute di ripresa, giorno e notte, escludendo anche i bisogni più elementari (nutrirsi, dormire) alla ricerca dell'inquadratura più favorevole, del momento più schietto e genuino. Lontano da Hollywood che l'aveva ormai emarginato, di salute instabile e alla continua ricerca di finanziamenti, Ray è perfettamente consapevole che sta filmando il suo harakiri: malgrado questo va avanti, considerando chiaramente le tappe del percorso non meno importanti del risultato finale. Come rovescio della genialità sul lavoro, il documento illustra anche le feroci dipendenze (fumo e alcool) che portarono l'artista verso la morte.

Proiettato come work in progress al Festival di Cannes 1973, finora mai visto completo in proiezione pubblica, We can't go home again è un film gioiosamente sperimentale, warholiano; film che propone una nuova cultura dell'immagine e insieme segue una linea narrativa logica e coerente (la delusione americana dopo il fallimento del '68); film che si chiude con la fine del regista, Nicholas Ray si impicca rendendo letterale l'autoconsapevolezza dell'opera, la certezza di compiere un magnifico suicidio. Un atto, l'impiccagione, che sarà pienamente compreso qualche anno dopo, guardando alla storia del cineasta col senno di poi.