TRAMA
Tulsa, Oklahoma, un 2019 alternativo: Angela Abar è una detective che indossa una maschera (per la precisione, quella dell’alter ego Sister Night) come tutti gli agenti di polizia della città, dopo che un violento attacco terroristico mirato, qualche anno prima, ha spinto tutte le forze dell’ordine all’anonimato. Un gruppo di suprematisti bianchi – i cui membri indossano a loro volta una versione casalinga della maschera del defunto vigilante Rorschach – diffonde un messaggio per annunciare un’imminente e apocalittica resa dei conti. Il capo della polizia – e mentore di Angela – viene trovato morto, impiccato a un albero: chi è stato?
RECENSIONI
Watchmen parla di maschere. E fa un certo effetto constatare quanto sia cambiato il significato associato alla maschera, a meno di un anno di distanza dalla messa in onda della serie su HBO, nell’autunno del 2019. No, “cambiato” non è la parola giusta: un altro livello si è aggiunto a un oggetto già imbevuto da sempre di molteplici suggestioni simboliche. Del resto, la pervasività delle maschere non è l’unico aspetto di Watchmen che sembra esser scivolato fuori dal piccolo schermo per installarsi fisicamente, tangibilmente nel nostro universo. Perfino una cosa così intrinsecamente astratta, paratestuale come i titoli degli episodi è letteralmente scesa in strada per marchiare la nostra realtà di giallo acceso.
Il decennio che volge al termine nell’autunno 2019 pare culturalmente dominato da due cose: i supereroi e la nostalgia. Prima dell’estate si è concluso, con Avengers: Endgame, il mastodontico progetto del Marvel Cinematic Universe, iniziato quasi per caso nel 2008 con il successo imprevisto di Iron Man, e poi sviluppatosi, grazie anche all’acquisizione dei Marvel Studios da parte di Disney, in un’integrazione sempre più complessa e ambiziosa di serialità e kolossal cinematografici, un edificio poggiato su diversi medium e sul merchandise, capace di dettare i tempi e i temi del cinema mainstream per un decennio (e oltre? La pandemia rende impossibile qualsiasi previsione). I cinecomic la fanno da padrone – DC Comics insegue Marvel col suo DC Extended Universe, replicando su grande schermo l’antica rivalità fumettistica – ma praticamente qualsiasi cosa si rivolga al grande pubblico diventa un franchise, o almeno ci prova. E la nostalgia gioca, in tutto questo, un ruolo cruciale: per dare ogni volta l’illusione che il film in sala sia un “evento” si scava nella miniera delle intellectual property, nomi, marchi, storie del passato che possano garantire un’immediata (anche se vaga) aura di riconoscibilità. Quasi ogni nuovo film o serie tv sembra il rifacimento di qualcosa che già è stato, e il blockbuster arriva a perfezionare una formula esponenziale, qualcosa che è insieme reboot, remake e sequel: una ripartenza in termini commerciali e d’immaginario che però ripropone più o meno la stessa trama dell’originale e che si situa canonicamente come sequel (gli esempi maggiori, ma non gli unici, sono Star Wars: Il risveglio della forza e Jurassic World). È un investimento sicuro che molto spesso raggiunge l’obiettivo (il successo commerciale globale), garantendo l’eccitazione del world building senza la fatica di dover costruire un nuovo universo da zero, e sfruttando a proprio vantaggio quella sottocultura dei fandom che, da inizio millennio e con la diffusione di internet, è sfociata nel mainstream.
Watchmen è una serie supereroica, tratta da un fumetto, di cui è insieme sequel, remake e reboot: sulla carta, sembrerebbe seguire alla lettera la ricetta di cui sopra. È l’adattamento televisivo di Watchmen scritto da Alan Moore e disegnato da Dave Gibbons (e colorato da John Higgins), serie in 12 albi pubblicati per la prima volta in Usa tra il 1986 e il 1987 dalla stessa DC Comics di Batman e Superman. La serie, prodotta con ampio budget e trasmessa da HBO pochi mesi dopo la conclusione del suo show-blockbuster Il trono di spade, è ambientata 34 anni dopo le vicende raccontate nel fumetto, introducendo personaggi nuovi e recuperandone di storici. È il proseguimento di quella storia, ma ne è anche un remake (ops) mascherato: come il Watchmen di Moore & Gibbons, comincia con un omicidio “inspiegabile”, ha una struttura che frequentemente incentra ogni episodio su un personaggio, ricalca molti dei protagonisti di oggi su quelli di allora (il caso più evidente è certo Looking Glass/Rorschach, ma anche Lady Trieu/Ozymandias). Eppure, Watchmen è non solo una trasposizione anti-nostalgica, ma si pone come diretta, e letterale, critica dell’onnipresente nostalgia contemporanea. È un sequel/remake/reboot che rivela a ogni passo lo sconfinato amore e l’immensa conoscenza dell’originale (da fan, in tutto e per tutto) e che, contemporaneamente, è in grado di dialogare con esso, di non farsi mettere in soggezione dall’aura mitica di un testo tanto seminale da esser considerato, da molti (fan e non), sacro. Non è un caso che lo showrunner Damon Lindelof, per definirlo, utilizzi la definizione di “remix”, una pratica di ri-mediazione di narrazioni e immaginari tipicamente da fan, ma che del testo si appropria in modo profondo e consapevole, per smontarlo, ricombinarlo, accostarlo ad altre fonti, e ottenere infine qualcosa di più della somma delle singole parti, un ampliamento di senso proficuo, che illumini anche l’oggetto di partenza di luce nuova.
«White men in masks are heroes»
Watchmen è ambientato nel 2019, ma non quello che conosciamo. È il futuro del Watchmen fumetto, che a sua volta era un’ucronia, una versione alternativa della Storia, un what if che provava a rispondere alla domanda “cosa sarebbe successo se qualcuno avesse deciso davvero d’infilarsi una maschera e dichiararsi supereroe?”. Già il Watchmen di Gibbons & Moore era insieme riflessione sociopolitica e metatestuale: il primo vero supereroe appare, in quel mondo e nel nostro, lo stesso anno, il 1938. Per noi è Superman, nel n. 1 di “Action Comics”; per Watchmen è Hooded Justice, un vigilante con un cappuccio da boia e un cappio al collo. I vari team di supereroi presenti nell’universo storico di Moore & Gibbons corrispondono alla diverse age fumettistiche – a cominciare dai Minuteman, il primo gruppo creato anche e soprattutto con obiettivi propagandistici, e di cui la serie Watchmen si occupa nel fittizio show dentro lo show American Hero Story, una geniale parodia delle antologie seriali di Ryan Murphy che fa spesso capolino sullo sfondo delle puntate. Secondo molti la densità dei riferimenti incrociati tra serie e fumetto e dei numerosi easter egg (letterali: le uova sono importanti e ricorrenti nello show, e c’è pure un altrettanto letterale elefante nella stanza) è tale da presupporre obbligatoriamente che non solo lo spettatore abbia letto il testo originale, ma che ne sia pure un attento cultore. Dissentiamo: nella migliore tradizione della complex tv, Watchmen costruisce un universo narrativo vasto, coerente e, sì, indipendente, che sa contare sull’attenzione e la fiducia dello spettatore, rivelandosi poco alla volta e anzi facendosi forza della propria sfacciata weirdness, soprattutto nella prima metà di stagione (di contro, sarà proprio la puntata finale a soffrire un po’ della sindrome “spiegoni”, inevitabile per dare tutte le risposte a chi, da questo tipo di narrazioni, non accetta che qualcosa sia lasciato in sospeso o alla libera interpretazione).
Scritta nel cuore dell’escalation reaganiana della Guerra fredda, l’originale Watchmen dava origine a una pionieristica decostruzione dell’immaginario supereroistico (senza la quale non avremmo avuto gran parte dei cinecomic cupi e “realistici” successivi, dai Batman di Burton e Nolan al Joker di Phillips, e nemmeno le ironiche, ma tutto sommato innocue, rivisitazioni di cui oggi è piena soprattutto la tv, da The Boys a The Umbrella Academy), esplicitando le angosce collettive per una catastrofe nucleare all’apparenza incombente. Watchmen di Damon Lindelof fa lo stesso, ma nel 2019 il terreno di scontri irreparabili, ansie quotidiane e traumi condivisi è quello razziale, un conflitto che insanguina gli Stati Uniti fin dalla fondazione, contaminando ogni aspetto della vita sociale (si dice razzismo sistemico non a caso). La domanda centrale di Watchmen «chi controlla i controllori?», il suo interrogarsi continuo sul senso di maschere e divise (il dolore che nascondono, gli abusi che consentono) riverbera nel presente in modi che paiono insieme nuovi e, subito dopo, ovvi. Nel 2019 della serie, come nel 1985 del fumetto, i vigilanti sono ancora banditi per legge, ma l’intero corpo di polizia di Tulsa, Oklahoma (il principale teatro delle vicende) è diventato un plotone di “eroi” mascherati: la ultradecennale presidenza di Robert Redford (in questo universo alternativo al posto di Reagan è stata eletta sempre una star del cinema, però ultra progressista, e senza limiti di mandato) ha mutato superficialmente l’America in un’utopia liberal, introducendo il controllo ferreo delle armi e fondi di riparazione economica per le vittime di razzismo, e parallelamente è cresciuta un’opposizione sempre più violenta da parte dell’estrema destra, che ora aggredisce le forze di polizia, portando gli agenti a celare la propria identità per proteggersi. Il viaggio dell’eroe al centro della serie è quello di Angela Abar, una detective afroamericana nata in Vietnam (il 51° stato Usa: la guerra l’hanno vinta gli americani) scampata a un massacro di suprematisti bianchi e che ora opera sotto la maschera di Sister Night, Sorella notte. La prima volta che la vediamo in azione, trascina un razzista in una stanza chiusa per estorcergli informazioni picchiandolo: lui è certamente colpevole, un membro dell’organizzazione terroristica Seventh Cavalry, ma, ancora una volta, chi controlla i controllori? Poco prima un poliziotto di pattuglia aveva fermato un uomo in auto per un controllo, in una sequenza che richiamava esplicitamente i tanti fermi immotivati e dall’esito tragico testimoniati dal movimento Black Lives Matter. Ma, in questa scena, il poliziotto è nero, il fermato è bianco, e le leggi redfordiane sulle armi imposte anche alla polizia fanno sì che a finire trivellato di colpi sia l’uomo in divisa: fin dall’inizio Watchmen sembra sfidarci, sembra volerci mettere a disagio nelle nostre rassicuranti convinzioni, ripeterci che, a dispetto di quel che crede Angela riecheggiando senza saperlo i soliloqui reazionari di Rorschach, il mondo non è «in bianco e nero».
«I wanted to meet you. And show you where you came from»
Quella di Angela Abar è una storia di traumi sepolti e di eredità svelate. Lo stesso si può dire di tutti i personaggi principali – da uno dei più strappacuore, il Looking Glass di Tim Blake Nelson, alla strepitosa, tostissima e molto, molto stanca Laurie Blake interpretata da Jean Smart, fino alla misteriosa e mefistofelica Lady Trieu di Hong Chau – ed è un rapporto che si sviluppa sia in relazione al materiale di partenza (le loro versioni da giovani, o i loro correlativi letterari) sia rispetto alla Storia e alle storie. La vicenda principale, chiave di volta dello show e protagonista di un episodio straordinario (il sesto, This Extraordinary Being) è quella di Will Reeves, che nella primissima scena della serie conosciamo bambino in una rivisitazione dell’arcinota, mitologica origine di Superman: quella di un orfano messo in salvo dai genitori mentre il loro mondo va in frantumi, e spedito su un altro pianeta, dove diventerà un supereroe. Solo che l’universo utopico di partenza non è un lontano mondo alieno immaginario, ma un luogo realmente esistito, il fiorente quartiere nero di Greenwood, a Tulsa, a inizio Novecento soprannominato “Black Wall Street”: a portare la catastrofe sono i compatrioti bianchi, poliziotti, membri del Ku Klux Klan, “normali” concittadini in una folla inferocita che si abbandona a un massacro di proporzioni inaudite, con perfino l’ausilio di bombardamenti aerei per annichilire quella comunità “colpevole” di essere nera, libera e benestante. Il piccolo Will, messo in salvo in una cesta nascosta e affidato alla clemenza del destino, si ritroverà solo, come Kal-El/Superman, nel bel mezzo del Midwest: in questa versione, però, nessuna amorevole coppia all american si preoccuperà di adottarlo e proteggerlo (il mito di Superman sarà richiamato direttamente anche in un’altra storyline, quella di Lady Trieu, nell’incipit del quarto episodio), dovrà cavarsela da sé.
Cercando di limitare al minimo gli spoiler, possiamo dire che la vicenda di Will Reeves – che si ricollegherà al già citato Hooded Justice – è il massimo e più significativo ribaltamento operato dalla serie di Lindelof (frutto, come lui stesso si preme sempre di ricordare, di un grande lavoro collaborativo e di una writers room ampia e variegata): con la determinazione di portare in superficie una Storia sistematicamente rimossa – come quella del massacro di Tulsa del 1921, realmente accaduto, il maggiore attacco terroristico della storia americana, di cui però la stragrande maggioranza degli statunitensi non aveva mai sentito parlare fino a ieri – e di restituire la narrazione supereroica a chi ne è stato non solo metodicamente escluso – gli americani non bianchi– ma ne è stato anche frequentemente vittima. La tradizione supereroistica, uno degli indiscutibili capisaldi dell’immaginario a stelle e strisce (e per estensione dell’Occidente: nell’era del Marvel Cinematic Universe c’è chi ha proposto un parallelismo tra supereroi e pantheon di divinità), è una tradizione bianchissima che, secondo lo stesso Moore, affonda le radici in Birth of a Nation, glorificazione di uomini che indossano mantelli e maschere per portare “ordine” e “pulizia” dopo la Guerra civile (e fu proprio l’enorme successo di Birth of a Nation a far rifiorire il KKK dopo il 1915). Watchmen inizia e si conclude in un cinema (e una speciale tecnologia cinematografica estremamente persuasiva gioca un ruolo fondamentale nella vicenda): la stessa sala in cui il piccolo Will guarda con gli occhi colmi di venerazione un film muto su Bass Reeves – vero eroico poliziotto nero, nel finto film fissato con ammirazione anche da bimbi bianchi – e in cui i due personaggi chiave si rifugeranno per scampare alla profetizzata apocalisse e per trovare una necessaria, agognata chiusura. Il luogo delle maschere, delle illusioni di celluloide, della manipolazione mitopoietica è anche quello in cui cercare una catarsi, una doverosa rivalsa, un’ipotesi di futuro.
«It’s bad to take someone else’s Nostalgia»
In Watchmen la Nostalgia è un farmaco (l’evoluzione dell’omonimo profumo creato da Adrian Veidt nel fumetto). Sviluppato per contrastare l’Alzheimer, è diventato prevedibilmente una droga: è facile sviluppare una dipendenza per il proprio passato, soprattutto se lo si ritiene più roseo, più semplice, più “giusto”. Una battuta con più di un fondo di verità dice che raramente i protagonisti delle storie sui viaggi nel tempo sono neri: è raro trovare un momento nel passato d’America (e anche nel presente, se è per questo) che non corrisponda a sofferenza, sopraffazione, violenza e discriminazione (forse anche per questo Lindelof e i suoi sceneggiatori ci tengono a mostrare l’esperienza simultanea del tempo propria del Doc. Manhattan, e consegnano a un paradosso temporale gravido di audace e illogica speranza il momento più commovente e romantico di tutta la serie). Ad Angela – e, insieme a lei, a noi spettatori – prendere la Nostalgia di un altro alla fine fa bene, nonostante gli innegabili effetti collaterali: libera finalmente una verità nascosta in pieno sole, un trauma troppo a lungo rimosso i cui effetti continuano a essere dappertutto, ineludibili. Watchmen è la terza serie di Damon Lindelof, e – come ha notato anche Emily Nussbaum sul “New Yorker” – è la terza che parla di trauma: Lost era la storia di sopravvissuti a un evento catastrofico (nell’immediato post 11 settembre), The Leftovers la lunga, complessa e stupefacente elaborazione di un gigantesco lutto collettivo e inspiegabile (ma quale lutto lo è davvero, spiegabile?), e Watchmen affonda con coraggio e ambizione nella ferita aperta e ancora sanguinante del conflitto razziale statunitense, e nel modo in cui continua a informare la vita civile e sociale della nazione, in maniera sempre più esasperata ed esasperante (gli appartenenti al culto trumpiano, i teledipendenti dall’universo parallelo propagandato da FoxNews continuano non solo a trangugiare la propria assuefacente Nostalgia, ma forzano tutti gli altri ad assumerla).
Non solo Angela e Will devono fare i conti con i propri traumi, ma anche i personaggi che ritornano dal Watchmen fumetto (sì, perfino il Dr. Manhattan). Anche Looking Glass: l’episodio lui dedicato esplora le conseguenze dell’immane catastrofe (concepita “a fin di bene”) che avveniva alla fine del fumetto (e che si pone anche come chiaro eco dell’11 settembre), e introduce il concetto di transgenerational trauma, un campo della psicologia sempre più studiato negli ultimi anni, riscontrato in discendenti di sopravvissuti all’Olocausto, nativi americani, schiavi, rifugiati, etc., e i cui sintomi sono assimilabili a quelli della sindrome da stress post traumatico. La scelta di aprire la serie col massacro di Tulsa, nel 1921, vuole individuare senza possibilità di fraintendimento un trauma primigenio alle origini di questa storia oscura di «mantelli e maschere»: appunto quello di una nazione edificata sul razzismo e sulla costante oppressione violenta di una parte di popolazione sull’altra.
«God snaps his fingers and the hero goes to hell»
E così ritorniamo alle maschere. «People who wears masks are driven by trauma» dice Laurie Blake, che ne sa qualcosa. E anche: la maschera «hides the pain». Ed ecco che le numerose suggestioni di Watchmen, spesso anche volutamente spiazzanti e contraddittorie (vedi tutta la linea narrativa dedicata all’Adrian Veidt/Ozymandias di Jeremy Irons, per esempio), premeditatamente non semplici né semplificanti, sembrano saldarsi, per un attimo, in una rivelazione in cui tutto si tiene: la predominanza della figura del supereroe nella cultura di massa; il mito risorgente dell’uomo forte al comando; la nostalgia onnipresente per un passato distorto, parziale e violento, e un intrattenimento mainstream che sembra dominato da quella stessa nostalgia, incagliato sulla riproposizione infantilizzante dei medesimi ricordi di ieri; l’apparente necessità d’indossare in ogni circostanza la “maschera” di un schieramento – e su questo aveva riflettuto post elezioni 2016 anche, guarda caso, American Horror Story: Cult, accanto alle maschere di The Purge, di Anonymous, del pagliaccio-Joker, fino ad arrivare, sentendo i brividi scorrere lungo la schiena, a un oggi in cui mettersi o meno una maschera salvavita, invece che una ragionevole questione di salute, diventa un’irragionevole espressione d’appartenenza politica; le dinamiche di fandom tossico che contaminano ogni livello del discorso pubblico, confondendo i piani del vero e del falso, dell’intrattenimento e del reale, della sopravvivenza e dello scherzo, mentre online si radicalizzano, anche nelle bolle chiuse e autoconfermative del commento alla pop culture, i sostenitori dell’Alt-right in tutte le sue forme (il discorso finale di Joe Keene, volutamente caricaturale, potrebbe stare in bocca egualmente a un attivista MAGA e a un fanboy infuriato per l’eccesso di diversity in Star Wars o per i reboot gender swap). L’impossibilità di distinguere le maschere dei vigilanti – che erano l’oggetto principale della critica del Watchmen fumetto, a dispetto di quanti lettori possano essersi immedesimati, per lo sconcerto di Moore, in Rorschach – da quelle dei poliziotti: una maschera è una maschera, l’esercizio di un potere squilibrato e senza controllo è un abuso, una società edificata sulla paura (anche quella “a fin di bene” di Ozymandias/Veidt) e che soffoca i propri traumi è ingiusta e violenta. «Le ferite hanno bisogno d’aria»: guardarsi e riconoscersi nello specchio scuro dello schermo può essere scioccante e doloroso, ma è quello che Watchmen coraggiosamente ci ha offerto, rifiutando le scorciatoie, le bugie e le nostalgie. E sarebbe davvero un peccato, e un’occasione persa, non guardare.