Recensione, Supereroi

WATCHMEN (2009)

Titolo OriginaleWatchmen
NazioneCanada/Gran Bretagna/U.S.A.
Anno Produzione2009
Genere
Durata163'
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

1985: in un’America allostorica prende forma un complotto per eliminare gli Watchmen, Vigilanti Mascherati, supereroi sui generis. Intanto (siamo comunque in piena guerra fredda) la catastrofe nucleare incombe…

RECENSIONI

Se c’è un graphic novel di culto, quello è senz’altro Watchmen: basti pensare al fatto che Time Magazine lo inserisce tra i 100 migliori romanzi in lingua inglese dal 1923 ad oggi e che si tratta dell’unico fumetto ad aver vinto il Premio Hugo. E in effetti l’opera, uscita originariamente in 12 episodi a partire dal 1986, è di quelle che si dicono ambiziose. Il vostro umile recensore ha letto le 414 pagine del fumetto e le ha trovate – da profano – interessanti. Da profano perché non sono affatto un appassionato e dunque non in grado di contestualizzare con precisione il lavoro di Moore-Gibson, né saprei stabilire l’effettiva importanza di Watchmen per il mondo dei fumetti; ho però apprezzato lo stile grafico (giustificatamene) retrò, la “romanzesca” costruzione dei personaggi, la cura per l’impianto narrativo embricato, con dipanarsi di flashback e altre metanarrazioni che si alternano o si innestano, dialogando, col fumetto principale, e il modo in cui viene affrontato il tema del supereroismo, del tutto obliquo e ben oltre il semplice crepuscolare.

Ma soprattutto ne ho apprezzata la cinematograficità: difficile non sfogliare le pagine del volume senza pensare a uno storyboard, non leggere delle dissolvenze nel passaggio da una vignetta che inaugura un flashback e la successiva e non interpretare le rotture di equilibri dimensionali tra quadri (quasi sempre 3x3 a pagina) come un prolungamento della durata dell’inquadratura. Snyder si è fatto comprensibilmente invitare a nozze. La prima sequenza dopo il prologo è di programmaticità esemplare, ai limiti del didascalico, per come riprende la primissima pagina del fumetto: su carta, 7 quadri con pdv a piombo allargano in verticale, a salire. Su pellicola, un mobilissimo piano sequenza in plongée fa esattamente la stessa cosa. Si prosegue su questi binari, e benché non manchino cambiamenti, contrazioni ed omissioni (ovviamente sgraditi ai fans di stretta osservanza) c’è una fondamentale fedeltà alla fonte che si fa quasi ossequiosa reverenza, sia da un punto di vista visivo (nel senso della “storyboardizzazione” delle vignette più che nella riproposizione delle atmosfere delle stesse) che testuale (voice over e dialoghi copiati e incollati dal fumetto).

Comprensibilmente, date queste premesse, lo Watchmen di Snyder mutua pregi e difetti del romanzo grafico da cui deriva: è opera complessivamente assai curata, fortemente ipertestuale e citazionista, trasuda ambizione e rischia di risolversi in una bolla di sapone. Alan Moore sapeva di correre il rischio: c’era il sospetto crescente (…) che stavamo facendo il passo più lungo della gamba, che avremmo potuto non essere in grado di risolvere tutti quegli importanti intrecci narrativi e di significato che sembravano nascere ovunque rivolgessimo il nostro sguardo, che, alla fine, ci saremmo potuti ritrovare con un grande, impasticciato e fumante polpettone semiotico. (…) Complessivamente, penso che ce la siamo cavata. In effetti, anche il film alterna momenti di sicura suggestione ad altri di probabile inconcludenza e sembra sempre sul confine tra il voler dire cose profonde e il non dire niente (o veicolare concetti confusi) in modo presunto profondo, ma nonostante tutto, si può parlare di operazione riuscita.

Che Zack Snyder non fosse un regista qualunque lo si era sospettato: Dawn of the Dead era remake dignitosissimo, con una piccola chicca zombi/amatoriale pre- Diary of the Dead e [REC] tra gli extra del DVD, e anche 300 dava l’idea di un lavoro assai interessante nella misura in cui riusciva a “estremizzare”, ma era ammorbato da una sceneggiatura che annacquava l’asciuttissimo testo di Miller con brodaglie normalizzanti per non scriver peggio. In Watchmen, finalmente, l’estro compositivo di Snyder sembra più libero di avvolgere la totalità dell’opera senza la necessità di rendere il prodotto più rassicurante e smerciabile a buon mercato, ed è un bene. La cifra di Zack è forse riassumibile, a livello diciamo metonimico, nei ralenties oltranzisti che caricano la messinscena di fisicità e pathos, senza paura di esagerare. E Watchmen non sembra avere molta paura. Snyder non ha certo la mano leggera ma dà il meglio di sé proprio quando non cerca di andare troppo per il sottile: in tal senso, l’impatto cromatico/visivo del film è complessivamente, anche se a modo suo elegantemente, tronfio e non riproduce il ricercato ma classicheggiante understatement del fumetto, ma riesce tuttavia a comunicare, per altre vie più artefatte ma non meno efficaci, la stessa epica del declino oltre-omistico, con gli watchmen che sembrano decadenti, umanissime parodie dei supereroi mascherati classici cui esplicitamente si riferiscono e sui quali criticamente riflettono. Al film si possono forse imputare un’eccessiva gigioneria [specie nell’uso delle musiche, con l’effetto videoclip sempre in agguato (ma si tratta sempre di videoclip di ottima fattura)] e un percorso narrativo non completamente riuscito (la trama complessa e anche temporalmente arzigogolata rischia di perdersi/ci) ma l’impressione è che si tratti del proverbiale pelo nell’uovo.

Quando si è diffusa la voce della preparazione di un adattamento cinematografico del graphic novel-capolavoro Watchmen ad opera di Zack Snyder in molti hanno gridato alla lesa maestà. Con 300 il regista aveva già travasato il brutale espressionismo delle tavole di Frank Miller in un enfatico carrozzone naziqueer digital-accademico. Si temeva comprensibilmente il peggio, soprattutto a fronte di un’opera più riflessiva e molto meno disponibile ad una testosteronicità in slow motion. Doveva essere un disastro e, gli sia dato atto, disastro non è stato.
La strada scelta questa volta da Zack Snyder è stata infatti quella che gli ha permesso di fare meno danni possibili: riverenza assoluta nei confronti dell’opera seminale di Alan Moore/Gibbons (testo e composizione grafica), spinta però fino alle estreme conseguenze dell’assenza di qualsiasi riflessione sulla stessa. Le tavole di Watchmen scorrono davanti agli occhi cinetiche e traslucide: una visionarietà asettica. I bellissimi titoli di testa dylaniani e grotteschi (li lodano tutti e li lodo anch’io) hanno il torto di essere un incipit di vertiginoso sarcasmo e fragore visivo la cui sintetica densità (la Storia, le storie, i Superuomini, gli uomini) non verrà mai eguagliata (se non forse nel bel flashback di Dr Manhattan, malinconico e fatalista al punto giusto nel raccontare l’impotenza nuda e anaffettiva di un Dio ex-uomo). E ho trovato inoltre azzeccate sia la scelta di fare dell’ucronico Nixon un uomo goffamente mascherato come gli altri supereroi umani troppo umani, con quella vistosa protesi al naso, sia l’intelligente modifica del finale (azzardo, una soluzione forse migliore di quella originale).
Il resto è riproposizione puntigliosa e superficialmente pop dell’opera originaria che rivela la personalità di Snyder solo nella messa in scena dell’azione violenza. Che è estetizzante e compiaciuta, meramente spettacolare (quando la sostanza della storia sarebbe invece disperatamente dimessa e antieroica), spia di un vago fascismo estetico che della complessità tormentosa e anarchica del testo di Moore riesce a tirar fuori solo un’anima scintillantemente reazionaria. Il kitsch maldestro è dietro l’angolo (l’ironia fuori asse della “gloriosa” sequenza del sesso dopo la battaglia sulle note di Hallelujah di Leonard Cohen), la riflessione si allenta in verbosità, lo humour dolente e pessimista di Moore è quasi assente (e nulla in sostituzione, uno sguardo glacialmente acritico), lo spessore umano e umanamente tortuoso intermittente (e qui c’entra anche la direzione degli attori, efficaci nel caso di Jackie Earle Haley/Rorschach o di Jeffrey Dean Morgan/il Comico, puramente decorativi come Malin Akerman/Silk Spectre e Carla Gugino/Sally Jupiter, mal gestiti come Patrick Wilson/Gufo Notturno e soprattutto lo sbiadito e monocorde Matthew Goode alle prese con un personaggio invece cruciale come Ozymandias).
In sintesi il fascino c’è, lustro e forse malsano ma innegabile (se di fascino ci si vuole accontentare). Però su Snyder è lecito e probabilmente doveroso nutrire ancora molti dubbi.

Per lo stesso autore Alan Moore, il suo graphic novel del 1987 era infilmabile (per quanto ci sia anche stata una serie animata nel 2008), ma sappiamo quanto lo scrittore sia refrattario al cinema (impone che, sui titoli di testa, il suo nome non compaia mai): fatto sta che, per adattare quello che il settimanale Time considera uno dei cento migliori romanzi in lingua inglese dal 1923 ad oggi, in molti hanno storto il naso davanti al nome di Zack Snyder, non cogliendo quanto il suo 300, esperimento all’avanguardia per adattare al cinema un fumetto, sia stato rivoluzionario. Per quanto la sceneggiatura operi cambiamenti nel finale (lasciando inalterato il senso), siamo di fronte ad un’opera ambiziosa che, con coraggio, cerca di rispettare lo spirito adulto e i modi di Alan Moore, usando i fumetti come storyboard per le riprese sui set, battendosi per non adottare, alterando la fonte, i vezzi dei film di supereroi alla moda, non rinunciando ai passaggi ponderosi, più introspettivo/metafisici che d’azione, sapidi nelle allegorie sulla Storia Americana e rappresentanti l’altra faccia del supereroe che s’adopera per salvare il Mondo. Nella parte iniziale, la struttura narrativa è complessa nel suo incastro di episodi, flashback e personaggi vari, mentre l’occhio è spettatore di pura arte visuale in cui drammaturgia ed effetti speciali si amalgamano alla perfezione: Snyder fatica a trovare il tono giusto fra grottesco, epica, melodramma, fantasy e violenza ma, progredendo, mentre si palesano gli universi di senso per ogni personaggio in campo e l’elaborazione del plot, con la forma del noir (Rorschach e il suo diario/Io narrante nelle indagini), avviluppa sempre più, si ha la certezza di essere di fronte ad un oggetto più unico che raro.