TRAMA
Intrappolata in un matrimonio senza amore a Manhattan, maltrattata e frustrata, Wally non fa che pensare a Wallis Simpson, l’elegante divorziata americana che ha conquistato il cuore di Edoardo VIII, disposto per lei ad abdicare al trono d’Inghilterra.
RECENSIONI
Non difetta al film di Madonna la chiarezza dell'intento di fondo: raccontare una love story che, messa di fronte alla prova del fuoco, resiste nonostante tutto e tutti; l'ammirazione della Ciccone per Wallis Simpson (W.), che si mise contro un impero intero per sposare il re Edward (E.), che a quell'impero rinunciò - coppia legata contro ogni avversità (W+E, noi) - è alla base del progetto: il fittizio filone narrativo, ambientato ai giorni nostri, che si snoda parallelamente a quello d'epoca, ne è l'antididascalica dimostrazione. L'asta newyorkese degli oggetti appartenuti alla coppia re(g)ale vede aggirarsi tra i suoi avventori Wally (Abbie Cornish) cresciuta nella devozione della volitiva Simpson (Andrea Riseborough): ogni sfiorar di cimelio diventa una strofinata alla lampada del flashback, ché quella materia è fatta di memoria, alternandosi le vicende delle due donne tra un'epoca e l'altra.
Dee venerabili di un mondo levigato, in apparenza, le due sono nei fatti trafitte da struggenti tormenti incrociati: la gravidanza persa da Wallis, quella cercata da Wally; W-A che fugge il marito squattrinato e violento e sposa un re, svernando in una reggia, W-B che fugge un marito ricco e manesco, si unisce a un immigrato russo povero in canna e lo raggiunge nel suo scalcinato loft (dove, da raffinato intellettuale quale è, legge Rilke). Il tutto sulle rutilanti note di Abel Korzeniowski, che fanno tanto (troppo) A single man di Tom Ford.
Camera caracollante, registro a tratti crudo (un bell'ago che affonda nella carne, un pestaggio abortivo senza sconti, e siamo solo all'inizio) a cozzare con soluzioni superestetizzanti che neanche gli spot delle essenze Armani, montaggio espressionistico, disinvoltura nel rimescolio cronologico, Madonna dimostra, se non altro, di non badare solo a portare avanti la Storia e la storiella di queste donne libere e liberate, ma di curarsi anche della struttura e delle immagini, strumenti primari per esprimere il concetto sentito che palpita ad ogni rimbalzo depoca: omnia vincit amor.
Nulla di nuovo, certo: il gioco di specchi temporale fa un po' The hours, un po' (persino) The pillow book (i due filoni, passato e presente, le due vicende che dialogano puntuali, segnate dall'ammirazione per la figura storica da parte del personaggio di finzione), ma è animato da una convinzione che almeno per una buona parte conduce le danze con messe di soluzioni neanche banali, ma a cui manca un qualsivoglia rigore e una tenuta di fondo. Tra battute sapide da brit comedy (avanti coi cocktail perché bisogna pure far qualcosa tra il tè e la cena), discutibili anacronismi jarmaniani (la Simpson che balla al suono dei Sex Pistols), virate patinatissime che profumano di Wong Kar-Wai, W.E. è un pasticcio che attinge dappertutto, a tratti stimolante, a tratti sfocatissimo. Poi certo, la regista indulge su tutti gli elementi in gioco, cincischia senza pudore, perde completamente il controllo, si compiace bellamente delle conclusioni che non vedeva l'ora di trarre (non sai quanto sia dura vivere la più grande storia d'amore del secolo) e sbraca di brutto non riuscendo in alcun modo a mettere la parola fine al film, ma lasciandolo letteralmente agonizzare per una buona, interminabile ventina di minuti.
Chiudere prima, Madonna.