TRAMA
Roman e Maru sono due ragazzi messicani di diverse classi sociali: lui è figlio di un deputato di destra, lei invece è di estrazione popolare. Insofferenti al mondo degli adulti, progettano di fuggire insieme. Carichi di provviste, tende e sacchi a pelo si stabiliscono sul tetto della villa di lui e si godono lo spettacolo degli adulti, affannati alla loro ricerca. Purtroppo non tutto fila liscio.
RECENSIONI
Fughe da fermi
Certe volte ritornano. Si parla dei ragazzi che, nonostante il cinema degli ultimi anni ce li abbia mostrati quasi sempre come degli automi tutti uguali in preda ad angosce prefabbricate e a posticce riflessioni pseudo-esistenziali, ogni tanto riescono a fare capolino nello studio di qualche autore e a chiedere che la loro storia di rabbia, fughe e libertà, venga raccontata. Roman e Maru, i due protagonisti di Voy a explotar, avranno fatto così e Naranjo ha confezionato per loro un’opera che si inserisce – almeno nelle intenzioni – nella scia dei grandi film sull’infanzia e l’adolescenza, dai Quattrocento colpi a Harold e Maude. Il lavoro di Naranjo forse non brilla per originalità narrativa e formale, ma di sicuro si apprezza la capacità del regista di dare corpo e spessore ai personaggi e di creare situazioni anche surreali, ma sempre credibili. Al centro ancora una volta il contrasto tra l’uomo e il mondo, qui resi come due tensioni opposte, centrifuga l’una e centripeta l’altra, che si scontrano in quello “sto per scoppiare” del titolo, che descrive la condizione dei due protagonisti: Roman e Maru sono allora la metafora del puer aeternus, quella parte dell’uomo insofferente a qualsiasi costrizione/castrazione, irriducibile a ogni forma chiusa e sempre in cerca di un fuori/altro/oltre. In un mondo in cui, però, ogni “oltre” è riconducibile a un “dentro”, in cui cioè tutte le speranze sembrano annullarsi in un’immensità senza vie d’uscita, la fuga può solo trasformarsi in beffa: così Roman e Maru si fingono partiti per chissà dove, trovando invece il loro “oltre” sul soffitto di casa, da cui possono godersi lo spettacolo dell’andirivieni preoccupato di genitori e parenti, nonché il dispiegarsi di tutte le forze del padre di lui (un potente e corrotto politico) alla loro ricerca: il rovesciamento edipico dell’autorità qui assume forma di gioco, di beffa, appunto. Tramite questo espediente narrativo, che costituisce il lato più riuscito dell’opera, Naranjo riesce anche nella difficile impresa di evitare per più di metà film quello che in casi come questo è quasi sempre inevitabile: la retorica da fuga maudite (della quale era invece pieno zeppo Into the wild). Per questo motivo la caduta di tono della seconda parte è particolarmente dolorosa (per lo spettatore) e lo slittamento verso il tragico – pur forse necessario: la storia di un contrasto irriducibile uomo/mondo o è favola o è tragedia – è condotto male sul piano narrativo, tanto da non essere giustificato in modo convincente da cause interne – la situazione precipita per caso e non si capisce cosa spinge Roman ad armarsi – e finisce per essere una semplice deriva verso i clichés più ritriti. Nel complesso comunque molto coinvolgente.
