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Brutto esordire con le cifre, ma, a fronte di un successo che si rafforza nel tempo (in termini di pubblico pagante e di presenze di addetti lavori), il TFF, che rimane saldamente il festival italiano più importante con quello veneziano, costa poco più di due milioni e mezzo di euro a fronte dei tredici (13) milioni e mezzo della kermesse romana (che batte – in termini di sole spese, ça va sans dire – anche Venezia, pur perdendo pubblico, come segnalato da Di Nicola nello speciale dedicato). Le ragioni di questo successo sono tutte nella passione profusa nella proposta, fatta con competenza, puntando sulla qualità e senza inseguire le star e i tappeti rossi. Fa dunque sorridere (si fa per dire) la proposta dell’assessore regionale di conferire un po’ di glamour a quello che in questi anni si è affermato come un Festival in cui l’unico vero protagonista è il cinema e che, quel che più conta, piace per questo. Quella della maggiore visibilità era stata una delle ragioni che avevano portato a conferire a Moretti, nome di prestigio internazionale, la direzione del Festival: due edizioni di grande successo in cui il regista romano si era saggiamente guardato dallo snaturare la manifestazione, organizzandola all’insegna della continuità, continuità assicurata anche dalla gestione Amelio.
_x000D__x000D_Il TFF conosce il suo pubblico: è variegato, taglia trasversalmente le generazioni, è fatto di spettatori attenti, competenti, curiosi; è insomma una platea sofisticata a cui delle star e del glamour non importa nulla. Al TFF si rimane fedeli per questa sua caratteristica, chi lo frequenta per la prima volta se ne innamora per questo motivo e vuole puntualmente tornarci: dimenticarsi di questo aspetto potrebbe causare alla manifestazione gravi problemi di identità e innescare un’involuzione pericolosa.
Se chi predica conoscesse dal di dentro ciò di cui parla e frequentasse davvero il Festival, scoprirebbe anche le ragioni del successo della manifestazione e capirebbe la necessità di preservarne le caratteristiche. E perché piace il Festival torinese? Perché il concorso è fatto di opere prime e seconde (e se è debole il più delle volte è perché azzarda – e ciò è cosa buona -: basta una sola scoperta a giustificare l’osare, e in queste anni ce ne sono state moltissime); perché entri in una sala senza sapere cosa guarderai e ti ritrovi tra le mani un cult (successe con Donnie Darko, è successo quest’anno con Wasted on the young, che è stata, per chi scrive, la vera sorpresa dell’edizione – tenere d’occhio Ben C. Lucas -); perché si ha sempre l’opportunità di spararsi un classico (quest’anno Huston a tenere banco); perché è possibile godersi le quattro ore e mezzo incomparabili di Mistérios de Lisboa in uno sfolgorante HD senza che voli una mosca, ipnotizzati di fronte a quello che “è già uno dei film del decennio” (Manuel Billi) che conferma la televisione protagonista produttivo dell’annata (accanto al capolavoro ruiziano Noi credevamo di Martone e Carlos di Assayas); perché se ami il genere (quest’anno è di scena l’horror) c’è la sezione Rapporto Confidenziale che ne raccoglie un bel po’; perché trovi il lavoro di ricerca (la sezione Onde) e quello commerciale; trovi i documentari e le doverose riscoperte (Vitalij Kanevskij); perché puoi ascoltare Verdone che parla di Fellini o Saverio Costanzo che introduce un film di Bunuel (sezione Figli e Amanti); perché non ci sono barriere: il TFF avvicina il pubblico ai protagonisti senza filtri, naturalmente, ed è un evento vissuto da tutti, spettatori e addetti ai lavori, nello stesso identico modo. Direi che è un festival democratico, se questa parola avesse ancora un senso.