TRAMA
Una coppia anziana vive in un appartamento parigino pieno di oggetti, di ricordi, di libri. Lui è uno studioso di cinema che sta scrivendo un libro sulla relazione tra sogni e film, lei è una psicanalista in pensione, che comincia a patire i sintomi dell’Alzheimer. La loro lunghissima relazione poco a poco si disgrega, mentre cercano per quanto possono di sostenere il figlio, che ha problemi di tossicodipendenza.
RECENSIONI
PROSSIMITÀ
Il cielo totalizza il quadro per qualche secondo, all’inizio di Vortex.
Pochi, limpidi attimi che sospendono il movimento della macchina da presa e il suo ripiegare inesorabile verso terra. Il gesto filmico di Gaspar Noé, come già in Enter the Void, evoca in questo fulminante inizio una fugace, e irrisolta, sospensione tra spazio celeste e materia, come se nel proprio incedere ci fosse sempre una zona franca all’interno della quale l’invisibile e l’esperienza corporea arrivano appena a sfiorarsi. In questo processo dialettico di comprensione/separazione, lo spettatore stesso viene messo nelle condizioni di isolare questa prima scena dal resto dell’opera (e confrontarla, specularmente, con il contro/movimento della m.d.p. nel finale) per mezzo di due elementi tanto riconoscibili quanto immediati: innanzitutto, la presenza dello spazio scenico nel singolo quadrato che campeggia al centro dello schermo, riferimento che deflagrerà poco dopo nell’impiego massivo dello split-screen; poi, l’esistenza di un’alterità attiva, non appiattita nella simultanea frizione dei due schermi, restituita attraverso un montaggio formale a specchio (scelta antitetica rispetto al processo che si dipanerà in corso d’opera) che circoscrive (anche qui, fugacemente) le figure di Dario Argento e Françoise Lebrun.
Al di là di questi elementi molto semplici, è tuttavia nella scelta iniziale di posizionare la macchina da presa in un punto indefinito tra ciò che è sopra e ciò che è sotto, in quella soglia di incomprensibile prossimità che connette i due macrocosmi (celeste/terrestre) e che si riverbera, poco dopo, nell’espansione scopica e duplice del quadro, a marcare lo spirito dell’opera del cineasta argentino. Per Noé sembra essere importante, in prima istanza, prendere coscienza dell’aporia insanabile che tiene insieme alto e basso, sostanza corporea e universo dislocato della mente (“la vie est un rêve dans un rêve”, dice Dario Argento, a mo’ di manifesto, in più occasioni), per far ricadere poi nello stratagemma formale del doppio schermo il rapporto di condivisione/separazione dei soggetti coinvolti, come se il destino comune dei corpi prendesse forma attraverso esperienze e traiettorie che però mantengono intatte le proprie singolarità, i propri specifici spazi mentali. L’evento che corrisponde al fine vita ci unisce, la non conoscibilità dell’altro, e del suo universo animico/percettivo, ci separa.
CORRISPONDENZA
La composizione ritmica orchestrata da Noé in Vortex pone ulteriormente l’accento sulla contraddizione espressa poc’anzi. L’utilizzo delle interruzioni nere all’interno dei singoli schermi, così come le scansioni del montaggio, sempre differenti per ciascuno dei quadri coesistenti, conferiscono una sorta di indipendenza ai personaggi, i quali sembrano vivere un unico, irripetibile percorso all’interno di questo viaggio condiviso. Allo stesso tempo, però, le figure coinvolte si trovano talvolta in posizioni corrispondenti, sovrapponibili le une alle altre, e quindi partecipi di una dimensione comune che mette in secondo piano la reale importanza dell’esperienza individuale, come si vede chiaramente nella sequenza in cui Argento e Alex Lutz (straordinario nel ruolo del figlio della coppia protagonista) passeggiano di notte per le strade di Parigi, oppure nello scontro tra la macchina da presa in movimento sul corpo agonizzante di Dario Argento e la camera fissa sulla figura dormiente di Françoise Lebrun, conflitto apparente che poi, appunto, si risolve nell’istante in cui Argento crolla a terra, marcando finalmente la sovrapposizione tra i due soggetti/quadri.
La coerenza di Gaspar Noé nel condurre questa constante oscillazione tra poli opposti si cristallizza in un sistema formale controllatissimo, algido e preciso, un universo che cerca e include mondi cinematografici affini e corrispondenti: a questo proposito, non è certo un caso che uno dei protagonisti del film sia proprio un regista, e che nel corso dell’opera facciano capolino superfici e visioni provenienti da altri film. In particolare, la presenza di Vampyr di Carl Theodor Dreyer accentua ulteriormente quelle che sono le istanze dialettiche poste in essere: nel capolavoro di Dreyer, infatti, si gioca spesso sull’assenza del corpo e sul ritorno ad esso, oltreché ovviamente sull’esperienza della morte vissuta in prima persona con una coscienza oltre-dimensionale e, infine, sulla separazione tra coscienza stessa e involucro fisico che la contiene. Ovviamente, a Gaspar Noé non interessa restare invischiato in questa impasse, e nemmeno confinare il discorso all’interno del gioco teorico. Sublimata l’architettura filmica, infatti, resta l’estenuazione di chi si prepara a separarsi dal mondo e dalla vita: Argento si dibatte per “non abbandonare il proprio passato”, Lebrun perde progressivamente sé stessa e si dimostra, nei pochissimi momenti di semi-lucidità, pronta a lasciare andare tutto definitivamente; infine, Alex Lutz si trova a fare i conti con un universo familiare che si sgretola e scompare ogni giorno che passa… e oltre il lavoro esasperato e al tempo stesso misuratissimo sulle forme, allo spettatore rimane la sensazione che la questione fondamentale, in fondo, risieda interamente nella dolorosa, intollerabile elaborazione di ciò che si perde.