TRAMA
Attraverso la lettura dei diari di tre ragazze vengono narrati gli anni, virati al femminile, che vanno dal 1968 al 1979.
RECENSIONI
Prosegue l’indagine di Alina Marazzi all’interno dell’universo femminile, la quale, avendone perlustrato con estrema pudicizia e delicatezza i confini semantici in Per sempre (la claustralità monastica come negazione del femmineo), assumendo la configurazione di un progetto di ricerca formale, non rinuncia parallelamente ad esibirsi anche come esito di un’esplorazione in chiave sociologica, se è vero come è vera la constatazione di un’emergente mobilità sociale da parte della donna nel corso degli ultimi cinquant’anni, in Italia e nel mondo. Attraverso la forma espositiva diaristico-epistolare, sperimentata nell’interessante esordio Un’ora sola ti vorrei, la Marazzi racconta il privato emozionale di tre ragazze annegate nel loro sentimento di disagio e inadeguatezza provato nei confronti della propria sessualità ai tempi dell’ideologia patriarcale predominante, e il relativo riposizionamento di un’identità sessuale tutta da ripensare. Si radicalizzano, mutando i contesti, le esperienze cinematografiche di un’autrice quale Chantal Akerman che nelle sue prime pellicole molto aveva insistito sulla situazione di un’identità sessuale femminile da ricostituire, molto spesso in relazione alla vita matrimoniale (vedi Jeanne Dielman, 23 Quai du Commerce, 1008 Bruxelles). L’arco temporale attraversa o, per meglio dire, perfora anni ed eventi cruciali nella storia del belpaese, dal ’68 al ’79, incrociando tre esistenze che testimoniano, nelle voci di Anita Caprioli, Teresa Saponangelo e Valentina Carnelutti, tre distinte modalità del sentire (al) femminile. L’ideale postbellico borghese e cattolico (quasi calvinista) della “donna da marito” entra finalmente in crisi con i sixties, ma non senza generare crisi a sua volta, nelle dinamiche psicologiche appartenenti ai transiti generazionali e soprattutto in seno all’istituto - in quel determinato periodo - più borghese di ogni altra cosa: la famiglia. Nascono dissidi insanabili tra genitori e figli e si creano lacerazioni profonde all’interno delle coscienze su tematiche inaugurate da una maggior apertura nei riguardi dei costumi della sfera sessuale, la liberazione dalla gabbia sessuofobica con tutte le sue derive etiche tornate di grande attualità, dalla contraccezione all’aborto, è solcata da un abisso che separa le nuove generazioni da quelle vincolate ancestralmente all’androcentrismo della patria potestà. Anche il presunto progressismo culturale di alcune aree politiche non sembra dimostrarsi sensibile alle nuove prese di posizione da parte di una rinnovata coscienza femminile. Eppure Vogliamo anche le rose evita intelligentemente ogni retorica da cretinismo femminista, anche quando sembra cercare la convergenza del consenso intorno a un sentimento di condanna nei confronti del maschio crudele e repressore (episodio dell’8 marzo 1972 a Campo dei Fiori), offrendo tutta la genuinità di un pensiero al femminile nell’epoca in cui a quel sesso sembrava interdetto persino il pensare (pur ricordando che fino al 1946 il suffragio femminile è interdetto). Al di là di una collettivizzazione di comodo, benché in alcuni casi sacrosanta, propugnata nell’omologazione ebete degli slogan, la cineasta si sofferma sullo scavo interiore delle sue protagoniste attingendo una profondità noetica che entra in rotta di collisione con la bidimensionalità dell’immaginario, delle silhouette di cartone delle riviste (tipo Grand Hotel), delle réclame televisive dell’imminente società dello spettacolo e del piatto imborghesimento dell’ethos nel dopoguerra, ponendo in campo una sorta di autenticità della phonè contro l’esibita superfici(ali)tà iconica, se l’immagine è legata allo svuotamento pop di una cultura già decaduta. Vogliamo anche le roseè allora, forse, pur nel suo sguardo retrospettivo il film più situazionista da quarant’anni a questa parte nell’ambito della cinematografia italiana, perché intende demolire certo ciarpame culturale di matrice clericale che da troppo tempo ottunde più o meno subdolamente la laicità di uno Stato di diritto quale è il nostro da una parte, e dall’altra la bieca e ideologica universalità di tutti gli “ismi” rivendicando l’individualità come istanza di autenticità e di differenza esistenziale nell’annuncio differenziante di tre voci di donna nel frastagliarsi del collage pellicolare (fotoromanzi, sagome cartonate, disegni, animazioni, immagini di repertorio, filmati in super8, tranches di opere underground – X cerca Y di Mario Masini, Se l’inconscio si ribella di Alfredo Leonardi, Festival del proletariato giovanile a Parco Lambro di Alberto Grifi tra le tante), metafora di un frammentato complicato discorso sull’essere declinato al femminile.