TRAMA
In un villaggio dell’Armenia dei nostri giorni un anziano ex soldato dell’Armata Rossa tenta di sopravvivere con i pochi soldi della pensione arrangiandosi come può. I due figli all’estero e un terzo che vive nel suo stesso villaggio e ha frequenti problemi con il genero non sembrano poterlo aiutare. E’ confortato dal sentimento, ricambiato, per una vedova molto più giovane di lui.
RECENSIONI
Non può stupire ma neanche, forse, troppo affascinare il fatto che Saleem per questo suo quarto lungometraggio (dopo Vive la Mariée…et la libertaion de Kurdistan, Passeurs de rèves e il lavoro per la tv Absolitude) si affidi a figure retoriche come l’ellisse o a espedienti linguistici come la paratassi per raccontare il dramma di un popolo senza più patria e radici poiché dove non c’è più luogo, si sa, non c’è neppure più tempo, cioè storia. Ecco che allora lo scollamento narrativo sembra poter essere funzionale ad una volontà di rendere filmicamente mostrabile le sorti di un agglomerato di esistenze sradicate e dolenti. L’allusione al popolo curdo, il suo popolo, marcatamente esibita sprofonda nella metafora della landa armena infinitamente bianca e desolata che ne (di)segna la deriva, l’impossibilità di (ri)darsi un centro spazio-temporale, un’identità geografica, un destino politico, un baricentro storico. Eppure il respiro finanche corto di questo piccolo film apparentemente senza pretese si misura tutto sulla morbidezza dello scenario innevato e sulla leggerezza dei personaggi che lo abitano, elementi in grado di spostare l’asse del discorso su un piano irrealistico e trasognato piuttosto che su quello greve e fatalmente tragico del dramma sociale. Saleem congela la diegesi portandola davvero al grado zero dell’azione e trasformandone tutti i movimenti in atti quasi meccanici, atti, appunto, ad essere rinchiusi in una sorta di fumettistici balloon o di stilizzate gag da teatrino dell’assurdo. Non è un caso infatti che i momenti più felici di Vodka Lemon siano omaggi, più o meno voluti, alle straordinarie trovate del Polanski “corto” (Due uomini e un armadio e Mammiferi, il letto-slitta appare più che emblematico); sequenze ricontestualizzate (ma solo per esserne subito dopo decontestualizzate nei confronti di un senso polanskiano abbandonato) in funzione di un surrealismo “indotto” che sappia celare le lacrime amare dietro sorrisi asmatici, per dire mediante il riso e il comico tutta la disperazione della perdita e della privazione (anzi, tutto nel film sembra muoversi in questa direzione, dalla gag della vodka lemon che sa di mandorla, e dunque un sapore deprivato, alla (s)vendita degli oggetti alla fiera della sopravvivenza, ai “malincomici” soliloqui su quegli strani monoliti scuri che spuntano da quel candido nulla per solidificare il dolore e che non comunicano più se non l’assenza di coloro che sono stati). Tombe la neige< canta l’ormai dimenticato italo-belga Salvatore Adamo e intanto Saleem continua a dipingere la sua bianchissima tela naïf muovendosi tra una leggerezza chagalliana e una rigida scarnezza à la Piet Mondrian, tra etica della condizione (dis)umana e poetica del paesaggio. Leggerezza sospesa e raggelata di figure e situazioni, tracce di esistenza lasciate sulla neve come solchi esistenziali. Passaggi di cose e persone in una terra di nessuno attestati, forse, da qualche non ben definita impronta (inattestabili e fugaci tracce di mezzi, slitte, passi che si offrono più al capriccio del vento che alla soffice (im)permanenza della neve) come tracciatura di un esserci stato, in un luogo che non c’è, in un tempo che non ha più senso né per l’uomo né per la storia.