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V|M_10/11 | So Me, Terri Timely, Nabil, Doff, Park…

So Me piazza la zampata.
So-Me riconsidera in toto i concetti di video performance, dietro le quinte, making of, suntandoli e di fatto annichilendoli in un geniale, spettacolarizzante falso pianosequenza, essendo tali moduli solo sostanza integrante di un’acrobazia tecnica e creativa di brillantezza epocale. Parliamo della clip dei troppo-avanti Justice, il cui titolo Audio, Video, Disco è già di per sé emblematico e presagico dell’altissima operazione. Riaffermazione di un’identità musicale, di un marchio, di un lavoro, di un duo artistico (che da solo anima il popolatissimo set), ma tutto in forma indiretta ché primario è il lavoro su un’immagine ironicamente celebrativa cui il regista parigino conferisce sfavillii e scintille di genio. Esaltante. Strafav. Voto: 9
So-Me ancora in evidenza con il bellissimo video delle Nero, Crush on you: inizia come innocua storia collegiale, con il ragazzo angelico che se la fa con un po’ di studentesse, e vira in horror giapo-visionario con vendetta demoniaca delle ragazze prese in giro. Voto: 7.5
Non finisce qui: sua la concezione del video dei Birdy Nam Nam, Goin’ in, animato e diretto da Machine Molle Art.
Per il nuovo album St. Vincent/ Annie Clark riallaccia il legame con Terri Timely (Corey Creasey e Ian Kibbey) che aveva diretto i due video tratti dal precedente Actor; a ragion veduta registi e cantante sembrano decisi a compiere un viaggio in cui il personaggio interpretato dalla Clark attraversa un’America fatta di personaggi strambi e di situazioni grottesche. In Cruel lo stile del duo è dunque confermato in pieno: registro cinematografico, fotografia brillante, decor curatissimo, surrealtà dell’approccio, umorismo nero. L’artista viene rapita e coattivamente introdotta in un nucleo familiare nel quale, nonostante gli sforzi, stenta ad inserirsi. Inutile alo scopo, viene sepolta viva in giardino. Voto: 7
Prolificissimo Nabil Elderkin: dopo il sognante video per Bon Iver, torna a Frank Ocean e gira l’enigmatico Swim good: l’incipit si ricollega alla fine, il protagonista con una maschera da panda, guarda la limousine arancio, che dominerà la scena, andare a fuoco. Il collegamento tra i due livelli del video, uno di ricordo-immaginazione e uno di tempo reale (la limousine viene condotta in un bosco in cui il protagonista manovra la sua katana) è scandito dalle classiche strisce di usura di un nastro vhs (effetto oramai dominante, il modernariato video si annuncia così, vedasi anche l’acido Stay gold di The Big Pink, diretto di recente da Ollie Murray); la clip sembrerebbe proporsi come frammento di un film orientale, ma nessuna pista è chiaramente tracciata, affidandosi le immagini a toni sospesi e interrogativi. La spada insanguinata ci dice che la ragazza del secondo livello è stata uccisa, la limo che brucia sembra un rito catartico, lo sguardo del protagonista rivolto al mare, le cui onde sono il leit motiv del lavoro, ci dice che la parte immaginativa parte da lì. Stop, dice il videoregistratore. Classe. Voto: 7.5
E’ un’idea apparentemente semplice quella di Golden tree di Martin Brook, diretto da Ninian Doff: una serie di figure mimate da realizzarsi in bici, senza mani sul manubrio, accompagnate dalle relative didascalie che le descrivono. Pian piano le figure diventano illustrazioni del testo della canzone, fino al capitombolo finale. Il regista mirava a un video nostalgico, positivo e un po’ sciocco, che suonasse senza tempo: il risultato è un gioiello di amenità che risponde alle aspettative. Voto: 7.5
Dello stesso regista il precedente Staring Out Of The Window dei Fulton Lights: i corvi di un parco suonano il brano, grazie a un efficacissimo effetto speciale. La questione evolve in karaoke e in un video girato su un set tradizionale. Il regista ha fatto prima gli storyboard e dopo si è recato in un giardino pubblico cercando di catturare le scene che aveva immaginato. Un video che combina divertimento, ideazione e alta fattura. Voto: 7
Il viaggio in Islanda del protagonista di Amor fati (il cantante folk Luke Rathborne, che era realmente in tour sull’isola), video di Washed Out (Ernest Greene), ricorda un po’ l’esperienza descritta dal film di Penn Into the wild: spirito di grande libertà, incontri occasionali, rapporto ritrovato con la natura, ritagli di intimità. Il collage di piccoli momenti messo insieme dal regista Yoonha Park è molto riuscito, a tratti persino toccante. A questo si aggiunga la nitidezza del registro visivo e il lavoro fotografico di Nick Bentgen con raffinatissimi scorci pittorici, mai patinati. La clip rientra in quel filone di narrazione minimalista e di descrizione ambientale e atmosferica che si sta imponendo come alternativa all’intreccio puro e che vanta, rispetto a quest’ultimo, anche una maggiore propensione alla coesione con la traccia sonora. Voto: 8
Nel video dei City City Promises Mischa Livingstone applica la stop motion a una storia d’amore in cui una coppia al capolinea riflette sul passato (le foto che adornano l’appartamento dei due) mentre il passato (la coppia stessa ritratta sulle foto) scruta il presente (quindi la futura rottura). In questo ambito risultano gratuite, in un tentativo di contesualizzazione evidentemente forzato, le due apparizioni della band: ciò che conta, comunque, è la concezione del lavoro, molto intelligente nel dialogo divertito tra i due flussi temporali, e l’ottima fattura, pregi che riscattano il registro della narrazione, un po’ sdolcinato. Voto: 7
La moda del video retro, tra anni 60 e 70, è oramai tendenza talmente consolidata da essere divenuta un genere a parte. Non sorprende allora che il collettivo Sunset Television citi ancora questo registro visivo e tematico in un video, Santa Fe dei Beirut, che si propone come vero e proprio sgangherato film d’epoca in cui il protagonista, persa la compagna e il cane, pensa bene di darsi fuoco su una spiaggia. Lo fermerà l’apparizione della sua donna che metterà in moto una sorta di visione/allucinato ricordo felice. Il finale, con i figli dei fiori derubati, sottolinea l’ironico impianto del lavoro che dissacra gli stessi topoi che pare applicare. Voto: 7
Sulla stessa onda What? dei Bodi Bill, diretto da Stephane Leonard & Martin Eichhorn: le raffinate atmosfere del brano si convertono in immagini di soave psichedelia d’antan. Un sogno che oscilla tra glam e hippysmo: delicato, inafferrabile. Voto: 7.5 [foto]
Too young to kill dei Brite Future, diretto da ThatGo fa il tris, ma in questo caso il trend revivalista 60 – un patchwork di citazioni, beatleseria, nouvelle vague e chi più ne ha più ne metta -, per quanto ben fatto, suona davvero modaiolo fino alla nausea. Voto: 5.5.
Se è vero che delude il video di Dente, soprattutto alla luce di alcune semplici e felici intuizioni del suo passato videografico – Saldati, diretto da Dandaddy, è un anonimo piano sequenza che segue l’artista in un parco con una festosa scomposizione finale del quadro – non delude invece il nuovo, atteso disco, Io tra di noi. Il rapporto di Dente con Lucio Battisti somiglia a quello di Brian DePalma con Hitchcock: Battisti non è un modello da emulare, ma una grammatica da applicare; in questo senso quest’ultimo lavoro definisce al meglio la questione: uno scrigno di belle canzoni italiane in cui lo spirito battistiano aleggia e non si incarna mai, si innerva nei tessuti e non mai isolabile, ma vaga aereo in certi sentimentalismi, leggeri e calligrafici (album: Una donna per amico) e negli archi ariosi di Saldati (album: Il mio canto libero), la nudità di La settimana enigmatica (album: Il nostro caro angelo), in certo minimalismo mogoliano (Io sì, Rapetti puro) così concreto e quotidiano o in certo astrattismo panelliano (il futuro è semplice/ il presente è indicativo) che non diventa mai una trappola (Dente ha una sua indiscutibile poetica personale, zeppa  di intuizioni notevolissime: appoggiamo le guance sullo stesso cuscino / e all’improvviso siamo ancora una persona sola e alla fine appoggio la mano sull’altro cuscino/ e d’improvviso sono ancora una persona sola), il cadenzato di Io sì (che è talmente Al cinema di Lucio, da non esserlo per niente), nella vivace discomusic di Giudizio Universatile (rivisitata come lo era quella battistiana di Campati in aria), nell’attacco Sì, viaggiare di Pensiero associativo che si innesta sui fiati di Mi ritorni in mente e nel finale maestoso del disco, la coda di Rette parallele, che è l’ennesimo, geniale rimescolio di carte con quella leggera bossa (Anima latina) che si unisce a un coro (E penso a te) e a un cambio di tempo (Io gli ho detto no). La mia preferita? Piccolo destino ridicolo (Più che il destino/ è stata l’ADSL che vi ha unito è il verso dell’anno).
Silent alarm – Boxes, diretto da JonJai: il performer ricorda un amplesso, protagonista la donna che sembra dormire al suo fianco. Peccato che il Nostro ne fosse protagonista, ma solo dolente testimone e che la questione è morta (uccisa) lì: un gran finale di corna, un po’ telefonato. Patinato nella fattura almeno quanto rozzo nella concezione: un mix irresistibile.

My machine – Battles, diretto da Daniels: il duo rivelazione dell’anno alle prese con i Battles (e Gary Numan) in un videofunambolismo tipico dei nostri, in cui un uomo si intrappola in loop su una scala mobile. Sarà l’inizio di un angosciante cul de sac. Intanto il video non recede dalla performance. Adorabile.

Junk of the heart (Happy) – The Kooks, diretto da Warren Fu: schermo ripartito in frammenti che riprendono la performance del gruppo e che si animano a turno in un bel caleidoscopio colorato [foto].

Days are forgotten – Kasabian, diretto da AB/CD/CD: il collettivo parigino perpetua il mood bianco e nero del gruppo inglese con un indiavolato set-performance, corretto da animazioni bianche scratchate. Di bell’impatto.

Born villain – Marilyn Manson: un sorprendente Shia LaBoeuf alla regia per il consueto sabba disturbante di Manson; pezzo bowiano, ironicamente interrotto da pause meditative molto suggestive. Colata di visionarietà hard, lynchiana anzichenò, e abituale catalogo di sordida chincaglieria dark. Talmente suo (già dal titolo) da porsi in area postmarilinynica.
By your hand – Los Campesinos!, diretto da Cyrus Mirza & Nicolas Booth: il duo (ce ne siamo occupati in V|M di agosto) conferma la sua impronta visiva in uno split screen di divertita provocazione in cui il suo minimalismo deviato trionfa e la saga distruttiva prosegue. Il loro video migliore, ad oggi.

Dangerous – James Blunt, diretto da Luc Janin: con una soggettiva in pianosequnza, una donna fa il suo ingresso in un pornoclub e gira per i meandri del locale incrociandone la fauna (tutti cantano il brano). Alla fine entra in una stanza (gli ultimi secondi interrompono la ripresa unica) in cui un uomo la attende. Interessante il mix tra ambientazione tipica di un video commerciale e l’approccio stilistico utilizzato, che è invece piuttosto ricercato. Non è piaciuto ai fan di Blunt per questo motivo: un punto a favore.

Fat Monk di Rat vs. Possum: Lucy McRae, body architect, debutta nel videoclip con un’allegra coreografia colorata, tutta giocata sulle geometrie e i motivi ricorrenti, ambientata in un set di biancore asettico che mette in evidenza i pochi efficaci elementi. Svelamento finale del dietro le quinte. Molto carino.

I can see through you – The Horrors, diretto da White Rabbit: perfetta traduzione degli assunti psichedelici del brano, il video si fa forte di questa letteralità inattaccabile e sfodera una sequenza di visioni evanescenti di fascino inusitato.

Midnight City – M83, diretto da Fleur & Manu [foto]: il duo francese (Murder weapon di Tricky) è in grande ascesa e lascia il segno girando un piccolo film che cita Il villaggio dei dannati: bambini prodigiosi rinchiusi in un istituto fuggono, muovono cose col pensiero e insieme avvolgono la città nelle tenebre. Grande dispiego di mezzi e di VFX. Un bel colpo.