Musica con immagini? Immagini con musica? Finzione realistica? Realtà finzionale?
Fa riferimento alla storia di Jim Jones, fondatore della congregazione People’s Temple, il video dei Cults Go Outside: nel 1977 il predicatore, a Jonestown, una comunità da lui fondata in Guyana, indusse al suicidio più di novecento persone. Il video di Isaiah Seret parte con un telegiornale della NBC dell’epoca (si parla dell’uccisione di un deputato del Congresso degli USA e del suo entourage, che precedette di un giorno la tragedia) e, in un flashback, mostra le immagini di quattro anni prima in cui Jones arringa i fedeli a Los Angeles e poi quelle della comunità a Jonestown. Si tratta di materiale faticosamente recuperato dal regista e proveniente da registrazioni amatoriali: a questa documentazione di repertorio Seret associa scene di fiction, perfettamente mimetizzate, in cui il brano musicale viene accompagnato dalla performance. Il regista, allontanando da sé ogni sospetto di facile provocazione e banale condanna, porta avanti uno studio sui materiali d’epoca – e sulla loro possibile riproduzione – in un senso ben più pregnante di quello della dilagante e meccanica applicazione dell’estetica vintage anni 70. Inotre, evitando rigorosamente le immagini relative al massacro, Seret mostra invece quelle della quotidianità della congregazione, dimostrandosi più interessato all’aspetto antropologico del fenomeno che a quello abusato della cronaca e palesando la volontà di ri-dire e ri-umanizzare – sono parole sue – la storia di quelle persone. Voto: 8
Il parossismo immaginativo, con forti dosi di psichedelia e un gusto per l’immagine desaturata, esplicitamente vintage, domina anche Luminous Lights di We Are Animals, il video diretto da Cyrus Mirza & Nicolas Booth (sodali, del resto, del duo Ewan & Casey che si rifà da sempre al registro Seventy): successione di immagini acide, giocattoli in fiamme, bambini inquietanti, ironia spinta, parente stretta di quella dei Canada, veri punti di riferimento a riguardo (senso costruito dal montaggio, accostamenti significativi, irriverenza surrealista, immagini scratchate, dissolvenze incrociate). Citando il televisivo True Blood, la performance del gruppo è ai margini di una partita a flipper dissociata. Modaiolo, ma con grande lucidità. Voto: 7
Wastin time per The Shoes è tutto imperniato sulla descrizione minimale dell’annoiata giornata di un ragazzo che ammazza il tempo come può. E’ sorprendente la puntualità dei dettagli, la precisione nella descrizione degli ambienti e della quotidianità del protagonista. Sembra poca cosa, ma video come questi, che si propongono di narrare uno stato d’animo più che una situazione, risultano estremamente complessi e rischiosi, in bilico come sono tra lo scivolamento nella banalità o la totale incomprensione. Ne va reso merito a un regista eclettico come Yoann Lemoine (vanta già uno dei titoli forti dell’annata: Iron, V|M di marzo), che è riuscito a costruire il lavoro con grande credibilità e facendo collimare, ancora una volta, immagini e atmosfera musicale. Si bighellona, ci si guarda dentro (letteralmente) ed è subito sera. Ragguardevolissimo. Voto: 8
Sullo stesso mood Feel so close di Calvin Harris: Vincent Haycock mostra più situazioni in contemporanea in una speduta cittadina della provincia americana al suono della canzone rimandata dalla radio. Tocco delicato, sguardo ricolmo di tenerezza per i personaggi ritratti; davvero bello. Voto: 7.5
Aitor Throup dirige i Kasabian di Serge Pizzorno in un classico video performance: la particolarità sta nell’esasperata stilizzazione (bianco e nero contrastatissimo, musicisti in scuro in uno spazio delimitato da un tappeto posato in un set vuoto di bianco accecante) e nel gioco prospettico a cui il regista sottopone il quadrato dell’esibizione, che delimita il campo in modo categorico (sembra quasi che i Kasabian ne vogliano evadere). Switchblade smiles è intervallato da fulminee scritte in rosso (MOVE), rosso su cui vira, per brevi istanti, anche l’immagine della performance. Video prevedibilmente cool per una la band che, in effetti, non ha mai sbagliato una t-shirt in tutta la sua carriera. E’ rassicurante sapere che ci sono ancora rocker che spaccano la chitarra contro gli altoparlanti: ci dà un senso impagabile di sicurezza e affidabilità. Voto: 6
L’ultima creazione di Carl Burgess (grande videoartista, prestato saltuariamente, e con esiti esplosivi, alla videomusica), Obsess per Kap Bambino, si riallaccia al suo fortunato lavoro, Drugs dei Ratatat. Il video dell’anno scorso era composto da una serie di staged clips di persone, in diversi atteggiamenti, selezionata dal Getty Images.Obsess riprende il discorso, ma lo varia significativamente: stavolta, infatti, le immagini delle persone in scena non provengono da un repertorio predefinito, ma sono state girate dal regista stesso sulla base della medesima logica (atteggiamenti forzati, emozioni scoperte, overacting programmatico). Il risultato è, come il precedente, a metà strada tra la satira e l’orrore.
Il sodalizio tra Gondry e Bjork ha seguito uno strano percorso: concentratosi tra il 1993 e il 1997, si è rinnovato solo dieci anni dopo con Declare independence. L’opus numero otto vede la luce per accompagnare il nuovo lavoro dell’islandese e segue l’ultimo trend video del regista (stilismo e firma per soli eletti: poche cose negli ultimi anni, l’ultima davvero notevole risale ormai al 2006, Cellphone’s dead per Beck): il più laborioso tra gli ultimi videoclip del francese riprende l’ambientazione cosmica dell’opera amatoriale Three dead persons incrociandola con la Bjork immateriale di Hyperballad, piccola dea canterina che feconda il suolo (tre fasi, sempre più complesse). Animazione passo uno assai elaborata (si noti il gioco d’ombre sulla superficie lunare, il movimento della sabbia e l’uso del ghiaccio), con ripresa video esposta ripetutamente e in cui al dato apertamente artigianale (le luci, l’animazione elementare – oramai costante dell’ultima produzione del francese -) fa riscontro il sofisticatissimo lavoro sull’apparizione della performer e la messa in sincrono suono-immagine (anch’essa: pura marca Gondry) dato che si esalta nella coda jungle (Bjork ci annuncia che è tempo di riesumare il drum ‘n bass, di cui sentiamo molta nostalgia), puro parossismo visivo e vero acme della clip. Progetto nato, come sempre, dalle discussioni e dalle idee comuni del regista e della cantante (che firma la sceneggiatura) per i quali, da tempo, si parla di un musical scientifico in IMAX.
Sfoggio di classe che non aggiunge molto all’opera di colui che rimane (lo ribadiremo fino alla nausea) il più grande inventore di videomusica di ogni tempo.
Se Gondry si limita a testimoniare la sua classe il suo collega Spike Jonze, nonostante progetti cinematografici impegnativi, è tutt’altro che rinunciatario su quel fronte, anzi, stanti I progetti di servizio (vedi post a seguire), sempre più sembra voler usare, integralisticamente, il videoclip per scopi artistici del tutto personali, piegando le esigenze promozionali della commissione alle proprie. L’abbiamo detto più volte: dopo gli anni 90 il rapporto tra videomaker e musicisti è stato sempre più paritario, tanto che in alcuni casi la musica, anziché essere il fine, diventava il mezzo che consentiva ai registi di mettere in scena un proprio immaginario ed esporre una riconoscibile poetica: che cosa, se non la musica, poteva permettere a questi autori di esprimersi in un formato, quello del corto, che, non fosse stato supportato da un brano musicale acchiappapubblico, sarebbe stato destinato all’oblio e all’invisibilità? Non è allora un caso che Jonze, più di tutti gli altri, abbia deciso di battere il sentiero in maniera convinta e dedizione assoluta: così il recente Scenes for the Suburbs, corto di quasi mezz’ora per gli Arcade Fire, è tutt’altro che un’opera minore e lo stesso può dirsi per questo elaboratissimo Don’t play no games that you can’t win per i Beasty Boys, undici minuti di idee folgoranti e purissimo divertimento nerd-jonziano. Evoluzione in chiave kolossal di Hell song, il video dei Sam 41, diretto da Mark Klasfeld, l’opera mette in scena, attraverso dei semplici pupazzi che vengono mossi manualmente, un action movie indiavolato nel quale il gruppo si cimenta in imprese varie, le più spericolate, in contesti canonici (neve, mare, terra, aria). Il regista usa tutto l’armamentario dettato dal contesto filmico: dal ralenti alle sfocature, dal montaggio rutilante alla camera mobile, non disdegnando soggettive, effetti sonori ad hoc e persino un’interruzione che rinvia al momento successivo lo scioglimento della suspense. Operazione che incrocia i generi (c’è anche l’horror zombiesco, il comico demenziale e il dramma) che piega la canzone alle sue istanze (attenzione ai dialoghi sottotitolati, musica che diventa un sottofondo, che s’interrompe, che è pura colonna sonora), Don’t play no games è un video che si fonda sul paradosso evidente del suo ostentato artigianato e della cura maniacale, e tutt’altro che low-budget, della direzione artistica. Lodi. Voto: 8.5
Otis è invece uno Spike Jonze in bilico: la parodia dei rapper con le macchinone piene di belle figliole e che sono molto fichi e caciaroni, vive sul pericoloso limite dell’incomprensione quando è interpretata da artisti come Jay-Z e Kanye West. Certo, tutto è volutamente esasperato: dalla gestualità, all’uso cosciente della macchina da presa, afferrata letteralmente dai due gigioni, passando per l’auto supersonica scoperchiata (che, la scritta finale ci avverte, verrà posta all’asta e il ricavato devoluto alle popolazioni africane colpite dalla siccità) e l’ambientazione felicemente e sornionamente inurbana, ma l’avesse girato Romanek dubito che avrei colto l’ironia. Un banale video mainstream? Un video d’autore che cita coscientemente il codice mainstream? Quando il senso risiede nella griffe… Discussioni accesissime in rete tra i videofili. Voto: 5.5
Gli Ok Go e il loro ultimo video (All is not lost da loro stessi diretto, con Trish Sie) rientrano perfettamente nel discorso, collocandosi all’estremità di una tendenza di supremazia dell’immagine (sono per l’appunto, gli autori dei loro video) e girando, quindi, delle clip che si propongono come la vera punta di diamante di una produzione in cui l’aspetto musicale risulta essere del tutto strumentale. E’ dunque il caso di segnalare il loro ennesimo exploit, in un gioco al rialzo delle ambizioni che rende la loro videografia una vera e propria sfida alle aspettative, sempre più alte, di un pubblico affezionato (basta controllare le visite sul Tubo per i loro video: cifre da capogiro). Questa volta chiedono aiuto a una delle compagnie di danza più eclettiche del mondo (compiono quarant’anni di lavori straordinari), gli americani Pilobolus, coreografi-strateghi che si inventano una sorta di caleidoscopio umano in cui tutto avviene su un piano orizzontale trasparente (la mdp è posizionata al di sotto di esso) e i passi finiscono con il formare, attraverso una complicatissima combinazione multischermo, delle parole (i palmi dei piedi solo l’unità elementare delle lettere): più facile vederlo che descriverlo; la cosa non finisce qui, perché l’esibizione, visionabile in tutto il suo splendore solo sull’apposito sito e solo usando il browser Chrome, è suscettibile di mutamenti dettati interattivamente dai fruitori. Il confine con la videoarte è labile, stante la sempre minore incidenza (se mai c’è stata) della canzone, ed è forse proprio questo impegno tutto versato sull’aspetto performativo, al di là dell’ammirazione sacrosanta che questi lavori suscitano, a rendermi perplesso e a farmi trovare le invenzioni del gruppo troppo ripiegate su uno schema che, variato quanto si vuole, si richiama sempre alla stessa logica. Voto (doppio): ! e ?
Jack King (V|M aprile 2011) è felicemente prolifico e firma L.A. Lights per Hourglass Sea: mescolando i livelli narrativi e adombrando una struttura vagamente circolare, il regista racconta una storia in cui i desideri di un bambino si incrociano con una sua fantasia iniziatica, una leggenda samurai che cela, nel conflitto e la riconciliazione, il desiderio del ritorno dei genitori, celebrato mentalmente nel finale e dopo aver ferito e soccorso gli stessi. Il mondo di King è sempre felicemente deviato e inquietante, punteggiato da elementi anacronistici e logicamente incongrui e viaggia sul piano dell’inconscio e del conflitto interiore. Difficile resistere agli enigmi di Jack King, difficile non rimanere incantati da un video che lascia aperto il campo delle domande, che non cerca risposte univoche, che evoca e non definisce, che agita acque profonde e comunica cose difficili da verbalizzare, ma che stentoreamente si affermano dentro. Girato, come sempre, nel Regno Unito, a Bradford, Yorkshire. Voto: 8
Molto presente in quest’annata, Nabil sforna un altro paio di chicche: una, effettatissima, per Wolfang Gartner: Forever, cantata da Will.I.am., vede il leader dei Black Eyed Peas dall’inizio della vita (un rapporto occasionale in discoteca fa incontrare lo spermatozoo con l’ovulo che feconderà) e ritorno: a qualsiasi età il protagonista ha sempre le stesse fattezze, mentre le immagini scratchano a tempo con il brano. Molto ironico, ma lo schizzo di sperma in tempo reale, che segue a un rapporto esplicito, ne ha reso difficile la visione sul Tubo. Lo si cerchi (anche altrove), ne vale la pena. I videoamatori lo hanno elevato a (s)cult. Voto: 7
La seconda capovolge completamente il registro e sulle note di Holocene di Bon Iver offre la poeticissima visione di un paesaggio islandese percorso da un bambino: effetti misuratissimi, quasi impercettibili, e meravigliosa capacità di costruzione dell’atmosfera. Bello, molto. Voto: 8
Arriva quasi a giochi fatti (l’album è uscito l’anno scorso) e dunque innocentemente il video di Slowdance di Matthew Dear, diretto da Charles Bergquist, un’ipnotica danza di immagini in bianco e nero, in slow motion e con uso strategico dei negativi che raccoglie in un flusso acquatico frammenti urbani e dettagli del corpo di una donna a tradurre quel senso di di disgregazione della memoria a cui il brano di Dear fa riferimento. Un commento visivo avvolgente e raffinatissimo che vanta effetti visivi consueti per il fotografo, designer e film maker di San Diego; Berquist, concessagli ogni possibilità di improvvisare, ha dato libero sfogo alle sue suggestioni nella creazione di questo mosaico di ricordi che emergono dalla coscienza per poi riaffondarvi. Voto: 7
– Machine civilazation – World order: Genki Sudo, ex lottatore e figura di spicco delle arti marziali, ora musicista (tra le altre cose) dirige e coreografa il brano del suo gruppo in un video che è pura acrobazia giapo, di quelle inconcepibili nel nostro mondo: performance in falso rallentatore, coregrafie-origami che intrecciano e usano i corpi come marionette. Tra le cose più stupefacenti dell’anno (vedere per credere) [foto].
– The body – The Pains of Being Pure at Heart, diretto da Phil Van: i ricordi di sé stessi bambini, in una giornata al mare, sono vissuti dai giovani protagonisti immersi in grigie occupazioni quotidiane, attraverso elementi variamente evocativi. Ben fatto, ma lo schema speculare si richiama, in modo palese, anche tematicamente, al classico dei Groove Armada My friend diretto da Sophie Muller.
– Kill Kill – WAT, diretto da Rémy Cayuela. Minihorror: la conturbante autostoppista porta il malcapitato automobilista in un Diner nel quale lavora. Lo seduce, ma è una trappola: la fine spiegherà da dove arrivano i succulenti hamburger serviti nel locale. Realizzato con una semplice Canon 5D, vanta una sfolgorante fotografia di Matt Wise che padroneggia il registro cinematografico prescelto. Rispetto.
– Get real, get right – Sufjan Stevens, da lui stesso diretto e animato. A chi tanto e a chi niente.
– Stand – Lenny Kravitz: video al solito ad altissimo budget per Paul “solostar” Hunter, regista da tre lustri di acclamate clip mainstream (Aguilera, Timberlake, Dion, Eminem, Wonder, Carey e tanti altri – quasi tutti -). Per Kravitz (che interpreta ben tre personaggi e che è uno dei suoi committenti più fedeli) gira un vero e proprio minifilm che rievoca, in chiave di commedia strampalata, uno spettacolo televisivo anni 70.
– Fadeaway – Deru, diretto da Sofia Garza-Barba: un dj-set davvero inquietante. Vedere per credere.
– Eyes be closed – Washed Out, diretto da Timothy Saccenti + Alan Bibby: una donna (la top model Coco Young) viaggia in moto e, secondo il canone cinematografico, il paesaggio circostante è palesemente retroproiettato. Un gran bel trip con finale esplosivo. Kitsch anni 70 a palla. Saccenti conferma il suo consegnarsi integralista alla visione pura.
– You’ll never know us – Oh Minnows, diretto da Unthank Alliance: la realtà è uno spazio alieno. Molto semplice, ma decisamente ben girato e con il bonus di un budget a dir poco ridicolo.
– How I know – Toro y moi, diretto da Jordan Kim; piccola commedia horror di serie B: i visitatori di una casa posseduta vengono fatti fuori dalle due fanciulle fantasmatiche che la abitano e, divenuti anch’essi fantasmi, danno vita con esse a una danza coreografata. Dal regista di Close to me dei Teams vs. Star Slinger che all’epoca dimenticai di segnalare.
– Chanel no. 3 (Painted eyes) – Hercules and love affair, diretto da Untitled Associated: ancora gli anni 70 con una clip visionaria fatta di riproduzioni seriali su chroma key benedette, a mò di sacerdotessa, dalla top model Iekeliene Stange.
– Young Gold – Mechanical Bride, diretto da Johannes Conrad e Michelle Phillips: un gioiello di delicatezza tutto giocato su semplicissime idee visive che sondano fragili equilibri di forme e di sensi, piccole sfide impossibili in ironica assonanza. [foto]
– When the nights falls – Chromeo, diretto da DANIELS: il duo rivelazione dell’anno torna demenziale, ma non smentisce la complessità di intelaiatura dei suoi lavori: un video gravido di significati.
N. B. – Trascinando le immagini sulla barra degli indirizzi, potrete vederle nel loro formato originale.
Grazie a tutti i lettori che mi inviano segnalazioni: sono assai preziose in questo universo sconfinato.
Buone visioni.
Infaticabile il collettivo Canada, oramai all’appuntamento fisso su questa rubrica. Stavolta, pur confermando sostanzialmente le caratteristiche del suo lavoro, le va ad applicare a un paradigma consolidato, quello del video performance, generalmente glissato, e dà una lezione alle major che, come si diceva la volta scorsa, stanno riducendo questa formula a uno schema immobile imponendo all’attenzione mediatica un’estetica e un’impostazione uniche. Per White nights di Oh Land gli spagnoli apparecchiano un lavoro molto fantasioso e più disciplinato del solito, in cui, attenendosi strettamente al tema onirico della canzone (dimostrando una coerenza, anche narrativa, quasi inedita) e rispettando i canoni del video dell’artista che se la canta e se la balla, sfoderano una vivacità e un’inventiva incessanti; che sia in un set o outdoor l’esibizione dell’artista ha sempre una marcia in più: coreografie spumeggianti, costumi originalissimi, soluzioni sceniche spiazzanti. Un surreale fuoco di fila, marcato dalla consueta camera instabile, dalla prodigiosa massa di riferimenti e da quella ruspanteria che, anche in una produzione alta e vincolata come questa, rimane il dato di riconoscimento dei registi.
Spears, Gaga, Beyonce e compagnia cantando prendete nota: cambiare si può. Voto: 7.5
E a proposito di Gaga in Yoü and I la regista sodale Laurenne Gibson scopiazza senza pudore Floria Sigismondi, scansando lo straccetto di uno sforzo e un’idea minimamente comparabile al modello, affidandosi soltanto al catalogo di irrinunciabili metafore. La Lady, dopo Madonna, corre da Marylin (Manson), ma ha il fiatone. Voto: due palle.