Ritorno in pompa magna per uno dei registi simbolo del videoclip, Floria Sigismondi, talento visionario smisurato che ha contribuito non poco all’innovazione e alla promozione allo statuto d’arte della pratica videomusicale. E.T., di Kate Perry ft. Kanye West, vanta scorci di gran classe in cui l’autrice non smentisce la sua stracopiata e superba cifra visiva, pittorica e torbida, il suo stile darkeggiante e barocco, mescolando elementi disparati (teatro kabuki, mondi immaginari, Spielberg, Cameron, persino Wall-E); il montaggio è di prim’ordine, con accelerazioni improvvise sempre espressive (vera marca di riconoscimento della Nostra); nessuna effettistica è gratuita (un doppio livello di immagine, con l’analogico usato per le rievocazioni del mondo perduto); sontuosa come sempre l’art direction: la sfigurata messa in scena del livello del presente narrativo (con una Perry-crisalide in metamorfosi/ fiore in boccio) mette ancora in riga torme di autori e autorelli.
Ciò che si può lamentare è invece una certa discontinuità, il lavoro patendo molto il cambio di mood negli interventi della guest Kanye West: quando si punta su un video-performance (anche se calato, come in questa circostanza, in un contesto narrativo) gli innesti rappati (spesso, ed è il nostro caso, non presenti nella versione originale del brano) vengono coerentemente illustrati mediante esibizione del performer (faccio due esempi vistosi e molto conosciuti: Tonight I’m fuckin’you di Enrique Iglesias che vede l’intervento di Ludacris e 4 minutes di Madonna e Timberlake, con l’intervento di Timbaland), ma risulta molto difficile, a quel punto, garantire continuità al discorso rappresentativo: questi incisi finiscono quasi sempre per costituire delle evidenti parentesi all’interno di una raffigurazione altrimenti compatta e assoggettano la clip a quella dittatura della star che aveva contraddistinto tutta l’estetica video degli anni 80, fenomeno poi fortemente attenuatosi nei due decenni successivi. Sigismondi non trova di meglio che ambientare la comparsata di West in una navicella spaziale, tanto per garantire continuità al tema sci-fi, ma non liberandoci dell’impressione dell’oggetto a parte: la narrazione intanto procede in modo del tutto autonomo (l’aliena Perry giunge come angelo a ridare vita a un umanoide, unico superstite del mondo distrutto).
Sarà interessante constatare come questo “problema”, sempre più ricorrente nella musica pop-rock attuale, verrà affrontato da altri autori (si veda la non-soluzione di Kaya che dirige Power di Marger feat. Mercston). Voto: avercene.
E a proposito di Kanye West è forse giunto il momento di occuparsene seriamente e di fare il punto, visto che dall’ultimo album ha tratto una serie di video eclatanti: da Power [foto], inquadratura all’indietro su un tabeau vivant (KW: Non è un video, è un quadro in movimento) popolato da figure simboliche (in rapido dettaglio), di sapore rinascimentale, kitschata di grandissima suggestione diretta da Marco Brambilla (dalla provocatoria durata: meno di due minuti, che riportano solo un frammento del brano, come se si trattasse di un teaser), al kolossal-sintesi Runaway, diretto da Kanye stesso con un contributo dell’artista Vanessa Beecroft (dalla provocatoria durata: trentaquattro minuti); dal già citato (vedi Video|Musica Febbraio 2011) All of the lights, regia di Hype Williams, per arrivare al cupissimo Monster diretto da Jake Nava che punta dritto all’effettaccio, ma con un rigore ammirevole, nel suo florilegio di bellissime ragazze morte, impiccate, zombesche o sezionate, a decorazione macabra delle scene…
Kanye, che fa leva sulla sua fama di ragazzaccio, alimentando il suo mito con operazioni scorrette solo in apparenza autolesionistiche e che si rivelano, invece, sempre efficaci e lungimiranti, si conferma tra i più intelligenti strateghi promozionali in circolazione, e non manca mai di spiazzare, giocando, cosa difficile in un campo di facili codificazioni come quello dello showbiz, sulla (vera) imprevedibilità.
Moby, per The day, si rivolge ancora una volta a Evan Barnard: in un ospedale il letto di morte di una donna, in una sua visione, diventa il centro della lotta tra il Male, un’entità diabolica, e il Bene, l’infermiera-Angelo Heather Graham, ricalcando le suggestioni di una dozzinale stampa religiosa (quella appesa nella stanza). Mentre la visione si dipana, Moby, in corsia, se la canta disteso a terra, accanto ad altre persone… La professionalità di Barnard è fuori questione, ma il video, pur non lesinando in accurate sofisticherie postproduttive, complice un pezzo di rara mosceria (che strizza l’occhio al Bowie berlinese e che è stato già interpretato da Mylène Farmer), si bea della sua unica trovata, avanzando innocuo fino al termine. Voto: 5
Wavlngth degli Headless Horseman, diretto da Wooden Lens (Ben Razavi, Nate Baston e Skyler Stevenson) è concepito, secondo quella che è oramai una vera e propria tendenza, come il recupero di un vecchio VHS in cui, con tutti i difetti legati alla vetustà del nastro, emerge la scorribanda di due bambini mascherati che simulano varie azioni violente in uno squallido contesto periferico. L’inquietudine è data dalla non chiara natura delle sequenze, stante il fatto che sovraincidono una videocassetta che presentava registrazioni televisive e che chi le guarda le mette in pausa e le ripassa al rewind: un video amatoriale? Vero? Falso? Un video musicale d’antan? Secondo capitolo di un trittico di versioni video dello stesso brano (la prima, diretta da un membro della band, assemblava filmati amatoriali recuperati su You Tube). Voto: 7
Più che un Fav, è une vera dichiarazione d’amore, quella per Simple Math dei Manchester Orchestra, diretto da Daniels (Daniel Kwan e Daniel Scheinert), talentuosissimo duo americano che lega abitualmente la laboriosa postproduzione alla funzionalità narrativa del lavoro, con risultati sempre smaglianti (lo splendido Underwear degli FM Belfast): il protagonista, nei pochi attimi in cui si dipana l’incidente stradale nel quale incappa, rivede la propria vita in un andirivieni temporale in cui presente, passato e delirio si mescolano significativamente. Sembra una situazione convenzionale, ma il duo, mettendo da parte la consueta demenzialità, la risolve con grande inventiva e poeticità, riuscendo a coniugare, con una fluidità che lascia di stucco, il lato narrativo e quello extradiegetico della canzone (i membri del gruppo e gli strumenti musicali che compaiono “a tempo”, il canto confermato ad hoc); tra strizzatine d’occhio alla molteplicità di livelli (già sperimentata in Commotion dei The Hundred in the Hands, al di là dell’esplicita citazione di Inception, di quest’ultimo lavoro) ed elementi che li percorrono trasversalmente (il cervo), i registi firmano un’opera in crescendo di equilibrio esemplare, tecnicamente sofisticata e di emozionalità rara. Brividi.
Capolavoro, diamine. Voto: 9
Timothy Saccenti, da sempre attento alle alchimie visive, gioca con variazioni sul primo piano dell’interprete in Cut me out dei MNDR: l’immagine del volto di Amanda Warner viene dunque manipolata grazie al programma Kinect Microsoft con cui l’artista digitale Ivan Suffrin, supervisore del video, ottiene molteplici effetti (tra cui il taglio con forbici di alcune parti del viso). Tra le diverse soluzioni, il regista ottiene esiti in tutto simili a House of cards dei Radiohead diretto da James Frost, dove si faceva uso del Geometric Informatics system, uno scanner che, senza alcun uso della camera o delle luci, immortala l’immagine attraverso laser multipli, pervenendo a un sorprendente risultato in 3D. Saccenti, come accade spesso quando si ha a che fare con nuove tecnologie, sperimenta un ritrovato e fa una dimostrazione dei possibili risultati che se ne possono ricavare; apre una strada, ma non la percorre: altri se ne avvantaggeranno. Voto: 6
You for leaving me dei Colourmusic, diretto da Matt & Oz, parte trucissimo con un massacro di pupazzi di peluche che vengono fatti a pezzi e scuoiati in una cucina: i dettagli sulle interiora sanguinolente abbondano e fanno pensare a un discorso di denuncia shock sul consumo e l’abuso delle carni. In realtà il preparato culinario si scoprirà essere un dolce di compleanno. Il cambio di scena è dunque su un party in giardino: dei bambini mangiano il dolce (dalla vistosa polpa rossa) e diventano scatenati, corrono e urlano animati da una frenesia incontenibile. Il festeggiato, alla fine, stremato, viene condotto nella sua cameretta. Si addormenta circondato – e qui sta il nocciolo – da pupazzi in tutto simili a quelli che ha appena divorato. Voto: 6.5
In Numbers in action di Wiley, il duo registico Us propone, come nel precedente Into the heart dei Mirror (Video|Musica di gennaio), la performance dell’artista come campo di applicazione di un’idea forte, in questo caso una metatestualizzazione del lavoro, una strategia di lettura che frantuma il testo a tre livelli: il primo è la messa in immagini della canzone: oggetti e figure umane, combinati in movimenti coreografici, traducono, visivamente e alla lettera, il brano musicale, secondo il verbo gondryano; nel secondo cartelli esplicativi punteggiano lo svilupparsi della canzone (strofe, ritornelli, outro), evidenziandone la struttura; nel terzo è lo stesso video a mettersi in scena: il ciak battuto all’inizio, il set nudo e crudo che palesa le indicazioni dei percorsi che verranno seguiti, il cartello finale (This is just a music video). Il tutto viene complicato da una postproduzione molto sofisticata che mette in loop, a ritmo col brano, singole porzioni del video e permette a Wiley di popolarlo (ogni Wiley è, come da titolo, un number in action). Voto: 7
E’ solo alla quarta prova il team losangelino Young Replicant (Alex Takacs, Joe Nankin, Hermes Trismegistus), ma sembra non sbagliare nulla. Se l’irrompere alieno nella tenera giornata all’aperto di un gruppo di giovani (il debutto con We own the sky degli M83, che vinse il relativo contest) si richiama moltissimo al successivo Handle with grace di Angela McKluskey feat. Telepopmusik, in cui degli origami multicolori, liberati da una gabbia, volano in una metropoli colta in momenti di varia quotidianità, il precedente Lovely Bloodflow per i Baths, storia di samurai, anime e creature fantasmatiche, video tra i più belli degli ultimi mesi, si riconnette a quest’ultimo,True Loves degli Hooray for Earth. Un guerriero è inseguito da un cavaliere mascherato in un deserto, penetra in una nuvola di fumo e passa in un’altra dimensione: stavolta è un naufrago che raggiunge la riva, alle sue spalle enormi statue inquietanti; dopo una visione, penetra in una grotta che diventa l’interno di una casa; giunto nella camera da letto, oggetto della precedente visione, viene raggiunto dal suo inseguitore che si rivela essere una donna. Come il precedente tutto è giocato sull’atmosfera, sulla sospensione, sull’enigmaticità conferita dal porre i personaggi in medias res, come vedessimo il frammento di un film di cui non conosciamo le premesse. E anche stavolta il risultato abbaglia per il rigore, l’alto tasso di inventiva visionaria, l’onirismo sottile. Voto: 8
Si chiude col nuovo lavoro di Jack King che continua a sfornare prodigi: al secondo video per il gruppo To kill a king (dopo la parentesi in collaborazione con Matt Green – il duo si è firmato JackoMat – per Mr Blood dei That Fucking Tank, V|M di gennaio), conferma una poetica e uno sguardo indiscutibilmente autoriali, affermandosi come una delle personalità più interessanti della nuova videomusica: in Fictional State racconta il menage di una coppia in un tourbillon tutto ambientato all’interno di una casa in cui i vari livelli temporali sono legati uno all’altro senza soluzione di continuità. La messa in scena è svelata dalla presenza di un regista (è lo stesso King) che dirige gli eventi, ma la finzione, celebrata con un applauso finale che ricomprende attori e troupe, è smentita dalla corsa finale della piccola figlia, che è turbata sul serio dall’ennesimo litigio della coppia che sembrava sfociare nell’omicidio. L’approccio ai fatti è come sempre anomalo e vagamente allucinato, la narrazione quindi è in bilico, mai puntellata con esattezza: il senso finale risulta dunque ambiguo, le intepretazioni, come per i precedenti, sono molteplici. King governa un lavoro miracolosamente fluido e dirige un video coinvolgente e di forte impatto visivo. Voto: 8
– The boy from the sun di Niva: il regista Joseph Rodrigues Marsh fa della ripresa di una ragazza che salta su un tappeto elastico, una materia visiva da plasmare: la sfoca, ne estrapola dettagli, la rallenta e la accelera; il risultato, perfettamente in linea con l’atmosfera musicale, è ipnotico e affascinante.
– Black widow di Coco Electrik – diretto da George Tsioutsias, punta su una bella coreografia ad effetto che evoca la vedova nera del titolo attraverso sofisticati intrecci di corpi. Efficaci le scelte di montaggio, poco fluido e molto fratto, che, mettendo in evidenza i quadri senza enfatizzarli, mantengono alto il tasso dell’ironia.
– The look dei Metronomy – diretto dall’italiano Lorenzo Fonda (moltissimi commercial, diversi video – per Bright Eyes, Jamie Woon, A minor reflection -, una certa predilezione per l’animazione): stop motion stranita (John Joyce e Max Winston), puntata su dei gabbiani-pupazzo che si cimentano in un autoscontro (sic), mentre il gruppo suona il pezzo (bellissimo) sul medesimo fondale bianco.
– Alive dei Daft Punk [foto]: interessante inversione di ruolo con l’attore Emile Hirsch che dirige il regista di videoclip Ace Norton, qui protagonista che incrocia un body builder- alter ego e/o ideale da raggiungere, fino al surreale faccia a faccia. Hirsch gioca sull’ambiguità e sullo spiazzamento continuo delle aspettative dello spettatore: prima adombra l’appoccio erotico, poi disvela (senza sbandierarlo) il trip mentale. Niente male come debutto.
– Albatross dei Wild Beasts – diretto da Dave Ma: il regista dei convincenti video dei Foals, alle prese con il delicato pezzo degli adorati WB, costruisce un set gelido, teatrale e molto evocativo che da un lato iberna, come il brano, le suggestioni retro del gruppo, dall’altro le scioglie in danza.
– Open arms – Elbow [foto], splendida animazione diretta da Grigoris Leontiades e Layla Atkinson da uno storyboard dell’artista Oliver East, autore delle copertine dei dischi del gruppo.
– Don’t Sit Down ‘Cause I’ve Moved Your Chair – Arctic Monkeys, diretto dal duo Focus Creeps: esercizio in stile anni 70, con immagini analogiche in acido, a tema con la svolta ostentamente retro del gruppo; Alex Turner sembra Julian Casablancas senza averne l’afflato, la voce quasi (Julian) Cope-eggia, ma brano e immagini si sposano con amore e il risultato è piuttosto felice.
– Echo chamber – Parts & Labor, diretto da Nicholas Chatfield-Taylor: stop & motion a tempo su performance del gruppo: una sola idea, ben realizzata.
– Stolked – Staring problem, diretto da Chris Lagarce.
– Losing my patience – Shit Robot, diretto da Fergal Brennan
Infine tutto in video il nuovo album dei Tv on the Radio: ogni traccia ha già la sua clip e il lavoro complessivo è visionabile online. Registi (ed esiti) vari.
– Open your eyes di Alex Metric and Steve Angello feat. Ian Brown – diretto da Peter Serafinowicz (lo strampalato I feel better degli Hot Chip): pallosa parodia di Rocky in cui il pugile protagonista si scontra sul ring con un robot che … lo spiezza in due. Idee meno di una per un (very) high-budget tutto da dimenticare.
– Boadicea – Mason feat. Roisin Murphy, diretto da Ron Scalpello: registro cinematografico ambizioso per un video narrativo in ambientazione periferica piuttostro loffio, nonostante l’imprevista svolta visionaria della seconda parte che metaforizza l’esperienza della rottura traumatica di un rapporto di coppia. Loach incrocia Lynch, ma i due si ignorano.
– Deeper Understanding – Kate Bush [foto], diretto dalla stessa Bush: la storia del’uomo avvinto dalla voce consolatoria online, sirena moderna che lo incolla al pc, e che rimane vittima di un virus vocale, si snoda pesantemente, tra squarci visionari (la bella parte onirica) e non. La Bush segue con orgoglio la sua strada pedissequamente narrativa, come se non fossero passati decenni da questo modo di coniugare musica e immagini, ma perviene a un risultato nato vecchio che, lo si dice con la morte nel cuore, delude assai.