A good video is a healthy balance of misery & beauty.
AG Rojas
Come una statua iperrealista di Ron Mueck, un’enorme St. Vincent è esposta in un museo, consegnandosi alla visione degli astanti. La donna canta, scopre i suoi sentimenti e, tentando di muoversi alla vita, cade a pezzi, gigantesca e fragile metafora. Cheerleader, diretto da Hiro Murai, cita intelligentemente per rendere in pieno il senso di vulnerabilità non solo di un corpo, ma di un’anima messa a nudo.
Voto : 7
You know what I mean di Isaiah Seret rinnova la collaborazione del regista con i Cults. In un circo una giovane si innamora di un acrobata (i protagonisti sono i due membri della band, Brian Oblivion e Madeline Follin), ma il padre di lei, non accettando la cosa, inventa una nuova, pericolosa attrazione con il fuoco: il ragazzo la prova e viene sfigurato. I due innamorati, dopo la convalescenza di lui, fuggiranno. In una sorta di visione (una rievocazione degli ultimi istanti prima della fuga) si replica l’immagine iniziale (il ragazzo compie il suo numero e si lancia dall’alto), ma stavolta il suo volto, ustionato, è coperto da una maschera.Voto: 8
Seret ha reso anche disponibile il making of del citato Going Outside; vale assolutamente la pena visionarlo per rendersi conto della sottigliezza del lavoro ricostruttivo fatto per quel video straordinario.
Bangarang conferma il sodalizio tra Skrillex e il regista Tony Truand (o Tony T. o, come in questo caso, Tony T. Datis) – dopo i bellissimi First of the year e Ruffneck -, un percorso fondato da un lato sul contrasto tra l’elettronica estrema dei brani e una narrazione tanto inventiva quanto leggibile, dall’altro sullo stile riconoscibile del regista: fotografia satura, personaggi ipercaratterizzati, ralenti pervasivo. La prima parte vede due ragazzini assaltare il camioncino del gelataio in un vero e proprio blitz nel quale la mano dell’uomo viene violentemente chiusa nella portiera del mezzo; fuggiti, i monelli si godono la loro golosa refurtiva. La seconda parte, in assonanza con la prima, vede i due, oramai adulti, assaltare un portavalori con dinamiche in tutto simili. Il finale vede il gelataio, invecchiato, aprire gli occhi dopo essersi assopito e servire un cliente. L’idea che quello che si è visto sia stato tutto un sogno balena nello spettatore, ma è smentita dalla scena successiva: il cliente, che è uno dei due furfanti, saluta sornione l’uomo che risponde mostrando il moncherino.
Voto: 7
E torna Tyler the Creator/Wolf Haley. Il suo Yonkers è stato uno dei video di punta dell’anno passato e questo Rella (Hodgy, Domo Genesis and Tyler, The Creator) lo rivede alla regia. Se in quel caso la provocazione si giocava sul piano del video-performance, dissacrato con molta intelligenza, in quest’ultimo lavoro invece si sviluppa su più piani, ponendosi le immagini ai limiti di molte soglie. La clip inanella eccessi, stentando a trovare un centro riconoscibile, apparendo come un tentativo troppo scoperto di suscitare sorpresa, sdegno o nausea: troppo evidentemente scorretto (la violenza gratuita) e troppo ricercatamente trash (sperma, liquame, squallore domestico) per colpire nel segno, Rella va alla sfrontata ricerca della reazione e della censura, senza nessuna apparente sincerità. Rete spaccata, ovviamente, tra chi grida al genio e chi scrolla le spalle.
Voto: 5
I Daniels, veri protagonisti della passata stagione, firmano il ritorno degli Shins con Simple Song. Le ultime volontà del padre defunto di una famiglia ipercaratterizzata e decisamente disfunzionale (Wes Anderson lo si può considerare una citazione esplicita) vengono lasciate con un videomessaggio che contiene spezzoni di filmini della famiglia. Tutti i convenuti si lanciano in una sorta di selvaggia caccia al tesoro (l’atto di proprietà della casa: chi lo trova prende tutto) e le loro azioni presenti si sovrappongono a quelle del passato in uno slittamernto dimensionale che ricorda molto quello di Simple Math. Il video si muove ancora una volta su diversi livelli: passato e presente live e i due tempi del videotestamento (il padre che si rivolge ai figli e le sequenze dei filmini). Il rinvenimento dell’atto si rivela una beffa: la casa sarà demolita.
Sorta di attestamento di poetica, molto spiritoso e ben realizzato, con tentativo riuscito di contestualizzare la performance (è uno degli aspetti più interessanti del lavoro dei due registi), ma lontano dalle sublimi geometrie dei due predecessori più rilevanti (il citato Simple Math e My Machine).
Voto: 7
Nabil Elderkin, infaticabile, firma un nuovo video per Bon Iver (Holocene era uno dei vertici del 2011): vero e proprio cesellatore di atmosfere, il regista riesce ancora una volta a interpretare lo spirito del brano e ritagliare un abito-clip che veste a pennello la musica di Vernon. Sorta di gemello del suo predecessore, Towers vede di nuovo un’unica figura nel paesaggio (lì era un bambino). Un uomo, recatosi al mare e presa la barca, si avvicina a delle torri di legno. Il loro crollo è simultaneo al suo spirare. Come per Holocene , anche in questo caso, il regista dipinge una situazione reale, immersa nella Natura (the best low budget art director on the planet, ha detto Nabil) con pochi, ispirati tocchi effettistici, che straniano e incantano. Una nuova perla.
Voto: 8
Si può fare un video che sintetizzi varie tendenze del momento (fotografia desaturata, tocchi surrealistici, vaghi aromi anni 70) senza rendersene schiavi, ma proponendo una propria idea e, soprattutto, un lavoro che funzioni dall’inizio alla fine. E’ il caso di Hands degli Alpine in cui la regista Luci Schroder illustra una congrega di giovinette (i maschi appaiono solo su uno schermo), vestite con gli stessi colori, all’interno di una casa-bunker con giardino e piscina e che, dopo un rito iniziatico (le scarpette bruciate dell’incipit), sembrano avere una sorta di rivelazione/ risveglio sessuale. E’ decisamente efficace il modo in cui l’autrice, giocando su simboli evidenti (il succo dell’anguria come sangue mestruale, gli schizzi di latte evidentemente spermatici etc), ponga in essere una sorta di distopia soft-core, incredibilmente ambigua, che si presta a molte interpretazioni, riuscendo a narrare e a far interrogare lo spettatore nello stesso tempo. Veramente bello.
Voto: 8
Il duo Young Replicant (Alex Takacs e Joe Nankin) con soli quattro video si è affermato come uno dei team più interessanti in circolazione. Il quinto della serie, Loud Mouths dei Wise Blood, conferma capacità e poetica. Ancora una narrazione che si pone come frammento di un disegno più ampio (questa volta la clip comincia dalla fine, per riavvolgere il nastro della vicenda), ancora una dimensione al bivio esatto tra realtà e delirio (si ha sempre l’impressione, nei loro video, che si stia guardando un sogno), ancora una serie di peculiari immagini enigmatiche.
Un uomo lascia la sua gang e viene incastrato: tornato dalla sua donna la trova morta sul letto, la polizia lo malmena. Il protagonista rinviene in una macchina guidata da due membri della gang, una farfallina sul finestrino gli indica un pericolo imminente (un’immagine simile lo aveva colpito prima della scoperta del cadavere della sua ragazza) e lo induce a ripararsi; infatti, a causa di un cervo, l’auto sbanda e si ribalta. Unico sopravvissuto, il nostro eroe può fuggire.
Voto: 7.5
Il regista Gaspar Noé presta il suo stile alla videomusica con Love in motion di SebAstian. Un bambino riprende con una videocamera la sorellina (o un’amichetta, poco importa) nella sua cameretta mentre la ragazzina mima le tipiche pose sexy delle star adulte di tanti videomusicali. Handycam ondivaga, tinte cariche e inconfondibili titoli cubitali per una clip che ha avuto i suoi problemi di circolazione (You Tube ha ostacolato per un mesetto la performance della bimba tigrotta, coreografata da Celia Rowlon-Hall), mentre i modelli cui il regista si ispira (e che sottilmente critica) sono virali e nutrono senza ostacolo alcuno (anzi) l’immaginario di un’adolescenza sessualizzata soprattutto dalla cultura dominante. I transalpini osano sempre e sempre vincono. Vive la France.
Voto: 8.5
Oblivion, diretto da Emily Kai Bock presenta una performance dal vero, in mezzo a un pubblico virile di alcuni eventi sportivi (football, motocross acrobatico etc), intervallata da una serie di inserti in cui Grimes/Claire Boucher è circondata da aitanti ragazzi che fanno da cornice nella spudorata location (gli spogliatoi). In ambiti in cui una mascolinità cameratesca a volte ottusa, facendo mostra di sé, viene di fatto reificata, la cantante propone, aerea e vivace, il suo pezzo, catalizzando su di sé l’attenzione: governando l’azione, l’artista pone, nel loro stesso elemento così profanato, le figure maschili in secondo piano. Arguta, potente, politica riflessione sull’interpretazione dei ruoli sessuali e sul loro sovvertimento: i maschi dominatori dei contesti; le ragazze, solo cheerleader, ai margini degli eventi. E’ capolavoro.
Voto: 9
E’ sempre più raro vedere un video-performance interessante, soprattutto se applicato al modello classico dell’artista che semplicemente canta e balla, senza implicazioni narrative di alcun tipo. Animal Love I di Charlene Kaye, diretto dalla sorella Lynne Kaye, è un piano sequenza (forse taroccato, mi rimane un dubbio), in cui la macchina da presa a mano è immersa in una coreografia (di Jessica Bonenfant) in cui le figure evolvono continuamente di fronte al privilegiato punto di vista dell’operatore. Finalmente un video in cui movimenti, costumi, fotografia convergono tutti verso un’idea di messinscena coerente ed efficace.
Voto: 7.5
Se non siete del club BastaBjork, pateticamente alla moda per un’artista vera che ha il solo torto, tra alti e bassi, di non essersi mai piegata a quella stessa banalità imperante che sancisce l’atteggiamento di chi ieri la lodava e oggi la condanna solo perché continua a fare quello che sa fare, potrete godervi il bellissimo Hollow diretto dal biomedico Drew Berry per il progetto Biophilia (dall’inizio alla fine, che sennò non si coglie il senso di questa esplorazione animata nei paesaggi molecolari del corpo della cantante ottenuta attraverso i risultati di una cristallografia a raggi X).
Voto: 8
Il 2012 è un anno destinato a spaccare. Torna anche Daniel Wolfe, dopo l’esaltante saga di Plan B, ancora per The Shoes (il suo memorabile Stay the same).
Wolfe ha dimostrato da tempo di avere le credenziali per affrontare il grande schermo: senso della narrazione, registro veristico oramai riconoscibile, macchina a mano addossata ai personaggi, rappresentazione delle dinamiche malate della società, stili e generi ibridati (il dramma sociale, il musical, l’horror, il thriller). Esagero se dico che Jake Gyllenhaal, protagonista di questo Time to Dance, non è mai stato utilizzato meglio? Che il regista ha il merito di sfruttare a fondo la sua presenza scenica? Che questa sorta di nuova versione di American psycho (puntualmente lodata da Brett Easton Ellis, che non ha risparmiato aggettivi alla clip) in cui i massacri del protagonista si incrociano su diversi livelli temporali (forse, e qui c’entra ancora Ellis, solo immaginativi) ha una carica disturbante e una potenza visiva inusitate? Cosa, se non il talento del regista, può aver convinto una star hollywoodiana a girare a Londra un video a basso budget per un progetto musicale francese di nicchia?
Ehi, sono tutte domande retoriche.
Voto: 9
– L’espediente del video-specchio è vecchio ma, come al solito, non conta la tecnica adoperata, solo come la si usa. E questo Off the wall di Yuksek [foto] diretto da Romain Segaud è uno dei più freschi, gioiosi e inventivi video degli ultimi tempi. Vive la France.
– Jodeb fa un portentoso lavoro di montaggio e VFX per il video dei Cypress Hill e Rusko, Roll it, Light It . Sintonia musica-immagini a mille, per un esaltante video-performance.
– Ancora gli anni 70 con Getaway Tonight di Opossom diretto da Special Problems, odissea visionaria nello spazio.
– Si cela l’accesso a un’altra dimensione (anche solo mentale) nella scatolina rossa del protagonista di Sa sa Samoa dei Korallreven. Una nuova conferma per Filip Nilsson, collaboratore abituale di Andreas
– Momenti da panda nel bel Treehouse di Ifan Dafydd, diretto da Yoni Lappin.
– L’elegante danza delle montagne: We Should Be Swimming dei Zulu Winter, diretto da Cagoule’s Abby Warrilow e Lewis Gourlay.
– Gesù tornò alfine: sofferente à la wrestler nel convincente Gone Tomorrow di Lambchop per la regia di Zack Spiger e in una demenziale, assai divertente versione skater per Keep you close dei dEUS, diretto da Saman Keshavarz, dove le tappe della sua parabola esistenziale vengono genialmente rilette e filtrate secondo un registro splatter coraggiosamente iconoclasta (il video è rigorosamente NSFW).
– Gente vola nell’esaltante crescendo visionario di Feel to Follow [foto] dei Maccabees diretto dalla quintessenza della britannicità in video, James Caddick, già autore per il gruppo, un paio di anni fa, di Can you give it. Bellissimo album, che ha già consegnato il suo miglior brano alle immagini di David Wilson.
– Parte come una stinta rievocazione di una moltiplicazione gondryana Losing myself di Will Young diretto da Henry Schofield e si risolve come la brutta copia di un video di Genki Sudo. Molto lodato in rete. Qui non attacca. Su un tema simile si guardi al fresco esito della stop motion a basso budget di Darcy Prendergast in Easy Way Out di Gotye. Molto, ma molto meglio.
Il diritto di non guardare un video.
Il diritto di saltare le sequenze di un video.
Il diritto di non finire un video.
Il diritto di riguardare un video.
Il diritto di guardare i making of.
Il diritto di vedere qualsiasi video.
Il diritto di vedere un video su qualunque supporto.
Il diritto allo screenshot.
Il diritto di cantarci su.
Il diritto di non scriverne.