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V|M_01/11 | Serrano, Saline Project, JackoMat, Us, Daughters, Glashier …

Bianco e nero virato in azzurro per il sound sixty del redivivo Edwyn Collins, già leader degli Orange Juice, che brandisce spavaldo il bastone, visibile testimonianza dei due ictus che lo hanno colpito; coerentemente con il consueto revivalism sound dello scozzese, la band è schierata di fronte alla telecamera, come rock comanda; ma l’innesto di Kopranos e McCarthy dei Franz Ferdinand riconduce tutto alla contemporaneità e l’impostazione tradizionale del video performance viene dunque arricchita: ogni musicista è incasellato in un trasparente mobile che si sovrappone a piacere con quello degli altri, mentre le immagini sono sovraincise da segni optical multicolori che le adornano, a ritmo con la musica. Do it again è un video assai raffinato (voto: 7) che si pregia della regia di Kieran Evans che ha diretto anche il primo contributo tratto dall’omonimo bell’album, Losing sleep.
Registro anni 60 anche per i Two Door Cinema Club di What you know: Lope Serrano orchestra una vivace coreografia di pon pon girls in uno studio completamente bianco dove i musicisti sono posizionati su piedistalli quadrati e in cui spiccano pochi elementi geometrici con colori primari: tutto è nel segno della freschezza, compresa la manciata di secondi di “buio psichedelico”. Voto: 6
Damien Hirst una volta affermò quello che solo in apparenza è un paradosso: “L’unica cosa che non mi piace del fare video musicali è che non si può cambiare colonna sonora”, chiara attestazione della libertà e dell’autorità che i videomaker col tempo andavano rivendicando sulla committenza, complice una interdipendenza sempre più forte tra le ragioni della musica e quelle delle immagini chiamate ad accompagnarla. Non stupisce dunque che ci siano autori che si muovano in autonomia (Gondry, ad esempio, che si è proposto spesso agli artisti per dirigere clip dei brani che gli piacevano – famoso il rifiuto di Michael Jackson -) e che decidano di lavorare su un pezzo, elaborando idee del tutto personali (ancora Gondry: il dissidio coi Radiohead). The Saline Project è il collettivo capitanato da Adam Toth che ha lavorato a Fly trapped in a jar dei Modest Mouse, un’animazione 3D che, in due anni, è stata più volte fermata, rimaneggiata, ostacolata e infine ritirata dopo che il collettivo ne aveva pubblicato sul suo sito una prima versione, senza alcuna autorizzazione. Al virale che conseguì all’illecita diffusione si deve infatti la reazione furiosa della casa discografica e del gruppo che bloccarono il progetto. Ma il collettivo ci credeva e ha caparbiamente portato avanti il lavoro da solo, migliorandolo e terminandolo. Ottenuto il perdono e il definitivo lasciapassare della band oramai disinteressata all’aspetto promozionale, The Saline Project ha trasformato Fly trapped in a jar in un vero e proprio corto d’animazione tratto dal pezzo dei Modest Mouse. L’attesa viene oggi ripagata da una straordinaria invenzione visiva in CGI: il musical alieno, dapprima giocato sulle nuance rosa, cresce nota per nota, per poi esplodere nella parte centrale, con una virata cromatica e con un sovraffollamento di personaggi che giostrano una coreografia esaltante dominata dal cantante Isaack Brock (unico elemento “reale” del video), incapsulato in un corpo marziano. Impressiona la cura dei dettagli, il realismo delle posture e degli atteggiamenti, il connubio tra movimento e ritmo, la contagiosa follia dell’assunto. Un autentico labor of love, come lo ha definito Toth. Chapeau bas. Voto: 8
Quintessenziale Tonight (I’m fuckin’you) di Enrique Iglesias (la variazione potabile del titolo è, naturalmente, lovin’) diretto da BBGun & Parris: lo si prende in considerazione in primo luogo per la pervicacia (cosciente?) con la quale squaderna i video-luoghi comuni degli ultimi anni, ovvero tutto quello che non vorremmo mai più vedere in una clip: dalla serata in discoteca all’amplesso in piedi; dal rapper ripulito in limo, circondato da bonazze, fino al cantante che si strugge (si fa per dire) nella camera d’albergo di lusso (per poi consolarsi “alla settima”). Il tutto in una confezione ultrapatinata che non lesina in laccato erotismo, di grado esplicito molto superiore allo standard generalmente consentito al prodotto mainstrem.
I registi azzardano una pluralità di gradi rappresentativi (dentro e fuori dalla narrazione e su diversi piani temporali), con tanto di flash-forward in reverse iniziale e un possibile livello di fantasia (erotica): il brano risuona diegeticamente in discoteca, penetrando attraverso le pareti della toilette dove i due protagonisti consumano brutalmente (Please excuse/ I don’t mean to be rude: è un pirata e un signore come il papà), per poi pompare dalla radio permettendo a Ludacris di rapparci sopra, in un segmento di racconto di imprecisata collocazione cronologica; ancora riecheggia su un’altra vettura (in un diverso livello temporale, l’autista è lo stesso) inducendo nella ragazza della disco il fuckin’ ricordo. Al di là di ciò che espone a uno sguardo oggettivo (lui, che non riesce a tenerlo nelle mutande, se la fa prima con una bruna in discoteca e poi con una bionda in Messico dove, peraltro, si imbatte imbarazzato nella bruna; si concede infine un’orgia scacciapensieri e poi via in motoscafo con la bruna e la bionda assieme – bacio lesbo compreso -) la costruzione della storia segue un arzigogolo piuttosto inconsueto per un video commerciale, con molte e sparse ambiguità tra piano della realtà e dell’immaginazione libidinosa, dando vita a una ridda di ipotesi (baloccatevi con gli amici, c’è da divertirsi). Il video come oggetto desiderante, prodotto dalla Jacuzzi Films (in nomen omen). Voto: 6
Video concettuale del mese My house di Hercules and Love Affair [foto], regia di Price James, che ricorda molto l’operazione di riproduzione storica fatta da Nat Livingstone Johnson per Collector degli Here go magic: l’ambientazione è quella di un dance show di un’oscura TV locale dei primi anni 90 e il video è costruito come un reperto dell’epoca (con tanto di difetti di grana del VHS): gli abiti, il clubbing, gli artifici televisivi (dissolvenze incrociate, zoom spasmodici, camera a mano anarchica); persino gli spot pubblicitari che interrompono lo show sono puro illusionismo modernista volto a celebrare verosimilmente la scena house dell’epoca, a cui il brano fa esplicitamente riferimento fin dal titolo. Un’intera generazione, guardandolo e ascoltando il brano, si sentirà a… casa. Voto: 7
Altra epoca qualla evocata invece dal video di Ron Robinson che fa diretto riferimento ad Anémic cinéma di Duchamp: l’incipit di Circles dei Soft Moon potrebbe esserne anche diretta campionatura e il seguito ne rispetta lo spirito da opera sperimentale con una serie di ipnotiche figure a tempo, in rigoroso bianco e nero, e immagini rovinate come se provenissero direttamente dall’epoca d’oro surrealista. Voto: 6.5
Sono proprio lavori come questi, che a una più ristretta cerchia di iniziati, in grado di riconoscere l’apparato di riferimento, conferiscono un portato di informazioni maggiore rispetto a quello di uno spettatore inconsapevole, a confermare come i videoclip, al di là della loro funzione promozionale e della maggiore pervasività, possono risultare forme espressive molto più complesse e mediate di altre, cinema in primis, che fanno affidamento su impianti e formule riconoscibili e collaudati.
David Lynch incide un 12” e lancia una competizione per i video delle due canzoni. Il vincitore per l’irresistibile dance di Good day today è Arnold de Parscau: una famiglia riunita per la cena dà di sé uno spettacolo alienante: il padre guarda un televisore divelto, con tubo catodico a vista e posizionato, a suo esclusivo beneficio, a capotavola; la madre è ai fornelli che tracanna alcol, sicura di non esser vista; la sorella manda messaggi dal cellulare; il piccolo protagonista ha di fronte una minestra dalla quale, piano piano viene risucchiato per riemergere in una dimensione immaginaria in cui c’è una decodifica in chiave esplicitamente horror di quello che è il suo squallido quotidiano. L’allucinazione si interrompe su uno sparo: il bambino ha imbracciato il fucile e ha ucciso il padre. Memore di The Grandmother, la clip ha nella dimensione visionaria la sua parte più riuscita, ma la narrazione paga il pegno del brutto finale (voto: 5.5). Più interessante e raffinata la costruzione di I know [foto] girato da Tamar Drachli col solo ausilio di una Canon digitale: l’ossessione per la donna che lo abbandona si traduce, per il protagonista, in una sorta di pedinamento a distanza, complice un telecomando. Attraverso il rewind l’uomo ricondurrà a sé la donna, rientrando, nel finale, nel quadrato dello schermo. Voto: 6.5
Molto arguto l’assunto di The green room di The Tins diretto da Stella McDonald: Dio oramai è il commesso frustrato di un grande magazzino, un dio molto goffo e sostanzialmente, allenianamente disadattato, che, ricevuto per posta un modellino del mondo, tenta di far funzionare le cose: ogni tentativo si rivelerà un disastro costringendolo a rinunciare. Tornerà al suo mesto posto di lavoro, a invidiare l’impiegato del mese. Ripreso, immagine per immagine, con una still camera della Sony, il colore e la luce del video sono stati poi graduati in postproduzione. Quando si hanno delle idee il budget non è mai un problema. Voto: 6.5
Si rimane in argomento, ma con ben altre ambizioni: Immortal di Noah Francis [foto], diretto da Arran Bowyn, apprezzato (e premiato) autore di commercial, propone un tableau vivant del Cenacolo vinciano. L’impianto compositivo e la direzione artistica sono di tutto rispetto; anche il graduale svelamento dello scenario, con preventivi primi piani sui protagonisti e successivo carrellare all’indietro della camera che consente la piena inquadratura del contesto, è efficace; gli effetti fotografici – la riproduzione della luce solare che proviene dalla finestra e che consente il proiettarsi delle lunghe ombre nella stanza – sono presi di peso dall’installazione di Peter Greenaway The Last Supper. A vision by. Il risultato finale è suggestivo nel contrasto tra il riferimento pittorico “alto” e l’espressione “volgare” e agguerrita del rap che risuona nell’ambiente. Il finale distruttivo, nella sua enfasi, fa tenerezza. Voto: 6.5
Registro esplicitamente cinematografico per Vicious satellite dei Foxx on fire per la regia di Edward Nousden: il protagonista è pedinato mentre si reca a un party vizioso che vediamo in montaggio alternato. Il registro vintage è un po’ inflazionato, l’approccio narrativo è apprezzabile, ma confuso; rimane interessante l’uso del sax nella narrazione, ma in sincronia con il brano. Il ciuffo di Bryan Ferry sventola ad ogni singola nota. Voto: 5
Nel video di Dan Gibling Evacuate dei Primal Device le immagini evocano i soliti incubi (il complotto, un sistema immanente etc), col protagonista in fuga e perseguitato da visioni inquietanti. Il lavoro, per quanto batta strade stilistiche tutte note e legate a un immaginario anni 90 (e basta con questi lavandini che traboccano!), è ben diretto (trova persino spazio una citazione di Shining), ma le apparizioni del gruppo spezzano la tensione, fiaccano il ritmo e rispondono palesemente a ragioni iconico-commerciali: i due versanti dell’opera (quello della narrazione e quello performativo) dialogano a stento. Voto: 4.5
Più classica e armonica l’interazione tra ambiente e musicisti in L.I.F.E.G.O.E.S.O.N. di Noah & The Whale: nel localaccio notturno, una bionda balla in un peep show che poi mette in mostra i musicisti, infine il gruppo si esibisce sul palco. Le sfocature visionarie e l’atmosfera malata fanno un po’ Lynch, ma la freschezza del pezzo e l’ironia di fondo salvano la baracca. Voto: 6 [foto]
A proposito di film, non è possibile ignorare il sostrato citazionistico di Mr Blood di That Fucking Tank [foto]: titoli di testa e di coda e in mezzo un bell’intrico di riferimenti, da Strange days ad Arancia meccanica fino a Matrix (ma c’è anche un sacco di Cunningham, tanto per cambiare), il tutto per un parossistico viaggio nell’esperienza virtuale che coinvolge il protagonista che, inizialmente intrappolato a un sistema che gli impone una sorta di s.q.u.i.d. di bigelowiana memoria, riesce a liberarsi: il mondo che lo attende, però, ha qualcosa di strano… Realizzato magnificamente, pieno di idee, molto ardito in quanto a segni e metafore (dov’è la realtà? Che sia quella dalla quale il nostro uomo fugge?), forte di un’ironia acida e dominato da uno sguardo peculiarissimo, il video conferma il talento del regista Jack King (qui in collaborazione con Matt Green: il duo si firma JackOMat), autore di quel Cold skin dei To kill a king, che si era imposta come una delle visioni più oniriche, misteriose e personali dell’anno scorso. Voto: 7.5
Non meno talentuoso il suo sodale Matt Green, che gira, con sole dieci sterline e una Sony Z1, Last lungs, breve apologo sulla perdita dell’infanzia.
Il duo Us dirige Into the heart dei Mirror [foto] e mette in gioco le aspettative inconsce dello spettatore alle prese con una messinscena apparentemente realistica: nella piena oscurità un occhio di bue illumina un dettaglio di quello che sembra l’interno di una stanza; il video si sviluppa in questa chiave, proponendo diverse variazioni di questo tipo di immagine, ma il finale svela le illusioni ottiche mostrando il dato scenografico limitato alla sola superficie illuminata, il resto è stato solo immaginato dallo spettatore, split screen compresi: la band abbandona il set di ripresa che si dimostra di dimensioni contenutissime. Il lavoro combina molto bene il dato ideativo con quello della resa suggestiva del brano musicale. Voto: 7
Diverso l’illusionismo di Big room dei Tess: Max&Michel puntano su una narrazione apparentemente realistica e romantica, ma lo svolgimento del racconto spiazza svelando il risvolto tragico della situazione e ponendo ciascun personaggio sotto la giusta luce. Voto: 6.5
Il collettivo Diamond Dogs dirige Getting nowhere di Magnetic Man (feat. John Legend): i quattro cavalieri dell’apocalisse (Pestilenza, Guerra, Carestia e Morte) sono personaggi incappucciati senza identità che si muovono per la città a bordo delle loro bici, sintetizzati in una figura nera a cavallo, e proiezioni realistiche di un videogame in cui si stanno cimentando due ragazzini dei sobborghi. Il loro percorso urbano, sotto un cielo plumbeo e squarciato da fulmini, si incrocia con una serie di soggetti emblematici (i sette peccati capitali?) e vari riferimenti biblici che vanno a disegnare un quadro coinciso e deprimente della realtà contemporanea. Ennesima dimostrazione di uno dei principi base della videomusica: è il montaggio che racconta (Eisenstein docet). Voto: 7
Quello di Christopher Mills per i Metric comincia come un viaggio in treno e si trasforma in un vero trip mentale, con immagini di evanescente suggestione, polveri di ricordi, ologrammi di un passato che riemerge e scompare. Memorie baluginanti, immaginazione al galoppo, sogni & desideri che si inabissano in un video di alta fattura: Expecting to fly, cover del brano di Buffalo Springfield e seconda, portentosa collaborazione tra il regista e il gruppo, dopo l’apprezzatissimo lavoro di animazione nello short Collect call, si chiude su sontuosi e fluttuanti titoli di coda. Voto: 7.5
E che dire del nuovo lavoro di Patrick Daughters in Fever dreaming dei No Age? Il Maestro sfodera un pianosequenza in cui ogni zoomata in avanti della macchina da presa ha un effetto distruttivo sul living room nel quale i musicisti si stanno rilassando, fino al cruento finale in cui, dopo che il batterista ha perso persino la mano, i due vengono spiaccicati al muro. Quello che consideriamo il migliore autore di videoclip degli anni Zero torna trionfalmente con una nuova, consistente ideazione e marca il terreno anche per il decennio appena iniziato. Attendiamo, adoranti, un altro exploit. Voto: 8
Destinato a far discutere il video di Steve Glashier che assume il punto di vista di un cecchino che spara alla folla facendo fuori un mucchio di persone in The day I die dei South Central: nessuna variazione dall’inizio alla fine (attraverso il mirino ci si muove tra le potenziali vittime in realistico pianosequenza), carneficina e orrore nudi e crudi consegnati alla reazione emotiva dello spettatore/assassino, in un’epoca desensibilizzata dalla spettacolarizzazione e ludizzazione della violenza e oramai immune allo choc, qui rappresentata dal duo che attraversa del tutto indifferente la scena della strage. Pura provocazione in cui, come direbbe Cattelan, “ogni reazione è lecita perché aggiunge nuovi significati alle immagini”. Voto: 7.5
E’ una meraviglia il director’s cut di Flames di Karl X Johan diretto da Gustav Johansson: il linguaggio visivo, applicato parossisticamente, è quello pubblicitario e si esprime attraverso una sequela irresistibile di brevissime sequenze in macro che illustrano per dettagli la preparazione di un uomo e una donna ad un appuntamento serale: il make up, il cocktail, la conversazione fino al finale romantico e al risveglio.
Straordinario per la sintesi narrativa e la struttura (all’accurata descrizione della vestizione farà riscontro la simmetrica descrizione della svestizione), perfetto nell’equilibrio tra montaggio e colonna sonora (il brano campiona il Morricone di The Untouchables), ispiratissimo nella scelta dei particolari, di folgorante bellezza le immagini girate con RED camera. Idee e stile. Voto: 8.5
In Very busy people dei Limousines, Frank Door and Mathieu Wothke usano lo schermo di un computer, e le sue applicazioni, on e offline, per ambientare la performance del gruppo: si va da Google, a Facebook, per entrare nel programma Photoshop, moltiplicando le finestre, usando vari effetti che deformano l’immagine, per chiudere, con ironia autoreferenziale, sul sito di filmati Vimeo. Il lavoro regge sull’unica idea e fa solo simpatia (voto: 6). E’ curioso che qualcosa di simile avvenga anche nel video di Akron/Family So it goes [foto] diretto da Tommy Yasuhara che, partendo dal desktop di un computer e pervenendo a Google, dove la barra di ricerca viene usata per riprodurre la lettera del canto che ascoltiamo, dopo un viaggio attraverso una serie di schermate animate che giocano su immagini in libera associazione e salvaschermi, sbarca, in un gioco di specchi operato “in diretta”, su You Tube. Voto: 7
Chiuderei su To the beat, splendido video di animazione diretto da Roman Tönjes e Lukas Loss, sulle note del SIS remix di Mama Coca di Jay Haze; Il lavoro si basa su migliaia di scatti fotografici disposti su una superficie digitale tridimensionale, sovrapposti e animati: il tutto ad illustrare l’odissea della produzione di un disco, dalla sua realizzazione, alla distribuzione, alla fruizione. Realizzato in collaborazione tra la label Desolat e l’Università delle Scienze Applicate di Dusseldorf. Magnifico. Voto: 8
Ariel – Stateless, splendida animazione per la regia di Houdini su un’improvvisazione del ballerino Dominic North;
Ah! – Oval, per la regia di Darko Dragicevic su coreografia di Walter Bickmann;
NotBroken – Goo Goo Dolls, regia di Carlos Lopez Estrada: concept teatrale, gioco di luci, silhouette e pochissimi accessori per raccontare l’eterno dramma bellico;
Radioactive Kings of Lion, diretto da Sophie Muller;
Accident or will – Vinnie Who, diretto da Jeppe Kolstrup;
Kaputt – Destroyer, regia di Dawn Carol Garcia [foto];
The key – Hauschka, regia di Jeff Desom;
Alone – Dark Horses, diretto da Pierre Angélique;
Brindo – Devendra Banhart, diretto da Oliver Peoples;
Cameras – Matt & Kim, diretto da Jonathan Del Gatto;
Like a punk – Adam Tensta, diretto da Marcus Lundin;
We’ll See to Your Breakdown – The Chap diretto da Larry Seftel and David Day: l’adipe a ritmo di musica;
Razzi Arpia Inferno e Fiamme – Verdena, diretto da Ivana Smudja: semplice e originale, di delicatezza naif come il brano. Senza scimmiottare le star straniere, che non c’è cosa più patetica.
Infine: l’ennesimo bellissimo video del beniamino Daniel Wolfe, Stay the same (gran pezzo) di The Shoe: la disperazione, la disperazione, la disperazione.
Anche no:
Out the dark – Pepstar feat. Shad, diretto da Ben Peters

Good vibrations a tutti.