TRAMA
Gordita Beach, California, 1970. Mentre Nixon è alla Casa Bianca e Reagan governa la California, Larry “Doc” Sportello, investigatore privato hippie strafattone, indaga su un caso alquanto ingarbugliato che coinvolge un magnate dell’immobiliare, un sassofonista creduto morto che invece è vivo, una barca misteriosa, un’organizzazione segreta di dentisti che evadono le tasse, un poliziotto che odia gli hippie, una banda di motociclisti nazisti, e tantissima droga.
RECENSIONI
Parte I: Sortilège
Welcome to a world of inconvenience
(Benvenuto in un mondo di seccature,
il detective Bigfoot Bjornsen a Doc Sportello)
L''idea di adattare Pynchon per il cinema dev'essere sembrata una bestemmia o una ridicolaggine a chiunque sia venuto a sapere dell'intenzione di Paul Thomas Anderson. Thomas Pynchon non è soltanto un gigante del canone letterario contemporaneo: Pynchon è magmatico, multiforme, delirante, irriducibile; i suoi romanzi sono immense enciclopedie narrative - e quindi strutturalmente poco adatti a essere contenuti in battute e inquadrature. Pynchon è anche, e soprattutto, un autore dalla voce molto peculiare e dal tono inconfondibile ma inafferrabile, che oscilla fluidamente tra farsa, erudizione e poesia. La voce narrante dei romanzi di Pynchon è, com''è stato scritto già negli anni 1980, una 'voce orfica': nel mito classico, la musica consentiva a Orfeo di avere un qualche controllo sulla natura, di battere (quasi) la Morte e di formulare profezie; nei romanzi di Pynchon il narratore, forse onnisciente ma certamente disorientato, tenta di vaticinare sulla base di una realtà incredibilmente frammentaria e caotica. Si tratta di una mediazione magica e strampalata, che si appella a intuizioni poetiche nascoste in piccoli dettagli e coincidenze futili, smisurati cataloghi di stravaganze tecniche, nomi e cognomi ridicoli, spigolature da nerd per ogni branca della scienza umana, giri di trama scombiccherati e caos. Com'è possibile trarre da questa materia qualcosa che corrisponda, anche solo in parte, a quell'insieme ordinato di atti, motivazioni e scene che insegnano agli aspiranti sceneggiatori che vogliono far fortuna a Los Angeles? Non lo è, probabilmente. Di sicuro non lo era prima che Pynchon pubblicasse Inherent Vice (tradotto in italiano, come il film, Vizio di forma - anche se la traduzione più corretta è, come vedremo, 'vizio intrinseco').
Inherent Vice è il romanzo di Pynchon più accessibile, non solo per le dimensioni insolitamente contenute (si tratta di 369 pagine nell’edizione americana, contro le 760 di Gravity’s Rainbow, le 773 di Mason & Dixon, le 507 di V.), ma soprattutto per l’intreccio: un mix giocoso di fumetto noir e stoner comedy. Prima di questo romanzo, il primato del Pynchon più accessibile (ma anche, per molti, del Pynchon migliore) andava a L‘incanto del lotto 49, che è poco più che una novella (tra le 150 e le 180 pagine, secondo le edizioni); ma nessuno sceneggiatore ha mai osato cimentarsi con quell’opera, per via della sua notevole complessità. L’epopea fricchettona di Doc Sportello, invece, ispira una maggiore confidenza cinematografica. La ragione non sta soltanto, probabilmente, nella minor complessità (un elemento su tutti: c’è un “eroe” dalla prima all’ultima pagina, che non è poco: lo Slothrope de L’arcobaleno della gravità scompariva più di 100 pagine prima della fine del libro) ma nell’ambientazione e nei topoi di genere: la fine degli anni ’60, il flower power, il detective privato, la femme fatale, il Dipartimento di Polizia di Los Angeles, le canne, gli hippie, le collane floreali, i surfisti. Il miscuglio di noir e psichedelia di Inherent Vice dev’essere sembrato un’ottima idea nella stanza di qualche produttore cinematografico a prescindere da (anzi: nonostante) Pynchon.
Tecnicamente, Anderson non è nuovo agli adattamenti: il suo miglior film, Il petroliere, è un adattamento molto libero e molto parziale di un romanzo di Upton Sinclair. Inherent Vice è però un vero, e fedelissimo, adattamento. Il romanzo di Pynchon, inevitabilmente sfrondato di una manciata di personaggi e sotto-intrecci, viene portato sullo schermo con la rispettosa precisione del fan: i dialoghi scorrono quasi identici a quelli di Pynchon, gli episodi, l’atmosfera, le capigliature, gli avvitamenti del plot, tutto prende forma come una minuta illustrazione del libro. Questa fedeltà rispettosa diventa, per certi versi, un limite non solo dello script di Anderson, ma dell’intero film. L’ingombrante presenza del romanzo scritto schiaccia la prospettiva del regista-sceneggiatore, costringendo l’estro a un ruolo di servizio che, per quanto ottimamente svolto, non riesce a diventare un’autonoma e vitale re-immaginazione dell’opera di Pynchon. Questo si vede tanto nelle scelte di fotografia quanto nella direzione degli attori, che (salvo alcune eccezioni) appaiono un po’ più meccaniche e col respiro meno ampio rispetto all’intelligenza e alla sensibilità cui Anderson ci ha abituati.
Ci sono, tuttavia, delle intuizioni notevoli nell’adattamento. La maggiore riguarda la voce narrante. Il narratore pynchoniano s’incarna nel film in uno dei personaggi minori del libro, Sortilège, interpretata da Joanna Newsom. È lei il primo personaggio che vediamo, dopo l’inquadratura di uno scorcio di oceano in mezzo a due case qualsiasi e un viottolo su cui corrono dei ragazzi. La voce di Sortilège è lenta e assonnata, ma spesso sorridente, luminosa. La sua presenza in voce over è limitata nel corso del film e si ripresenta soprattutto quando si tratta di raccontare dell’amore tra Doc e Shasta, che sembra interessarle assai più dell’intreccio noir. Sortilège, con questo nome stregonesco (che viene da sors legere, cioè leggere la sorte, il futuro) e la sua figura esoterica, sembra essere la più adatta incarnazione della “voce orfica” di Thomas Pynchon. Il suo personaggio nella storia è poco rilevante (suggerisce a Doc di usare una tavoletta ouija per trovare della droga e gli consiglia di cambiare acconciatura per cambiare vita), ma il suo umore lirico e oracolare reimmagina benissimo il senso ermetico e frammentario della narrazione che qualsiasi pagina di Pynchon lascia al lettore. Le altre più rilevanti infedeltà di Anderson al testo scritto riguardano Shasta Fay Hepworth, l’ex di Doc Sportello, poi amante di Mickey Wolfmann, poi ragazza in pericolo, poi scomparsa, poi ritrovata, sempre ri-attratta nell’orbita del nostro protagonista. Ma stiamo correndo troppo: prima di arrivare a Shasta dobbiamo partire dai detective privati.
Parte II: Noir, verde acido e magenta
Down these mean streets a man must go who is not himself mean
(Queste strade corrotte deve percorrerle un uomo che non sia corrotto egli stesso,
Raymond Chandler, “The Simple Art of Murder”)
Una ragazza fascinosa fa visita a un investigatore privato per chiedergli aiuto: la moglie del suo ricco amante sta tramando qualcosa contro il marito e vorrebbe lei come complice; ma lei vorrebbe aiutare lui, invece. L’investigatore privato aiuta la ragazza, ma si ritrova in un mare di guai. Il cliché noir è servito. Los Angeles al tramonto, luccicanti auto sportive, sigarette che fumano, immobiliaristi loschi, doppi giochi, inganni, potenti senza scrupoli, mogli infedeli e cattive, amanti fatali, poliziotti corrotti e derelitti dal cuore d’oro, investigatori privati solitari e generosi, picchiatori senza scrupoli in combutta col dipartimento di polizia. Inherent Vice prende tutti gli ingredienti tipici del noir losangelino, letterario e cinematografico (non a caso la location prediletta del noir letterario è L.A.: il noir è prima di tutto cinema), e li rimescola in salsa psichedelica e coloratissima. Se tutto viene deformato dai fumi allucinogeni, però, alcuni elementi chiave restano saldi, primo fra tutti il detective, “Doc” Sportello, antieroe male in arnese, leale, coraggioso e generoso. Droghe a parte, Sportello è una figura più imparentata di quel che sembra con Philip Marlowe e tutti i detective hard boiled che l’hanno seguito. Come gli dice il suo alter ego / antagonista Bigfoot a un certo punto: “Nonostante i problemi coi capelli e l’uso di droghe, non ho mai pensato di te che fossi meno che professionale”.
Gli stilemi e gli ammiccamenti al genere sono pervasivi, a partire dal titolo. Il vizio intrinseco, inherent vice, è un'espressione del gergo legale assicurativo, una clausola tipica di molte polizze; esattamente come appartiene al gergo delle polizze quell'altra espressione, double indemnity, duplice indennizzo, che dà il titolo originale a uno dei più emblematici (e belli) film noir della storia, in italiano La fiamma del peccato, di Billy Wilder (1944). L'intreccio, ovviamente, contemplava una donna fascinosa che vuole sbarazzarsi del marito con l'aiuto di un complice, a Los Angeles. Rispetto al noir classico degli anni 1940, però, il cinema ha già avuto modo di rivisitare il genere, giocarci, metterlo in crisi. Il film più citato nelle recensioni di Inherent Vice è senza dubbio Il lungo addio di Robert Altman (1973), sia perché è una perfetta rivisitazione del noir in chiave autoreferenziale, sia per la forte impronta artistica che Altman ha sempre avuto sul cinema di P.T. Anderson. Il film di Altman è un adattamento parecchio libero del romanzo di Chandler, a sua volta uno dei numi tutelari del noir letterario. Rispetto all'adattamento di Anderson, Il lungo addio di Altman è un'opera a sé, svincolata dalla pagina scritta, una vera e propria reinvenzione del romanzo, sia per l'intreccio (molte cose, compreso il finale, sono variati), sia per la riflessione meta che il film fa sul genere noir stesso (il Marlowe interpretato da Elliott Gould è una specie di figura incongrua anni '50 catapultata in una Los Angeles contemporanea che non ha nulla a che vedere con la Los Angeles del film noir). Cinematograficamente parlando, Il lungo addio è adattamento assai più interessante di Inherent Vice; e, dal punto di vista filologico, per così dire, ciò che torna di Altman dentro il film di Anderson probabilmente passa attraverso il libro di Pynchon, che non può non aver tenuto presente quel film del 1973 nella miriade di riferimenti pop di cui si nutre la sua cultura enciclopedica.
Sono tanti gli altri riferimenti letti e sentiti da molte parti; su tutti, l’altro grande film spesso accostato a Inherent Vice è Il grande Lebowski dei Fratelli Coen, pure quella una commedia di strafattoni in chiave noir, e pure quello un riferimento che prima di appartenere all’adattamento di Anderson è finito dritto nelle pagine di Pynchon (secondo gli esegeti più meticolosi – e i fan di Pynchon sono tra i più certosini spulciatori di riferimenti oscuri che si possono trovare in giro – la frase di Bigfoot “welcome in a world of inconvenience”, scritta da Pynchon prima che da Anderson, sarebbe proprio un’eco della frase che Walter Sobchak (John Goodman) dice a Smokey (Jimmie Dale Gilmore) “Smokey, my friend, you’re entering a world of pain”). Credo, però, che la chiave migliore per leggere la struttura noir di Inherent Vice si trovi nel più improbabile dei neo-noir hollywoodiani: Chi ha incastrato Roger Rabbit? di Robert Zemeckis (1988).
Parte III: Spiagge e autostrade
Who needs a car in L.A.?
(Chi ha bisogno della macchina a Los Angeles?,
Eddie Valiant (Bob Hoskins) in “Chi ha incastrato Roger Rabbit?”)
Chi ha incastrato Roger Rabbit? è un film “per ragazzi” prodotto dalla Amblin di Steven Spielberg. Gioca con gli ingredienti del noir e quelli dei cartoni animati, fedele alle atmosfere e ai topoi del genere ma ripieno di gag sciocche, filastrocche cantate e snodi demenziali. Sebbene non ne si trovi menzione nelle note dei più pignoli esegeti, Chi ha incastrato Roger Rabbit? condivide col film di Anderson (e ancor più col romanzo) un elemento poetico e ideologico cruciale: la nostalgia per una California (e un’America) ideale, prima che venisse deturpata da autostrade multicorsia e altre titaniche opere capitalistiche in cemento. La nostalgia per un’utopica America di libertà e fratellanza universale è rappresentata nel film di Zemeckis da Toontown (o Cartoonia, nella versione italiana), la magica terra dei cartoni animati, dove succedono cose scombiccherate e demenziali e la grigia ragione economica si ritrova fuori luogo; mentre in Inherent Vice si tratta del sogno alla marijuana di Sportello e dei suoi amici hippie: pace, amore, droghe, rock’n’roll. Toontown e Gordita Beach (o, meglio la California Hippie) sono luoghi mitici e colorati, minacciati dai progetti immobiliari degli antagonisti: le Channel View Estates, l’enorme progetto residenziale del magnate Mickey Wolfmann, e la Superstrada, il diabolico progetto infrastrutturale del perfido Giudice Morton. Nell’originale, il progetto del cattivo di Roger Rabbit ha il nome reale di una delle presenze più ingombranti del paesaggio urbanistico di Los Angeles: la freeway. Il territorio di Los Angeles è attraversato da autostrade multicorsia che collegano un quartiere all’altro. Chiunque abbia girato per L.A. anche solo qualche giorno fatica a immaginare che una volta (cioè al tempo in cui è ambientato Chi ha incastrato Roger Rabbit?, nel 1947), si potesse vivere lì senza usare troppo la macchina (In Vineland, altro romanzo “californiano” di Pynchon, un personaggio newyorkese si rivolge a dei californiani dicendo “Non siamo noi quelli che dobbiamo incapsularci dentro le nostre macchine per tutto il tempo”). Eppure era così: Los Angeles godeva di un ottimo sistema di mezzi pubblici (il detective Eddie Valiant, interpretato da Bob Hoskins, dice all’inizio di Roger Rabbit: “Chi ha bisogno della macchina a L.A? Abbiamo il miglior sistema di trasporti pubblici del mondo!”), ma l’ultima corsa di una “red car” (il tram rosso su cui è seduto Eddie Valiant quando pronuncia quella battuta) è avvenuta nel 1961, pochi anni prima che Doc Sportello si trovasse impelagato nella scomparsa di Mickey Wolfmann.
Il piano malvagio del Giudice Morton, svelato alla fine di Chi ha incastrato Roger Rabbit?, è quello di spazzare via Cartoonia per far posto a un’enorme freeway multicorsia. Nel finale di Inherent Vice, invece, Doc guida la macchina nella freeway, circondato da un mare di nebbia: il futuro del sogno hippie è parecchio precario, l’America sta andando da un’altra parte. Valiant e i cartoni animati riescono a bloccare il progetto di Morton, ma non c’è successo nell’indagine di Doc, se non quello parziale del ritorno a casa di Coy Harlingen. L’ipotesi di un mondo diverso resta soltanto una formulazione ipotetica e velleitaria nelle ultime righe del romanzo: Doc è in macchina, in coda sulla freeway, pensa che se dovesse mancare l’uscita per Gordita Beach potrebbe comunque prendere la prima uscita di cui riesca a leggere il cartello tra la nebbia; pensa anche che a un certo punto, visto che la freeway inclina a est, dovrebbe riuscire a lasciarsi la nebbia alle spalle. C’è un altro pensiero però: forse la nebbia si è diffusa su tutta la regione, spiaggia compresa; forse la nebbia rimarrà così per giorni e lui si ritroverà a girare per la freeway fino in Messico; o forse invece potrebbe restare senza benzina, accostare e attendere.
Ma attendere cosa? “For whatever would happen. For a forgotten joint to materialize in his pocket. For the CHP to come by and choose not to hassle him. For a restless blonde in a Stingray to stop and offer him a ride. For the fog to burn off, and for something else this time, somehow, to be there instead”. Le ultime parole di Pynchon ridimensionano il sogno hippie di Doc da sbracato affresco in colori acidi a un’elegia malinconica per una speranza impossibile: “Qualsiasi cosa potesse accadere. Che una canna perduta si materializzasse nella sua tasca. Che la stradale passasse e decidesse di non dargli fastidio. Che una bionda inquieta in una Stingray si fermasse e gli offrisse un passaggio. Che la nebbia si squagliasse e stavolta qualcos’altro, in qualche modo, prendesse il suo posto”.
Anderson decide di tagliar via le parole di Thomas Pynchon dal suo finale. Nella versione definitiva della sceneggiatura, su carta, la voce di Sortilège avrebbe dovuto strascicarle dolcemente, ma sulla pellicola alla fine quella voce non c’è. La nebbia resta fuori campo e il viso di Doc, anzi, è illuminato fugacemente dalla luce e da una smorfia che assomiglia a un sorriso. La deviazione del finale di Anderson dalla pagina scritta non si limita a questo: mentre nel romanzo Doc è solo in macchina, sperso tra la nebbia e i suoi pensieri, nel film è insieme con Shasta, che rievoca il tempo in cui erano innamorati e felici assieme, con un sorriso che suggerisce che quel tempo potrebbe tornare. Questo finale variato segue immediatamente un’altra delle più evidenti invenzioni originali di Anderson: l’ultimo incontro tra Doc e Bigfoot. La scena è demenziale, con Bigfoot che mangia senza ragione tutta l’erba di Doc, ma la colonna sonora di Greenwood è malinconica e Doc scoppia a piangere. C’è un collegamento emotivo profondo e non del tutto spiegabile tra i due amici-nemici, simile a quello tra maestro e discepolo in The Master. Anderson decide di chiudere il film con la speranza tangibile di rapporti umani autentici e profondi, non con l’utopia nebbiosa e precaria di una società migliore. I personaggi di Pynchon sono, com’è noto, figurine postmoderne, funzioni del gioco narrativo, snodi bidimensionali del tourbillon romanzesco; Anderson prova a infondere loro un qualche spessore umano, e si tratta di un’inclinazione romantica, sentimentale, non di una traballante utopia politica. Alla fine, Inherent Vice si chiude sulla cosa che più ha interessato Anderson per tutto il tempo, a dispetto della detective story, della commedia demenziale, del sogno hippie: l’amore tra Doc e Shasta.
Parte IV: Shasta
Sous les pavés, la plage!
(Sotto il selciato, la spiaggia!,
slogan parigino del maggio 1968)
Shasta Fay Hepworth entra in Inherent Vice come uno spettro. La voce narrante di Sortilège la evoca come si fa con le anime dei morti: un’ombra del passato che assomiglia solo da lontano alla ragazza che era stata. “She came along the alley and up the back stairs the way she always used to. Doc hadn’t seen her for over a year. Nobody had. Back then it was always sandals, bottom half of a flower print bikini, faded Country Joe & the Fish T-shirt. Tonight, she was all in flatland gear, hair a lot shorter than he remembered, looking just like she swore she’d never look”. Doc è sdraiato quando la intravede e le chiede se si tratti davvero di lei, e non – per l’appunto – di un’apparizione. È subito chiaro che Shasta è passata al lato sbagliato delle cose, dalla spiaggia alla flatland (l’area più interna di L.A., lontana dall’oceano oppure una zona piatta, senza onde da surf né dune da spiaggia), da un abbigliamento sbracato a una mise imborghesita. Quello che racconta a Doc subito dopo conferma quest’impressione: Shasta è diventata l’amante di un milionario dei quartieri bene, vive in un mondo che sembra un’altra dimensione rispetto a quello di Doc e compari, è al centro di trame losche e a contatto con poteri forti e oscuri. Quando, alla fine di quest’avventura, tornerà da Doc in una scena particolarmente intensa, svelerà di aver provato piacere nell’essere stata nullificata, “resa invisibile”, dal potere arrogante di Mickey Wolfmann; e, sospettiamo, vorrebbe ancora tornare a quel mondo.
La corruzione di Shasta è allegoria politica dell’America vista da Pynchon: da promessa di libertà a puttana dei palazzinari. Nel booktrailer diffuso al tempo dell’uscita di Inherent Vice, narrato dallo stesso Thomas Pynchon in persona (che, com’è noto, vive lontano dai media, senza che si sappia nulla di lui), il contrasto tra spiaggia hippie e cementificazione è subito rilevato con un forte senso di nostalgia per la prima: “this used to be the beach. Later on all this is gonna be high rise, high rent, high intensity. But right now, back in 1970 what it is is just high” (che, per rendere l’idea, si potrebbe liberamente tradurre con “[in passato] qui c’era la spiaggia. Più in avanti sarebbe diventato tutto alto-profilo, alto-reddito, alta-intensità. Ma adesso, nel 1970, è soltanto alto-sballo”. Questa contrapposizione un po’ adolescenziale tra vita-da-spiaggia e giacca-e-cravatta, strafattoni egalitari e borghesi squallidi è alla base della mitologia politica di Pynchon. “A un certo punto tra il 1859 e il 1919” dice il narratore in V., il primo romanzo di Pynchon, pubblicato nel 1963, “il mondo ha contratto una malattia che nessuno si prese mai la briga di diagnosticare perché i sintomi erano troppo sottili – mescolati con gli eventi della storia, l’uno non diverso dall’altro ma nell’insieme fatali”. Di che si tratta? Le ipotesi si sono sprecate: chi ha tirato in ballo il colonialismo, chi ha fatto notare che nel 1859 sono stati pubblicati sia la Critica all’economia politica di Marx sia L’origine della specie di Darwin (quindi l’avvio di una concezione materialistica del rapporto tra uomo e società). Qualunque sia la risposta all’indovinello, lo spirito della faccenda è piuttosto chiaro: la contrapposizione appassionata e grossolana tra uno stato di natura libertario e caciarone e un corrotto mondo capitalistico e imperialistico. La spiaggia contro i palazzi tirati su dalle imprese di costruzione.
La spiaggia è un luogo mitico per Pynchon. È stato scritto (Hanjo Berressem, in Pynchon’s California, 2014) che per Pynchon “la spiaggia è un sito privilegiato […] in cui gli elementi – sabbia, oceano, aria e sole – formano un accordo particolarmente gioioso e libero […] un corpo senza organi che non è organizzato da poteri di comando e controllo”. Insomma, un luogo di felice anarchia, sgravata da rapporti di sfruttamento e oppressione, libera dal potere e dall’infelicità. Bigfoot, antagonista e alter ego di Doc, ha sempre voluto andar via dalla spiaggia, mentre Doc è sempre ri-attratto ad essa, irresistibilmente. Il poliziotto e il capellone – come la spiaggia e i palazzi di cemento armato – sono un’altra versione dello stesso stereotipo mitico. In Inherent Vice Pynchon lo descrive bene verso la fine, in una scena che non ritroviamo nel film di Anderson. Un poliziotto insegue un ragazzo dai capelli lunghi sulla spiaggia: “Lo sbirro era in piena tenuta da motociclista – stivali, casco, uniforme – e portava un assortimento di armi, e il ragazzo era a piedi scalzi e poco vestito, e nel suo elemento. Fuggì come una gazzella, mentre lo sbirro lo seguiva lentamente, faticando sulla sabbia” Un’altra allegoria usata da Pynchon è quella di Lemuria, ipotetica terra perduta sprofondata in un’epoca mitica da qualche parte nell’Oceano Pacifico. Per Pynchon Lemuria è l’“Atlantide del Pacifico”, non un semplice luogo ma un’idea mitica, una terra che viene descritta in sogno a Doc come “sollevata e redenta”. Insomma, ancora una volta, l’utopia di un’America libera, gioiosa e ripulita dai peccati della sua storia.
Inherent Vice è intriso di nostalgia per questo ideale mondo perduto, sin dalla frase posta da Pynchon in esergo (e che Anderson ha relegato dopo i titoli di coda): lo slogan sessantottino che diceva che sotto i sampietrini (lanciati contro la polizia) c’era la sabbia, la spiaggia. È la promessa di una rigenerazione libertaria che all’inizio degli anni 1970 sembra definitivamente infranta (gli hippie di Charles Manson sono sotto processo per una serie di brutali omicidi, Nixon è Presidente, Reagan governa la California). Shasta è uno dei simboli di questa corruzione e della perdita dell’innocenza. Era la ragazza di Doc, parte integrante di Gordita Beach (il Monte Shasta, nella California del nord, sarebbe peraltro – secondo certi svalvolati che ricostruiscono su Internet la storia della perduta Lemuria – proprio il luogo dove vivono i lemuriani sopravvissuti all’affondamento della loro mitica patria). Ma si è venduta ai soldi e al potere. Nell’adattamento Anderson decide di dare maggiore centralità al personaggio di Shasta. Delle quattro scene principali in cui Shasta è davanti la macchina da presa (la prima scena; il flashback al tempo in cui Doc e Shasta erano innamorati; il ritorno di Shasta da Doc; e il finale in automobile), solo due sono prese da Pynchon (la prima e la terza), mentre le altre sono creazioni di Anderson. La terza, poi, è completamente rivisitata. La centralità di Shasta nel film rivela il senso della rilettura che Anderson fa del pervasivo umore nostalgico di Inherent Vice: non è tanto una questione politica, ma sentimentale. Nel film, l’intenzione dei protagonisti e le loro speranze per un mondo migliore sembrano trovare una nuova promessa di senso nella vita privata, nella tacita e conflittuale amicizia tra Doc e Bigfoot, nel possibile e conflittuale amore tra Doc e Shasta. La sequenza meno pynchoniana di tutto il film è forse quella di Shasta che, dopo essere stata abbracciata nella pioggia con Doc, s’immerge nell’oceano; la scena più incongrua (e anch’essa assai poco pynchoniana) è l’intenso piano sequenza del ritorno di Shasta da Doc e la sua provocazione sessuale sul filo del sadomasochismo (se il dialogo è preso dal romanzo, l’intero umore e senso della scena è completamente stravolto).
La Shasta di Anderson sembra offrire una facile (seppur fragile) via di fuga alla paranoia allucinata che ha sostituito l’utopia libertaria hippie. Eppure per Anderson è lei che ha il vizio intrinseco che dà il titolo al film, lo dice lei stessa a Doc in quella famosa scena in cui torna da lui: “Mi hanno detto che ero un carico prezioso che non potevano assicurare per via di un vizio intrinseco”. Per Pynchon, il vizio intrinseco è la degenerazione dell’utopia politica degli anni 1960 e della controcultura; per Anderson il vizio sta nel rapporto tra i due amanti. Shasta, apostata della spiaggia, traditrice del sogno hippie che flirta col potere e il denaro, ma soprattutto oggetto d’amore inaffidabile e inemendabile, è lei il cuore del film di Anderson.
Parte V: Il vizio intrinseco
The truth will be repressed or in ages of particular elegance be disguised as something else
(La verità sarà repressa o, in epoche particolarmente eleganti, sarà mascherata da qualcos’altro,
Thomas Pynchon, L’arcobaleno della gravità)
Ma che cos’ha da dirci questa nostalgia per un tempo ideale e mai davvero esistito? Hanno senso questo anticapitalismo da spiaggia, la diffidenza per i fatti e il delirio postmoderno di ambiguità e farsa? Mickey Wolfmann voleva dar via i suoi miliardi e l’FBI, i fascisti e il cattivo Potere Americano lo hanno fatto rinchiudere in manicomio, lo hanno normalizzato e hanno pensato bene di usare quei soldi per scopi meno ideali. Questa è una delle possibili soluzioni dell’intreccio giallo di Inherent Vice: ma importa a qualcuno? La girandola di fatti demenziali, false piste, coincidenze paranoiche e interpretazioni incompatibili gira a vuoto in una sorta di divertimento anarchico e infantile che vuole essere una forma di resistenza morale al grigiore e alla violenza del presente, ma finisce per diventare, inevitabilmente, anche una malinconica rinuncia al futuro. L’accusa più spesso rivolta a Pynchon è che i suoi personaggi sono macchiette senz’anima, che la storia non va da nessuna parte, che le allegorie sono fine a se stesse, che il gioco farsesco è sterile. Le solite accuse, insomma, al postmodernismo più spinto. Già nel 1993 David Foster Wallace (che pochi anni prima aveva pubblicato un romanzo d’esordio molto pynchoniano), riassumeva così il suo disagio generazionale verso la sbornia postmodernista: “Per me, gli ultimi anni dell’era postmoderna sono sembrati un po’ come ti senti quando sei al liceo e i tuoi genitori sono via in viaggio e organizzi una festa. Fai venire tutti i tuoi amici e fai questa pazzesca, disgustosa, favolosa festa. Per un po’ è fico, libero e liberatorio, l’autorità genitoriale spazzata via, una baldoria dionisiaca del tipo il-gatto-non-c’è-e-i-topi-ballano. Ma poi il tempo passa, la festa diventa sempre più rumorosa e hai finito le droghe e nessuno ha i soldi per comprare altre droghe e si rompono cose e ci sono bruciature di sigaretta sul divano e tu sei il padrone di casa, ed è anche casa tua, e cominci gradualmente a desiderare che i tuoi genitori tornino e ristabiliscono un po’ di cazzo di ordine. […] Ovviamente ci sentiamo a disagio per il fatto di volere che [i genitori] tornino – insomma, cosa abbiamo che non va? siamo a tal punto delle fighette? c’è davvero qualcosa nell’autorità e nei limiti di cui abbiamo bisogno? E la più disagevole delle sensazioni è che cominciamo gradualmente a capire che i genitori non torneranno affatto – il che significa che siamo noi che dobbiamo essere i genitori”.
Wallace veniva intervistato per via di un saggio che aveva scritto sulla TV e su come questa avesse usurpato le tecniche letterarie postmoderne, trasformando l’ironia in un arnese spuntato, un modo culturale dominante piuttosto che uno strumento critico. Anni dopo, con l’attacco alle Torri Gemelle, in tanti si sono affettati a chiudere la faccenda: la ricreazione postmoderna era finita e l’ironia non aveva più spazio. Lo stesso Pynchon riflette sulla questione (in modo piuttosto ironico) in Bleeding Edge, il romanzo che ha seguito Inherent Vice, e ambientato proprio nella New York del Settembre 2001. Un personaggio sta scrivendo un saggio su una rivista teorica dal nome fumoso (Journal of Memespace Cartography) e cita il fatto che l’ironia è stata una vittima collaterale dell’11 settembre “Come se in qualche modo l’ironia” spiega il personaggio “come praticata da una quinta colonna leziosa e ridacchiante, avesse effettivamente causato gli eventi dell’11 settembre, mantenendo il paese insufficientemente serio – indebolendo la sua presa sulla “realtà”. Così ogni tipo di fantasticheria – lasciamo perdere lo stato di fissazione in cui il paese si trova già adesso – deve soffrire. Ora ogni cosa deve essere letterale”. Per Pynchon questa reazione contro l’ironia, la fantasticheria, l’allegoria strampalata e fine a se stessa di cui è maestro è probabilmente una trovata grigia del potere per forzare sui più deboli la propria versione dei fatti. E certamente la guerra lanciata da Pynchon e compari contro il realismo ha servito un degno fine, cioè quello di smascherare le narrazioni coatte del potere in cui la realtà finiva per essere null’altro che l’interpretazione ufficiale delle cose e, spesso, la meno conveniente per il fiorire della parte migliore dell’uomo o per il benessere dei più deboli. Strada facendo, però, ci si è scordati che il valore d’emancipazione di una proposta di realtà alternativa presuppone non soltanto che le cose stiano in un certo modo (la realtà c’è ed è piuttosto conoscibile), ma anche che il modo in cui stanno adesso non è quello in cui dovrebbero stare (ci sono cose più giuste di altre e non tutte le vacche sono nere). Insomma, l’“immaginazione al potere” ha consumato la sua forza trasformatrice (cambiare il mondo in meglio) e si è ritirata – frustrata, impotente e ubriaca di fumi teorici incomprensibili – in un’allucinazione inerme (il mondo non esiste). Del resto, l’apice nazionale della nostra playfulness postmoderna (per cui non ci sono fatti ma solo interpretazioni giocose) è stata la seduta della Camera dei deputati del 3 febbraio 2011 in cui il parlamento italiano decise che Ruby Rubacuori avrebbe potuto anche essere la nipote di Mubarak. In breve: la portata rivoluzionaria e liberatoria dell’antirealismo è marcita in una pappa che giustifica l’abuso della menzogna e impedisce la verifica dei fatti.
Credo che sia Wallace sia Pynchon (per bocca del suo personaggio che riflette sulla “morte dell’ironia”) manchino proprio questo cuore della faccenda: non si tratta tanto della dialettica tra autorità genitoriale e anarchia adolescenziale – o tra fantasticheria giocosa e serietà severa; si tratta piuttosto della fiducia nell’esistenza della verità e nella capacità dell’uomo di scoprire di che si tratta. Le strampalate cospirazioni pynchoniane non si limitano a mettere in crisi la versione ufficiale delle cose, ma finiscono per smantellare l’idea stessa che le cose possano stare in un certo modo, distruggendo non solo “le stanze eleganti della storia”, ma anche “l’idea stessa di causa ed effetto” (L’arcobaleno della gravità). Come si fa a ri-narrare la storia se non ci si crede? Come si fa a costruire un mondo migliore se non c’è modo di dire in che mondo viviamo e quale tra le possibili alternative sia migliore delle altre? Il sovvertimento dell’autorità, del conformismo, del dogmatismo del potere e delle verità storiche preconfezionate smette di avere qualsiasi funzione liberatoria se non si ha fiducia nella possibilità di sostituire l’autorità con la verità, il conformismo con l’autonomia, i dogmi con la ragione: se non c’è verità da scoprire, né senso razionale nelle cose, allora non c’è nulla con cui criticare il potere – resta soltanto la ritirata inerme in una fantasticheria che non è più quindi reimmaginazione del mondo, ma soltanto una bazzecola scacciapensieri.Il vizio intrinseco alla paranoia postmoderna è che nessuno ha modo di dire, nella precaria molteplicità delle verità alternative, come stiano davvero le cose: se la Golden Fang è una barca, una società segreta o un’associazione di dentisti; chi ha davvero rapito Mickey Wolfmann; quali sono i collegamenti tra FBI, polizia e assassini neonazisti; chi ha rapito Shasta e perché; chi tratteneva Coy Harlingen prigioniero e perché. Il residuo di fondo non è tanto il pessimismo gnoseologico (cioè, la sfiducia che sia possibile una vera conoscenza delle cose), quanto invece una sorta di indifferenza alla verità: alla fine, non importa sapere come stanno le cose per davvero.
Pynchon non dà vie d’uscita nel suo romanzo, se non l’indolenza scanzonata e una scorpacciata di droghe. C’è nel romanzo una dimensione di vaga salvezza spirituale (rappresentata nella metafora di Lemuria), ma è in misura fortemente attenuata rispetto alle utopie spirituali de L’arcobaleno della gravità , il Fuoco Elettrico di Mason & Dixon e la città santa di Shambhala di Against the Day . Anderson parte da questa relativa povertà di prospettiva salvifica e ne reinventa il senso secondo una sensibilità del tutto diversa, che guarda all’uomo e ai rapporti umani come punto di partenza e spazio di azione per l’indagine del senso e della verità. Per P. T. Anderson il vizio politico e sociale – che si tratti della predatorietà economica (Il Petroliere) oppure della mistificazione religiosa e filosofica, del conformismo, della manipolazione ideologica (soprattutto in The Master) – germoglia nella solitudine. A differenza della prospettiva oggettiva di Thomas Pynchon (per cui ci sono all’opera forza e meccanismi più o meno comprensibili, e mai vere e proprie persone), quello di Anderson è uno sguardo sempre personale e intima. Il reciproco riconoscimento umano è l'impegno più promettente e più pericoloso: può dare un senso alla nostra ricerca e può arrecarci un male inguaribile. Alla fine di Inherent Vice l’inutilità dell’indagine di Doc è redenta dal legame instabile ma profondo con Bigfoot e Shasta: la Lemuria di P. T. Anderson, non meno nascosta di quella di Pynchon, va cercata nella fragile promessa dell’incontro tra solitari presi da una una ricerca inquieta e incessante.

Altro slittamento laterale dalle coordinate autorali predilette per un noir sui generis con scie di Ubriaco d’Amore con commedia più amara: pare un incrocio fra i Coen e Il Grande Sonno di Hawks, permeato dai languori di Il Lungo Addio di Altman (ma Anderson ha citato anche Up in Smoke con Cheech e Chong), ovvero trama complicata (ma con senso definito: non era facile) che diventa secondaria rispetto ai personaggi, e detection contro voglia per (ex) amore. L’assurdità grottesca (senza esagerare) non compromette l’efficacia del percorso in giallo e diverte nell’opposizione del Grande Lebowski al mondo istituzionale. Come in gran parte del cinema di Anderson, c’è l’analisi insieme all’addio a un periodo storico: Nixon in Tv, l’odore della disillusione a venire in anni in cui lo Stato era il nemico. Tutto filtrato, però, dall’innocenza naïf di Doc Sportello, con tanto di (supposto, forse doppio) lieto fine. A farne un grande film è la perfezione edile nei personaggi sopra le righe e nelle situazioni buffe: a lasciare un po’ interdetti è che si appropria di stilemi altrui (Coen e Coen), rinunciando anche all’improvvisazione per restituire il romanzo “postmoderno” e infilmabile di Thomas Pynchon, da cui devia poco, se non donando più spazio al ruolo di Sortilegio (la cantante Joanna Newsome), cambiando il finale e rincorrendo un mood meno alienato, più sentimentale e di rimpianto (se l’ex rappresenta il passato, l’indecifrabile sguardo fra i due nel finale, non così lieto, è un gran tocco di classe). Anderson ama il modo in cui Doc Sportello guarda basito un mondo impazzito e immerso nel male: peccato preferisca i percorsi di un Rum Diary e non opti per l’ambiguità delle soggettive distorte di Paura e Delirio a Las Vegas, perché avrebbe reso il personaggio ancora più anomalo. Il look anni settanta ha avuto come modello d’ispirazione Journey Through the Past di Neil Young (di cui Phoenix riprende i basettoni). Pasticci della versione italiana: oltre ai soliti riferimenti cine-televisivi che si perdono, non c’è stata comunicazione fra doppiatori (“vizio intrinseco”) e titolisti (“vizio di forma”).
