TRAMA
Da cinque anni Viviane Amsalem cerca invano di ottenere il divorzio dal marito Elisha, davanti all’unica autorità che in Israele possa concederglielo: il tribunale rabbinico. L’ostinata determinazione di Viviane nel voler conquistare la propria libertà si scontra con l’intransigenza di Elisha e con il ruolo ambiguo dei giudici. In tribunale sfilano i testimoni convocati dalle parti, mentre il “processo” si trascina con i suoi contorni al tempo stesso drammatici e assurdi.
RECENSIONI
Presentato con successo alla Quinzaine des Réalisateurs 2014, Viviane, terzo lungometraggio di Schlomi e Ronit Elkabetz – fratello e sorella – è un felice esempio di cinema d’autore rigoroso ma accessibile, controllato ma coinvolgente, votato alla denuncia di temi importanti ma sapiente nell’alternare dramma e ironia.
Il rigore autoriale viene espresso soprattutto nella messa in scena. Innanzitutto i luoghi: due sole stanze a contenere l’intero film. O quasi una e mezza: lo stanzone asettico dove ha luogo il tribunale rabbinico (muri bianchi scrostati, un tavolo per i tre giudici, due banchetti per i litiganti, un tavolino per i testimoni) e la sua anticamera angusta con i seggiolini allineati alla parete. In questo contesto consapevolmente minimale e claustrofobico, reso ancora più essenziale da una fotografia pulita che esalta i bianchi (i muri soffocanti) e i sottolinea i neri (i lunghi capelli di Viviane), il film sfida se stesso cercando comunque velocità, variazione e ritmo. Lo fa, prima di tutto, studiando le inquadrature e la disposizione dei personaggi al loro interno: spostamenti, angolazioni diverse, prospettive ribaltate da un montaggio presente e preciso. Le ottime performance degli attori, poi, animano decisamente la scena: la malvagia sottigliezza di Simon Abkarian (nei panni del marito che non vuole concedere il divorzio), il luciferino Sasson Gabai (l’irritante avvocato del marito), ma soprattutto Ronit Elkabetz (regista e protagonista), perfetta nel rendere la sofferenza e la passione di Viviane, ora silente e in lacrime, ora esplosiva in distruttivi scatti d’ira.
Stilate queste premesse, Viviane è un film che, in misura importante, affida la propria riuscita alla sceneggiatura – un testo composto di dialoghi fitti, botta e risposta taglienti, colpi di scena, emozioni raccontate. Questa sceneggiatura, da un lato, ha l’innegabile pregio di mantenere viva l’attenzione durante tutto lo svolgimento del film, sviscerando i suoi importanti temi di fondo (il maschilismo della cultura rabbinica, la subordinazione della donna nella società israeliana) senza mai sovraccaricare o ricorrere agli escamotage della retorica. In questo senso, encomiabile la scelta di individuare nel motivo più semplice la ragione che spinge Viviane a chiedere il divorzio: la fine dell’amore, l’incompatibilità di carattere, visioni diverse della vita – e niente più. Il testo non è però perfetto e sembra talvolta infilarsi in cul-de-sac dalla quale non sa bene come uscire se non ricorrendo a mezzi colpi di scena non sempre convincenti (l’insinuazione di un relazione fra Viviane e il suo avvocato, che scioglie un blocco narrativo ma suona improbabile nel complesso e viene poi infatti dispersa; e volendo anche il finale stesso). A riprova di quando detto in precedenza, inoltre, la severità della messa in scena è addolcita da uno schieramento morale abbastanza polarizzato, elemento che serve a rendere il film accessibile ad un pubblico più vasto: pur nella sua forza e dignità, Viviane è la vittima e la nostra paladina senza macchia; il marito è il villano e non crediamo mai alle sue parole. Si tratta comunque di piccolezze che poco tolgono alla qualità di un lavoro notevole per efficacia narrattiva e per il suo valore di “intrattenimento d’autore”, che segnala meritatamente il nome dei fratelli Elkabetz sull’atlante cinematografico mondiale.