TRAMA
Lo spettacolo televisivo di Sabina Guzzanti viene rimosso dal palinsesto per aver ridicolizzato il governo e la figura di Silvio Berlusconi.
RECENSIONI
Due anni fa, in coincidenza con l’apoteosi mediatica del nostro presidente del consiglio, la nuova trasmissione di Sabina Guzzanti, “Raiot”, chiuse i battenti dopo appena una puntata. La motivazione ufficiale della dirigenza rai: le complicazioni che il proseguimento dell’“attacco” a Berlusconi avrebbero ingenerato dopo le subitanee querele di Mediaset. Il documentario realizzato dalla coautrice di Avanzi e Tunnel parte da questo fatto allarmante e sintomatico di una degenerazione parafascista del nostro paese per indagare tra le pieghe del sistema radiotelevisivo italiano, per riflettere sul ruolo della satira nei periodi di crisi del regime democratico e di deficit d’informazione non manipolata, sottolineando come vi sia un rapporto diretto tra la solidità delle istituzioni ed il rispetto dell’“altro”, in ultima analisi tra un uso non privatistico del bene pubblico e la tutela della libertà di pensiero. Da diario privato, intimo, il lavoro della Guzzanti si trasforma ben presto in un acuto ed onesto saggio di controinformazione a più voci, lontano dal provincialismo che ci si sarebbe potuti aspettare, in cui le riflessioni dei vari Dario Fo, Furio Colombo, Lucia Annunziata (?), le agghiaccianti requisitorie di sedicenti cultori della materia al soldo del capo del governo e gli imbarazzanti giri di parole con i quali esponenti del centro sinistra cercano di giustificare il proprio annichilente lassismo si affiancano ai commenti sapidi di giornalisti, comici (gli scaltri imitatori di Blair e Chirac), massmediologi francesi, inglesi e tedeschi, che di fronte al triste ed inquietante spettacolo di cui forse stiamo “vivendo” l’ultimo atto paiono domandarsi, sbigottiti, come l’Europa del Terzo millennio abbia potuto allevare in seno un famelico “biscione” divoratore di democrazia ed il “bel paese” si sia potuto trasformare, nel giro di cinque anni, nell’ultima delle repubbliche delle banane. Sincero e molto riflettuto, Viva Zapatero è l’ennesimo prezioso tassello che si va ad aggiungere all’intricato puzzle documentante, “a futura memoria”, l’era dei berluscones più realisti del re, dei proclami bulgari, del leghismo come “forma mentis”, del penoso e timoroso silenzio della sinistra…
La fonte ispiratrice della Guzzanti è, con tutta evidenza, la docuinchiesta politico/ironica à la Michael Moore, dalla quale la Nostra mutua molti (attenuati) difetti. Tanto per cominciare Viva Zapatero è, al pari di Fahrenheit 9/11, un film legittimamente fazioso che a tratti diventa inopinatamente scorretto. Tutti si ricorderanno, spero, l’immagine che il fustigatore Moore dava dell’Iraq pre-bombardamenti USA: un paese tranquillo e pacifico in cui i bambini giocano ai giardinetti e le mamme vanno placide e sorridenti a fare la spesa. Viva Zapatero, pur mantenendosi lungi da tali vette di disonestà intellettuale, non disdegna il gioco sporco: “da quando Berlusconi è al governo, su tutti i tiggì si parla solo di cucina” e giù un montaggio di tre, quattro servizi culinari che dovrebbero strappare la risatina indignata. Tutti però sanno che l’Iraq pre-invasione era un paese in balia dei deliri dittatoriali-omicidi di Saddam e che i telegiornali post-silvio non danno più spazio alle cotolette e al cacciucco di quanto non facessero prima… o più semplicemente non è questo il punto. Succede così che, mentre si mette Bush alla gogna per aver mentito davanti al mondo e aver invaso un paese millantando motivazioni fasulle, al pari di Bush si disegna una realtà che non c’è (l’Iraq non aveva armi di distruzione di massa pronte all’uso ma non era la Disneyland dipinta da Moore) al solo fine di suffragare le proprie tesi. Similmente: mentre ci si indigna per la manipolazione politica dell’informazione si finisce proprio per manipolare strumentalmente il proprio messaggio informativo attingendo alle capacità manipolative del medium, il che, di fatto, finisce per togliere efficacia al sacrosanto attacco che si sta sferrando. Perché da tale attacco, condividendone in toto ratio e motivazioni di fondo, mi aspetto precisione chirurgica, inattaccabile rigore, correttezza e assoluta, cristallina efficacia. Ma forse chiedo troppo. Forse, coi tempi che corrono, non c’è da andare troppo per il sottile. E allora teniamoci stretta Sabina Guzzanti, dura e incazzata come un pitbull idrofobo che, per la miseria, gliene ringhia quattro a tutti con la bava alla bocca. E pazienza se la sua satira è un po’ offuscata dalla rabbia e se la foga le impedisce spesso di mettere tutto a fuoco. Pazienza se il suo film è piattamente televisivo e manca dei guizzi artistoidi di un “esteticamente” superiore Fahrenheit 9/11. Da anni ormai sguazziamo nella merda e ci stiamo anche, pericolosamente, abituando all’idea… o per superficialità o per eccesso di disincantato cinismo misto a “matura” razionalizzazione, la guardiamo questa merda che ci lambisce il mento ma ci dimentichiamo che c’è e della puzza, quasi non ci si accorge più. Ebbene: Viva Zapatero, nonostante tutto, con tutti i suoi difetti, c’è. Solo per questo si merita un 8. Politico.
Tra gli innumerevoli meriti di questo documentario di Sabina Guzzanti il più tragico, o se si vuole il più surreale, è quella componente retroavanguardista del film che riesce involontariamente a riportare nelle sale cinematografiche italiane la pratica del cinegiornale. A questo proposito ritengo di dover utilizzare l’aggettivo “tragico” perché è davvero difficile raccontare il potente moto di sconforto che si è provato a un certo punto del film, precisamente in quello in cui appare sullo schermo un filmato del parlamento in cui l’Onorevole Luciano Violante accenna pubblicamente a una sorta di patto segreto con cui la sua coalizione, undici anni orsono, prometteva solennemente all’attuale premier che durante la legislazione del centrosinistra non sarebbe stato in alcun modo toccato il suo impero mediatico. Apprendere in questo modo una notizia tanto sconvolgente a cui nessuno aveva mai fatto cenno prima e accorgersi di vivere in un paese in cui ci si deve recare in un cinema e pagare un biglietto per guadagnarsi un qualche accesso a una fonte d’informazione libera, scoprire che queste sale buie sono ritornate ad essere quel preistorico mezzo di comunicazione mediatica di massa che sono stati al tempo dei cinegiornali, è un’esperienza che indubbiamente prende alla gola, disturba perché in qualche modo è un violento spostamento della propria condizione politica, sociale e spettatoriale. Le pretestuose accuse mosse a Sabina Guzzanti, colpevole secondo l’apparato censorio governativo di aver utilizzato la satira per fare informazione, giornalismo, propaganda politica, potrebbero sembrare insensate per una miriade di motivi, ma a ben vedere non fanno altro che portare alla luce la più evidente e desolante delle realtà: non sono i comici o i cineasti ad aver impropriamente invaso il campo dell’informazione ma è l’informazione stessa che in questo paese è rimasta orfana delle categorie professionali e degli strumenti che dovrebbero esserne il tramite, e pertanto è costretta a rifugiarsi altrove, in fuga da quell’omertosa coltre di terrore diffuso che paralizza telegiornalisti, oppositori politici e funzionari della comunicazione indegni dei ruoli che ricoprono. Mi auguro che in futuro si guarderà a questo film non solo come alla preziosa testimonianza della vittima di un fascismo, redatta in prima persona e in tempo reale, ma anche come a una delle poche opere cinematografiche del nostro tempo in grado di umiliare duramente e pubblicamente un’intera classe politica che meriterebbe di essere spazzata via nella sua interezza da decine di opere come questa. Resta un mistero come gli artefici di questo crimine contro la libertà di espressione possano continuare indisturbati nella loro vita pubblica dopo aver esibito qui tutta la loro vergognosa pochezza e mancanza di dignità; resta un mistero come una tale massa di miserabili servi della gleba possa ripresentarsi di fronte ai propri elettori dopo aver messo in mostra la carrellata di espressioni ebeti, balbettii e silenzi con i quali hanno pateticamente cercato di rendere conto al pubblico delle proprie azioni e della loro ferma volontà di non opporsi al regime strisciante per un qualche interesse privato (la stizzita Lucia Annunziata infastidita dalla propria parodia!) o per l’incapacità di formulare un pensiero coerente (si veda l’intervento del direttore del Riformista) o semplicemente per il più totale disinteresse nei confronti del proprio mandato (come si evince dalle risposte di un accidioso Petruccioli, accolte in sala dalla risata più fragorosa in assoluto).
Il merito del documentario è aver mostrato ai cittadini illusi l’indecente livello culturale e morale del ceto politico – che siede in Parlamento pago di ratificare decisioni assunte altrove – nonché della famigerata congrega degli opinion maker, mai sufficientemente vituperata, e dei dirigenti pubblici di nomina politica, che non possono non riflettere la qualità della propria matrice. La Presidente della Rai, in quota all’opposizione all’interno di un c.d.a. per 4/5 in mano al governo, incapace ammettere il proprio risibile ruolo di “spaventapasseri di sinistra” (Maltese); il Presidente della Commissione di vigilanza colto da afasia davanti a scomode domande; uno dei capi del maggior partito d’opposizione che rivela l’esistenza di un patto scellerato della sinistra con l’attuale premier per non dirimerne il conflitto d’interessi; il direttore del quotidiano Il Conformista che si arrampica penosamente sugli specchi; giornalisti Rai more solito pecoroni, vittimisti e strapagati; ministri più ridicoli delle loro caricature; alti papaveri Rai arroganti, impuniti e d’abissale ignoranza (subito rimbeccati dallo storico e dal teatrante). Sono queste alcune delle perle nere in uno scenario che sottolinea la connivenza fra destra, centro e sinistra nel curare gli interessi privati di una cricca di potere facendosi beffe di quelli del Paese, e rivela così ai disattenti l’esistenza di un vero e proprio arco incostituzionale; gli altri se n’erano accorti diggià, ma venivano puntualmente accusati – negli anni di malgoverno del sedicente centrosinistra – di massimalismo o disfattismo o intralcio del manovratore. L’autrice procede à la Moore con discreta efficacia (avrebbe però potuto variare il tono uniforme, sommesso e saccente, della narrazione off). I limiti sono soprattutto in un certo protagonismo della protagonista e nella restrizione dello sguardo a episodi deprecabili ed esemplari dell’impudenza della nostra classe dirigente, ma emersioni frammentarie di un fenomeno più vasto e drammatico. La declinazione privatistica delle funzioni di governo va infatti ricondotta a una profonda involuzione, strutturale e non episodica, delle società contemporanee: il trionfo di una concezione proprietaria e personalistica della politica, la subalternità ormai senza mediazioni della politica stessa al potere economico, e l’abolizione di un ampio pluralismo nella pubblica opinione – una delle “precondizioni della democrazia” (Paladin) – con la spartizione dei mass media fra i potentati economici.
Resta in definitiva fuori fuoco il fondamento del dilagare del conflitto d’interessi e dell’abuso di potere a tre livelli: nella gestione di governo, nella relazione fra istituzioni (Governo, Parlamento, Presidente della Repubblica, Corte Costituzionale, Magistratura) e nel rapporto fra istituzioni e Stato-Comunità (con i fatti di Genova 2001 eretti a modello aureo di gestione del dissenso che non si accontenta del minestrone della propaganda e della camomilla dell’opposizione). Una patologia che investe gli stessi fondamenti della forma democratica, e propone una nuova, forse fatale metamorfosi del problema che affatica da secoli l’occidente: il rapporto tra forza e legittimità, tra libertà e bene comune.