Recensione, Thriller

VISIONS

TRAMA

Un serial killer, soprannominato Spider perché riduce le vittime in uno stato comatoso all’interno di un bozzolo appendendole al soffitto, sparge il terrore indisturbato mentre l’F.B.I. brancola nel buio. Un ragazzo appena uscito dal coma per un incidente comincia ad avere strane visioni collegate all’opera del serial killer e decide di indagare insieme a un amico e a una giornalista.

RECENSIONI

Dispiace che un tentativo di cinema italiano di genere, in teoria coraggioso nello sfidare il torpore delle produzioni nostrane, sia da bocciare su tutti i fronti. Eppure davvero nulla nel debutto cinematografico di Luigi Cecinelli risulta degno di nota. È proprio vedendo esiti così imbarazzanti che ci si rende conto di come il cinema sia frutto di un equilibrio sottile in cui ogni aspetto deve essere considerato, approfondito e curato. Fin dalle prime sequenze, invece, Visions si limita a scimmiottare situazioni e personaggi stereotipati (il serial killer introvabile, lo psichiatra fallito, gli agenti dell’F.B.I. in fermento) senza però che la lampante scarsità di mezzi e idee sia risollevata da guizzi nella messa in scena. Anzi, la sensazione che si palesa, via via sempre più evidente, è quella di un bambino che gioca a fare il grande indossando i vestiti dei genitori. Non è sufficiente replicare i gesti, le movenze, diciamo la superficie, di opere di genere riuscite (in primis la saga Saw) per suscitare inquietudine e fare in modo che gli interrogativi esigano una risposta. Se per caratterizzare uno psichiatra si utilizza un attore con due sole espressioni (accigliato o assente), vestito come il commissario Zuzzurro, che dice frasi ad effetto piazzate lì senza un prima e prive di un dopo, difficilmente si sospenderà l’incredulità. Il problema, insormontabile, è che nulla di ciò che scorre sotto gli occhi sempre più attoniti e insonnoliti dello spettatore contribuisce a creare un’atmosfera in cui perdersi, al limite anche solo partecipare, comunque credere: recitazione disastrosa (su tutti la giornalista “interpretata” da Caroline Kessler, perennemente inappropriata); scenografie di ricercato anonimato che puntano a un’ambientazione americana ma raggiungono malamente il “non luogo” (e comunque non basta un’auto straniera per fare United States e qualche filo metallico calato dall’alto per indurre al malsano); fotografia sporca al limite del bianco e nero troppo scopertamente funzionale alla copertura dei limiti di budget; sceneggiatura goffissima nell’accostare gli eventi e straziante nell’infliggere dialoghi infarciti di frasi fatte; flash onirici confusi che ricorrono ai soliti stacchi di montaggio abbinati a effetti sonori roboanti; una colonna sonora invadente e dilettantesca e una regia statica che non si traduce mai in cifra stilistica. Insomma, un fallimento totale e senza appello.