Drammatico, Noir, Recensione

VILLETTA CON OSPITI

TRAMA

Una famiglia agiata del nord est. Una famiglia rumena venuta in Italia in cerca di una vita migliore. I loro destini si incontreranno in una notte in cui tutto cambierà.

 

RECENSIONI

Gli equilibri familiari, le derive disfunzionali, la fragilità delle buone intenzioni, il crollo delle apparenze, attraversano da sempre il cinema di Ivano De Matteo. Villetta con ospiti è un ulteriore tassello in questa direzione. Il fulcro della vicenda è una casa elegante immersa nel verde, il tema apparentemente sondato quello della legittima difesa e del possesso di armi, ma è solo lo spunto di un racconto corale dove, per calcolo preciso di sceneggiatura, una sola è la vittima e tutti sono i carnefici. Il film è suddiviso in due parti. La prima, diurna, è preparatoria e descrive con i toni della commedia la vita di provincia (siamo nell’agiato nord est) mostrando i luoghi (il bar, la parrucchiera, la parrocchia, l’azienda di famiglia, la festa in piazza) e il campionario di varia umanità che li abita. La seconda, notturna, circoscrive l’azione alla villetta del titolo, teatro dell’evoluzione del racconto, del suo entrare nel vivo tingendo la commedia di nero. Quello imbastito dal regista diventa quindi un noir che partendo da un fatto di cronaca mostra le diverse reazioni al tragico e all’inaspettato.

Uno scavo di situazione più che di personaggi, dove l’intenzione, supportata anche da alcuni brevi inserti documentaristici relativi alla natura e al mondo animale, è quella di ritrarre lo spirito autoconservativo dell’uomo dove a vincere è sempre il più forte. Una forza che nel contesto descritto è data da ricchezza e potere. Gli stereotipi sono quindi già nelle premesse: un marito affarista e profittatore, una moglie tradita e depressa, una figlia ribelle (il personaggio meno riuscito), un prete untuoso, un medico viscido, un’immigrata di buon cuore e ottimista, un poliziotto corrotto, una matriarca avara dalla lingua biforcuta. Essendo la tesi nell’aria fin da subito, la sceneggiatura non ha bisogno di troppe sottolineature per connotare ulteriormente i personaggi e cerca di lasciargli quel respiro, inevitabilmente poco, necessario per farli vivere davvero. Respiro a cui contribuisce l’interpretazione degli attori, in particolare un Marco Giallini contenuto, una sempre meravigliosa Michela Cescon e una intensa Cristina Flutur (nota a parte per la breve apparizione della carismatica Erica Blanc che si vorrebbe vedere più spesso). Una volta compreso il disegno non resta che rifiutarne l’approccio schematico o stare al gioco. In aiuto, in questa seconda ipotesi, sono la gestione degli spazi, mai quinte di un palcoscenico teatrale, sonorità evocative, una fotografia accurata e un approccio poco sensazionalistico che sottintende una ricerca sincera. L’approdo però, pur facendo combaciare tutti i tasselli, anzi, forse proprio perché li fa combaciare tutti, consente l’immedesimazione ma è abbastanza scontato.