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VIDEOCLIP ANNI DIECI: UNA DECADE DI VIDEOMUSICA/3

 

CONCETTUALE

Reset (Gesaffelstein)
diretto da Manu Cossu, 2018
Primo vero video a nome proprio per Cossu, dopo il divorzio da Fleur Fortuné (Fleur & Manu, uno delle sigle-chiave della videomusica dell’ultimo decennio) e rivendicazione di una marca riconoscibile e di uno stile visivo di grande impatto (l’uso del ralenti che esalta le figure in campo e le epicizza). Un promo problematico perché riproduce una precisa retorica rappresentativa, quella autoreferenziale e autocelebrativa dell’hip hop, per farne piazza pulita. L’avvento del simulacro di Gesaffelstein starebbe a indicare proprio questo: il distaccarsi da un certo modo di interpretare egoticamente la scena musicale e il fare contraria storia a sé, lo scarnificare la propria immagine perché la musica che si produce non venga identificata con essa. E questo messaggio (reset, un titolo che non lascia scampo) viene servito a puntino da Cossu con una messa in scena superba, di decadenza definitiva in cui si consuma l’apocalisse di una modalità propositiva, modalità che viene decostruita e tacitamente messa da parte assieme ai pezzi di una storia musicale riconoscibile. Un video rap in cui non si rappa, perché lucidamente volto a riprodurre i codici riconoscibili di un genere (la frontalità, gli sguardi in camera, il twerking) solo per frantumarli (il loop rirpropone le microsequenze con dettagli via via diversi), ridurli a flebili echi di una teatralità di strada che si vuole svuotare di senso. Un clip che pone anche degli interrogativi, stante la sua ambiguità: delle persone bianche (l’artista, il regista), sembrano salire su un pulpito e giudicare sommariamente una cultura musicale che, nata dal basso, è riuscita a imporsi fino a dominare il panorama attuale. Una provocazione calcolata? Che lo sia o meno quello che conta sono queste immagini, la loro potenza.

Energy (Drake)
diretto da Fleur & Manu, 2015
«Ho tanti nemici che mi succhiano l’energia» canta Drake, la cui immagine si rispecchia in quella di alcuni personaggi emblematici dell’America contemporanea che si sono messi in evidenza pubblicamente con manifestazioni controverse e oggetto di polemica (Justin Bieber, Miley Cyrus, Tom Cruise, Kanye West e molti altri). Accanto al gioco identitario in VFX si snoda anche un livello autobiografico (Drake che combatte fin da bambino i suoi nemici – il peggiore ha il suo stesso volto -), sipari inquieti che inquinano il registro ordinario del video rap (la performance frontale in bianco e nero).

Up&Up (Coldplay)
diretto da da Vania Heymann e Gal Muggia, 2016
I Coldplay sanno sempre a chi rivolgersi per incrementare un percorso videografico di serie A e coniugare, come i maghi del mercato che sono, qualità ed esigenze commerciali. Così ottengono da Vania Heymann un’ecumenica e astuta declinazione mainstream delle sue tipiche invenzioni. E fanno centro ancora una volta.

Drugs (Ratatat), Obsess (Kep Bambino)
diretti da Carl Burgess, 2011
Drugs è composto da una serie di staged clips di persone, in diversi atteggiamenti, selezionata al Getty Images. Burgess fu colpito dal carattere goffamente imitativo della realtà di quei filmati e dalla varietà di materiale che l’archivio rimandava alle sue richieste ratione materiae (“uomo anziano che ride”, “uomo d’affari stressato” etc.); affascinato da queste immagini, realizzate, in quantità smodata e senza scopi predefiniti, per eventuali documentari, ne fa una selezione e assembla una sorta di catalogo umano artificiale in cui si mettono in scena emozioni esasperate da parte di attori palesemente improvvisati.
Obsess riprende il discorso, ma lo varia significativamente: stavolta, infatti, le immagini delle persone in scena non provengono da un repertorio preesistente, ma vengono girate dal regista stesso sulla base della medesima logica (atteggiamenti forzati, emozioni scoperte, overacting programmatico). Il risultato è, come il precedente, a metà strada tra la satira e l’orrore, con in più una coscienza ricostruttiva della finzione che conferisce al lavoro una falsità al quadrato che vira in pura vertigine concettuale.

Fade (Kanye West)
diretto da Eli Russell Linnetz, 2016
Classe 1990, Linnetz già a 17 anni lavorava per Kanye West: con lui dirige Famous, del quale è anche responsabile del dipartimento artistico, e si occupa della concezione scenica del Saint Pablo Tour – il palco sopraelevato -. Per Fade mette in scena, partendo da una visione di Kanye, una coreografia solitaria. Ipnotica, irresistibile. Nella sala attrezzi Teyana Taylor è un monumento di prestanza fisica, agilità, tensione, eleganza. La coda softcore vede la Taylor e il compagno Iman Shumpert, amoreggiare sotto la doccia, come in una vertigine voyeuristica di un film di DePalma. Il finale biblico, in cui si aggiunge il figlio della coppia, è una sorta di richiamo alla sacra famiglia West/Kardashian (Then I said, “What if Mary was in the club/ ‘Fore she met Joseph around hella thugs?/ Cover Nori in lambs’ wool/ We surrounded by the fuckin’ wolves si dice in Wolves): la donna, nelle fattezze di una leonessa, protegge il suo cucciolo.
Si è citato molto Flashdance, ma i riferimenti chiave sono le copertine degli Ohio Players, gli anni ‘70, l’androginia di Grace Jones e le applicazioni artistiche sul suo corpo di Jean-Paul Goude, l’estetica del porno, la Blaxploitation eccetera eccetera…
Lanciato a sorpresa agli MTV Awards, non è solo un coreografico pazzesco, ma soprattutto un geniale video mutante che, partendo dalla danza, finisce con l’evocare (in modo del tutto inaspettato e senza sottolinearne in alcun modo il significato) quel sacro e quel profano che costituiscono le due dimensioni tra le quali il disco di West oscillava.

Dynabeat (Jain)
diretto da Greg & Lio, 2017
Grégory Ohrel e Lionel Hirlé, già in evidenza con un primo esperimento (il video non ufficiale di Niggas in Paris) stanno costruendo negli ultimi due anni una preziosa videografia (si aggiungano i commercial) fatta di prospettive inusuali, rovesciamenti di senso, montaggio connotativo, citazionismi sapidi, illusioni ottiche e tutto il corredo di cliché che la videografia transalpina sa usare come nessun’altra. Dynabeat è un video sanamente pop, in cui l’intenzione creativa, a dispetto dei pesanti intellettualismi correnti, non è mai ingombrante o ostentata.

Shock Machine (Shock Machine)
diretto da Saam Farahmand, Cinelab, ETC., 2016
Solcare le onde dell’oceano, cantare tra acqua e cielo, ribaltare l’orizzonte. È come se le sfrenate visioni di Farahmand per i Klaxons – qui in un progetto parallelo del gruppo – si ripulissero al contatto degli elementi e diventassero pure, cristalline, scevre da doppie letture. Dire le cose semplicemente è molto difficile: Farahmand dimostra di poter mettere a nudo la sua arte senza depotenziarla. Anzi.
Sottovalutatissimo, è una delle mie video-ossessioni del decennio.
Cuori a ogni visione.
Everything felt right when we were shooting it.

Xananas (Myss Keta)
diretto da Simone Rovellini, 2017
Xananas, unico possibile video per l’estate di Myss Keta, squarcia il velo sulle celebrazioni di stagione e lo si gira a Rosignano, sulla spiaggia bianca per i rifiuti di un’industria chimica – la Solvay -. I tropici sono uno stato mentale. E l’ananas è un ansiolitico fresco fresco.
Il clip vale per tutta la videografia di Rovellini per Myss Keta: un’oasi di originalità, un corpus di lavori che, anche quando guarda a generi tradizionali, lo fa per modificarli, ribaltarli. Illustrazioni letterali di un testo, gif-video che inglobano la rete, le brutture del Tubo, il kitsch dei contributi fanmade, lo slideshow come logica. Tutto un pulsare di sottoculture e giochi semantici all’inseguimento del segno, del paradosso, del doppio senso. Dal lettering basico e altisonante di Fighecomeilpanico – Gaspar Noé che fa un lyric video, praticamente – alla milanesità esibita come marca generazionale di Le ragazze di Porta Venezia. Via via arricchendo budget e significati, stratificandoli addosso all’artista-personaggio.
Niente di simile non solo in Italia, se persino i Cahiers du Cinéma decidono di occuparsene.

Americanarama (Hollerado)
diretto da Greg Jardin, 2010
Il concetto è più bello quando è semplice: qui un’impalcatura suddivisa in scomparti, ciascuno occupato da una persona che contribuisce ad animare una coreografia con pannelli o col semplice movimento. Video che, in stop motion, sfodera soluzioni spassose che coinvolgono, all’esterno della struttura, anche i musicisti. E che sfrutta come un vantaggio la camera fissa. Chi l’ha detto che la performance rock ammazza il video? (Io. Vabbè, stavolta no).

Nikes (Frank Ocean)
diretto da Tyrone Lebon, 2016
Tyrone Lebon, attivo soprattutto nel campo della pubblicità (da ultimo si veda il corto Men per Bottega Veneta su Mubi), ama una ritrattistica vivida e mai patinata, immagini sovraesposte e difettose, ma costruite con cromatismi pittorici e un sapiente senso della composizione. Nikes è frutto di una strategia precisa, che segue una linea coerente nei promo del musicista: schivare il glamour puntando su un registro sofisticato, certo, ma composto di segmenti sporchi, adulterati che assecondano una narrazione criptica. Fondato sulla logica del doppio (Frank Ocean scisso: maschile e con gli occhi truccati, attore e performer, con voce naturale e distorta), il video traduce questo strazio intimo attraverso sequenze enigmatiche: in un mondo che si consegna all’edonismo sfrenato (le scarpe Nike del titolo ne costituiscono una sintesi) e svilisce l’interiorità preferendo paradisi artificiali e pratiche sessuali consumate a brutale velocità («se vuoi del cazzo ci penso io»), o ci si perde nel vacuo godimento o ci si immola (l’americano consegna il suo corpo alle fiamme). Il percorso è reso con un flusso di coscienza visivo che mescola girato di diversa qualità (graffiato, sgranato, ripreso da schermi) e procede per suggestioni istantanee (set svelati, un cane parlante, bagordi notturni, la pioggia di lustrini a riflettere piaceri effimeri): è l’approdo di un’estetica tutta contemporanea, quella di una generazione plasmata da Tumblr o Instagram, che accosta “belle” immagini in modo impressionistico, non agganciandole a un senso specifico o immediatamente leggibile.

I Will Never Change (Benga)
diretto da Us, 2012
Perché amo gli Us: perché sono precisi, taglienti, non infiorettano nulla. Perché se hanno un’idea potente come questa vi si affidano, non la nascondono dietro paraventi narrativi, non la ammantano di travestimenti intellettuali.

So Many Pros (Snoop Dogg)
diretto da François Rousselet, 2015
François Rousselet (metà del marchio Jonas & François), alla prima prova solista, opera nel rispetto della consolidata poetica del duo, che si muove, in modo ragionato e ironico, nell’ambito della grafica pubblicitaria. Il regista si inventa una serie di manifesti di film inesistenti, quadri in movimento in cui maneggia un patrimonio iconografico riconoscibile, font d’epoca, generi cinematografici (la blaxploitation in particolare).

Only One (Kanye West feat. Paul McCartney)
diretto da Spike Jonze, 2015
Kanye uomo e padre. Un video nudo, concepito da Vanessa Beecroft, onesto riflesso non solo della canzone, ma anche di una fase di vita che quasi risuona in quella voce in presa diretta. Prodromo indispensabile per valutare quanta coscienza di giocare coi limiti ci sia nell’inquietante deriva messianica filmata da Jake Schreier (l’ultimo video del suo decennio, Close on Sunday è oltre il prendere o lasciare).

If The Car Beside You Moves Ahead (James Blake)
diretto da Alexander Brown, 2018
Brown, come suo solito, fa leva sull’impianto figurativo, facendo di una corsa in automobile una fascinosa sarabanda visiva. I riflessi distorti delle luci della strada che screziano la carrozzeria dell’auto, le gocce d’acqua che rigano il vetro di una portiera, le strisce dei neon di una galleria, il paesaggio stradale in time lapse creano una composizione di segni multicolori che si astraggono dalla realtà fenomenica per diluirsi e convertirsi, ritmicamente, in pura forma. Così lo schermo si fa spazio pittorico in cui la musica trova una naturale, ipnotica traduzione visiva.
Nel decennio Brown-Blake possono vantare anche quest’altro gioiello.

Pleasure (Justice)
diretto da Alexandre Courtès, 2017
L’amplesso è spaziale, i corpi mutanti, l’orgasmo esplosivo. E il finale sardonicamente kubrickiano. L’Alexandre Courtès che ci piace di più: flusso tutto visivo, pieno di idee, esplicito, ironico. Molto, molto meglio dell’osanatissimo (sempre 2017) Go Up (Cassius).

Mr Noah (Panda Bear)
diretto da AB/CD/CD, 2014
Ancora oggi il miglior video del collettivo francese: la resa di una situazione attraverso una visione multiprospettica, con personaggi in movimento alternato nell’unica location, mentre il centro focale del luogo è un cane, costretto all’immobilità dal guinzaglio corto. E che brano.

Winaloto (Tommy Cash)
diretto da Tommy Cash, 2016
Il corpo come cassa di risonanza, forma duttile, segmento di paesaggi possibili (onde di piedi, dune di cosce) o di simboli compositi. In un bicromo color carne (white prima, black poi), l’estone Tommy Cash, disturbando e incuriosendo, impone la sua cifra a forza di composizioni fisiche affascinanti, raffinatissimi tableau, trovate provocatorie e giocose (il pube che canta) che ammiccano al trash senza cedervi mai.

Dis Generation (A Tribe Called Quest)
diretto da Hiro Murai, 2017
Murai mostra quelle che sono le sue radici (il concettuale anni 90). Quindi Gondry quando guarda a Zbigniew Rybczyński.

META-VIDEO

Oramai un genere a sé, per quanto è frequentato, altro sintomo di un’arte che ha raggiunto la pubertà.

Bike Engine (Stylo G x Jacob Plant)
diretto da Keith Schofield, 2016
Non solo un clip che riflette sul linguaggio, ma anche Schofield che riflette, con la solita ironia e intelligenza, su Schofield videomaker e su tutto un modo di intendere la videomusica nell’era di YouTube (lui che ne è stato uno dei cantori indiscussi). Molti, moltissimi cuori.

Wycleaf Jean (Young Thug)
diretto da Ryan Staake, 2017
Metaclip che dichiara le sue origini, dal punto di vista del suo artefice (il regista che parla in didascalia) e dell’artista che propone soluzioni (la sua voce fuori campo). Come in Funk Squaredance dei Phoenix, diretto da Roman Coppola (precedente imprescindibile che si esauriva in una divagazione) le possibilità che vengono esposte si traducono in immagini e il video si compone delle ipotesi che fioriscono attorno a esso. In questo caso l’assenza accidentale di Young Thug durante le riprese (Staake dichiara di non averlo incontrato) determina la prospettiva di lavorazione, caratterizza il concept e lo segna. Così al tournage del regista si associa il girato dello stesso artista, laddove la totale riconsiderazione di quanto ideato e realizzato, costituisce la cornice che contiene e giustifica ciascun passaggio.
Tre premi agli UKMVA, tra cui Music Video of the Year.

Number in Action (Wiley)
diretto da Us, 2011
La performance di Wiley è il campo di applicazione di un’idea forte, una metatestualizzazione del lavoro, una strategia di lettura che frantuma il testo a tre livelli; il primo è la messa in immagini della canzone: oggetti e figure umane, combinati in movimenti coreografici, traducono, visivamente e alla lettera, il brano musicale, secondo il verbo gondryano; nel secondo cartelli esplicativi punteggiano lo svilupparsi della canzone (strofe, ritornelli, outro), evidenziandone la struttura; nel terzo è lo stesso video a mettersi in scena: il ciak battuto all’inizio, il set nudo che palesa le indicazioni dei percorsi che verranno seguiti, il cartello finale (This is just a music video). Il tutto viene complicato da una postproduzione molto sofisticata che mette in loop, a ritmo col brano, singole porzioni del video e permette all’artista, e alle sue varie repliche in digitale, di popolarlo (ogni Wiley è, come da titolo, un number in action). Grandi Us, come sempre.

Say My Name (Odesza feat. Zyra)
diretto da Ian Pons Jewell, 2014
La scoperta agghiacciante che la propria felicità non esiste, che quello che si sta vivendo è un videoclip con tanto di (finzionale) product placement.

Not Better (Dillon Francis)
diretto da Brando Dermer, 2015
Video che, dichiarando la sua strategia (ribrandizzare Dillon Francis), di versione in versione anticipa a quali obiettivi tenderà e quali modifiche andrà a operare per migliorare il risultato e ottenere lo scopo. Finale esplosivo (+ sorpresa).
Esito brillante, concezione seria.

Talk (Two Door Cinema Club)
diretto da Max Siedentopf, 2019
Un video teorico che sia anche divertente e che serva le ragioni del brano musicale non è cosa da poco. Max Siedentopf crea un catalogo di trucchi videomusicali noti (si va dal loop visivo al gioco di prospettive) in una cornice tipica anni dieci (il video portrait), con contorno di karaoke e celebrazione cosciente della performance (sottolineata dal finale meta). Sulla stessa linea More (Electric Guest) diretto da Joe Weil, altro catalogo meta di opzioni stilistiche.

Mother (Bon Homme)
diretto da William Stahl, 2010
qui

Newly Thrown (Mysteries)
diretto da Kris Moyes, 2015
Il regista espone l’idea. Come nel video di Stahl di cui sopra.

Open Season (Josef Salvat)
diretto da Ollie Wolf, 2015
Decostruzione del video elemento per elemento con ironica segnalazione, con sovrascritte, delle sue componenti. Catalogo credibile e assai divertente.

Hungry Child (Hot Chip)
diretto da Saman Kash, 2019
Saman Kash continua a portare avanti un discorso videomusicale personale, fondato su narrazioni molto ponderate (ricordate i clip scritti da Bret Easton Ellis?) e su produzioni ad alto budget. Qui ragiona in termini metatestuali e rovescia una delle convenzioni sulle quali si fonda il videoclip musicale: la canzone diventa così una presenza incombente nella vita dei due protagonisti, che non solo possono sentirla, ma la subiscono a un volume altissimo e non sanno come liberarsene. Finale un po’ tirato via.
Poi American Spirit di Meg & Dia: finto making of di un video performativo del brano, con la camera in motion control che diventa una minaccia e fa virare tutto in horror (co-diretto con Justin Daashur Hopkins).

VIDEO DI FRONTIERA (I DIFFERENTI)

Animals (Oneohtrix Point Never)
diretto da Rick Alverson, 2016

Boring Angel (Oneohtrix Point Never)
diretto da John Michael Boling, 2013

Ham (Mr.Oizo)
diretto da Eric Wareheim, 2014

Fjögur Píanó (Sigur Rós)
diretto da Alma Har’el, 2012

Sticky Drama (Oneohtrix Point Never)
diretto da Jon Rafman, 2015

Streaker (Tobacco)
diretto da Eric Wareheim, 2014

Hands (Alpine)
diretto da Luci Schroder, 2012

Love in Motion (SebAstian)
diretto da Gaspar Noé, 2012

Horse (Salvatore Ganacci)
diretto da Vedran Rupic, 2019

Roland, I Feel You (Get Well Soon)
diretto d Philipp Kaessbohrer, 2012

First Light (Django Django)
diretto da Daniel Swan, 2015

Crazy Clown Time (David Lynch)
diretto da David Lynch, 2012

Famous (Kanye West)
diretto da Eli Russell Linnetz, Kanye West, 2016
vedi qui

 

I DIECI VIDEO PIÙ CLICCATI

Quanto conta questa classifica per il videofilo, considerando che il Tubo viene usato anche (soprattutto?) come piattaforma per l’ascolto e che questi sono dunque numeri che attestano tendenze commerciali, contabilizzando la popolarità degli artisti? Relativamente. Ma è l’unico dato oggettivo che possiamo offrire. Oltre le bolle, oltre le balle.

1) Despacito (Luis Fonsi feat. Daddy Yankee)
diretto da Carlos Pérez, 2017

2) Shape Of You (Ed Sheeran)
diretto da  Jason Koenig , 2017

3) See You Again (Wiz Khalifa feat. Charlie Puth)
diretto da  Marc Klasfeld, 2015

4) Uptown Funk (Mark Ronson feat. Bruno Mars)
diretto da Cameron Duddy, 2014

5) Gangnam Style (Psy)
diretto da Cho Soo-hyun, 2012

6) Sorry (Justin Bieber)
diretto da Parris Goebel, 2015

7) Sugar (Maroon 5)
diretto da David Dobkin, 2015

8) Roar (Katy Perry)
diretto da Grady Hall, Mark Kudsi, 2013

9) Thinking Out Loud (Ed Sheeran)
diretto da Emil Nava, 2014 

10) Counting Stars (OneRepublic)
diretto da James Lees, 2013

TOP 50
Terza parte (da 30 a 21)

# 30
In This Shirt, The Irrepressibles
diretto da Roy Raz, 2011

Si tratta di un’opera video che non nasce come videoclip commissionato per la canzone, In This Shirt degli Irrepressibles, che è stata semplicemente scelta dal regista per accompagnare le immagini: come in un Matthew Barney in salsa LGBT, si mostrano, tra i pochi elementi scenici di un set ibernato in un bianco accecante, una sfilata surreale di corpi maschili e femminili, un fegato usato come pallina da tennis, un pube ricoperto di perle; e ancora: accoppiamenti, sodomie e fellatio suggeriti o mostrati, evocati luoghi comuni erotici (i lavamacchina), fluidi corporali metaforizzati e non e, ciliegina sulla torta, una testa che si spappola: il tutto pietrificato dal ralenti che segue lo ieratico canto del gruppo. Una visione che riflette metaforicamente sul modo in cui la società guarda ai ruoli sessuali, alle dinamiche di potere e schiavitù che determinano, alla giovinezza come merce estetica in scadenza.

# 29
Bugatti (Tiga)
diretto da Helmi, 2014

Video come pura collezione di immagini che s’incastonano nella struttura del brano, la corredano. Una strizzata d’occhio a CANADA (soprattutto per il tocco surreal-strampalato e vintage – qui l’edonismo anni 80, e il suo sessismo -), ma estetica costruita in modo originale, in una parata di siparietti di meccanico deboscio che suonerebbe arty se quel registro non fosse costantemente irriso e dilavato nel furore pop. Il deviato citazionismo di Heimi (persino i Pink Floyd di Wish You Were Here) si sublima in pura forma e, svuotando i riferimenti e assoggettandoli al ritmo e alla ripetizione, si fa scintillante poesia visiva.

# 28
Every Breaking Wave (U2)
diretto da Aoife McArdle, 2015

L’amarcord di Aoife McArdle ci porta nell’Irlanda del Nord degli anni 80: l’amicizia, l’impegno, la lotta, il sangue, il rock annodati da un filo romantico e tragico (la storia d’amore tra due ragazzi separati dalle barricate religiose) e autobiografico; dall’affresco generale al vibrante particolare, in un magnifico short, tanto impetuoso, quanto sapientemente concepito (la ricostruzione d’epoca accuratissima), con immagini da cui trasuda quel gusto pittorico (i riconoscibili cromatismi primari) che oramai contraddistingue i lavori della regista. Disponibile anche la versione breve.

# 27
Into the Heart (Mirrors)
diretto da Us, 2011


Il video mette in gioco, attraverso un meccanismo psicologico ripetutamente usato nell’effettistica videomusicale, le aspettative dello spettatore, maturate in base all’esperienza: alle prese con una messa in scena apparentemente realistica, nell’oscurità circostante, un occhio di bue illumina un dettaglio di quello che sembra l’interno di una stanza; il video si sviluppa in questa chiave, proponendo diverse variazioni di questo tipo di immagine che sembrano offrire un dettaglio di un contesto più ampio che lo spettatore immagina in automatico. Il finale, invece, svela il dato scenografico come limitato alla sola superficie illuminata: il resto, split screen compresi, è stato solo immaginato dallo spettatore (si tratta di un’illusione ottica che opera in chiave psicologica). In chiusura la band abbandona il set di ripresa che si dimostra di dimensioni contenutissime.
Us da subito campioni di un concettualismo intellettualmente raffinato quanto spettacolare.

#26
Call Out My Name (The Weeknd)
diretto da Grant Singer

Grant Singer e The Weeknd continuano a narrare, scopertamente o velatamente, un’unica saga, quella del percorso tormentato della star, tra tentazioni divistico-diaboliche e crisi esistenziali e sentimentali. Anche in questo caso l’esibizione porta l’artista a confrontarsi con i propri demoni attraverso uno sdoppiamento visionario, una sorta di proiezione dell’angoscia (l’urlo con il vomito di pipistrelli è lacerante: effetti speciali di serie A firmati The Mill) sullo schermo metaforico del cinema interiore (platealmente: la sequenza in bianco e nero davanti allo schermo che rassembra la successione di fotogrammi di un protofilm). E usando il genere (gotico, drammatico, fantascientifico) per dire del sempiterno tema dell’amore che finisce (il paesaggio desertificato, il ricordo degli esseri che lo hanno popolato, i falò morenti, fino allo spettro della donna perduta – Selena Gomez? – che più avanti si riaffaccia dal balcone di un caseggiato in un’apparizione esplicitamente orrorifico-fantasmatica).
The Weeknd è dotato di una video-presenza di intensità rara, ma Singer è il “suo” regista perché riesce, come nessun altro, a creare un mondo credibile nel quale farla abitare.
Singer, regista tra i migliori del decennio, è ancora da applauso lo stesso anno: My My My! di Troye Sivan è un performativo eccelso in bianco e nero sgranato, alternato a brevi sequenze colorate, tutto giocato sui chiaroscuri creati da luci intermittenti e pulsanti. Sivan vaga in un complesso industriale abbandonato, luogo di evidente battuage, in cui ogni cabina si presenta come una dark room abitata da ragazzi in cerca di sesso.

# 25
Señorita (Vince Staples)
diretto da Ian Pons Jewell, 2015

Il sanguinoso stillicidio che ci si presenta dinnanzi è una rappresentazione simbolica dell’attualità? La visionaria anticipazione di un futuro possibile? Una certa realtà è diventata il parco degli orrori allestito per l’intrattenimento di una fetta privilegiata di società (bianca, non è certo un caso)? O assistiamo alla messa in scena di una legge marziale, classista e razzista? Verità o finzione che sia, quanto calcolo, quanta malafede c’è in questo spaccato decadente? Dove sono le responsabilità? Video metaforico e complesso, testo apertissimo, che affida al crescendo – e al magnifico finale che svela la stratificazione – un punto interrogativo pesante come un macigno e un senso di imbarazzo e inadeguatezza difficile da togliersi di dosso. Ian Pons Jewell continua a sfornare lavori di forte impatto emotivo, di notevole complessità di lettura e sempre magnificamente girati.

#24
Iron (Woodkid)
diretto da Yoann Lemoine, 2014

Assecondando le inflessioni sinfoniche e vagamente minimaliste del brano del suo alter ego musicale Woodkid, Lemoine mette in scena, su un fondale nudo, un fashion set di onirismo simbolista e marcatamente neomedievale che narra, attraverso le sue eclatanti metafore visive, la difficoltà di crescere di un ragazzo che giace come morto su una base di marmo («un racconto pieno di ricordi personali che tratta dell’indurimento forzato di un bambino, attraverso la metafora della pietrificazione. Questo bambino di legno entra in collisione con una città di marmo bianco, simbolo del mondo adulto, e così si trasforma anch’egli in marmo»). Espressività raggelata da un bianco e nero cadaverico, superbo uso del ralenti, lento e implacabile crescendo, figure esaltate dalle mise e dalle studiate movenze plastiche, monumentali edifici in graphic che evocano le architetture di Speer, disegni simmetrici tatuati su toraci maschili, il video risulta così originale e lontano dall’estetica dominante da ottenere un successo immediato e innumerevoli tentativi di imitazione.
Un canone degli anni dieci, primo capitolo di una tetralogia che comprende Run Boy Run, I Love You e l’esplicativo The Golden Age.

#23
Territory (The Blaze)
diretto da The Blaze, 2017

Clip che assorbe con grande naturalezza quella che è la tendenza principe di questo nuovo millennio videomusicale, il docudrama, fatto di immersione ambientale, descrizione puntuale di contesti e persone che li abitano, piegandolo alla retorica del videoclip e giustificando, nel rispetto delle logiche documentarie, il viaggiare parallelo del brano musicale. Senza la visionaria enfasi di Romain Gavras (pioniere e cantore massimo del genere) o l’eleganza concettuale di AG Rojas, The Blaze trova una via personale al filone intarsiando la cronaca con improvvisi ricami sinestetici e con impennate emozionali (la mdp che pedina il protagonista e allarga lo sguardo all’intera magione), dando l’idea di una coreografia e di una narrazione, ma senza dichiararle con nettezza. Il risultato, nella sua fluidità, evita ogni intellettualismo, arrivando dritto al cuore: circoscrivendo un territorio affettivo che comprende focolare domestico e comunità amicale (e una massa di racconti inespressi), il promo ne restituisce con autenticità toccante momenti di condivisione, lontano dai conflitti, nella piena celebrazione dello spirito libertario che è proprio di un’età. Non solo un ritorno a casa (siamo in Algeria), ma anche la riappropriazione di un istinto, il riconoscimento di uno spazio protetto e la rivendicazione di un’identità.
Grand Prix ai Cannes Lions.

#22
This Is America (Childish Gambino)
diretto da Hiro Murai

Uno dei pochi video del decennio a diventare un pezzo di cultura pop e a lasciare un segno: perché ha saputo intercettare il momento, anticipare il futuro (non così difficile da preconizzare, ahinoi), sublimare la sua intuizione in immagini significative e in un costrutto che, come sempre accade per i clip che colonizzano l’immaginario, spinge lo spettatore alla revisione, alla ricerca del significato ulteriore, all’interpretazione anche esasperata e alla conseguente condivisione e mitizzazione istantanea.
This Is America ripropone (senza innovarla, ma confermandone con forza tutte le coordinate poetiche) la collaborazione tra Murai e Glover/Gambino che, nata nella videomusica, ha sconfinato nella serie Atlanta. E coniuga con efficacia alcune costanti del regista: la danza come significato in movimento e la concentrazione dell’azione in uno spazio circoscritto e anonimo (si confronti col succitato video-loop Dis Generation per A Tribe Called Quest). La rappresentazione (gli Stati Uniti di oggi nel loro controverso rapporto con la comunità nera) è punteggiata da sipari simbolici che si intersecano. Sulla messe di riferimenti, allusioni e significati (più o meno nascosti) che ciascun quadro serba esiste una letteratura in rete, non c’è che da googlare.
Messa in scena pazzesca.

#21
Secrets (The Weeknd)
diretto da Pedro Martin-Calero, 2017


Rendere l’architettura protagonista del video: girato alla Toronto Reference Library, Secrets conferma l’occhio di Calero, che predilige il quadro d’insieme (l’uomo è figura nell’ambiente – la sua cifra -) per poi concentrarsi sul dettaglio (gli zoom), fino al significativo, immersivo primo piano, in uno stupefacente caleidoscopio di prospettive sghembe e giochi di forme, esaltati dai geometrici movimenti di macchina. Sempre sfrontato nei riferimenti (ieri le moine godardiane, oggi il giallo all’italiana – Argento, soprattutto – e i funambolismi depalmiani), il video oscilla tra un evidente thriller passionale (uno dei leit motiv della videografia del canadese) e una sottintesa metafora politica (l’ambientazione avveniristica) in quello che, a un primo livello, è un viaggio onirico della donna al centro dell’intrigo (la frase iniziale: «Je fais le même rêve tous les soirs»): un sogno che si traduce in una promiscua fantasia erotica che, forse, rivela a chi ascolta dove alligna la tresca («I hear the secrets that you keep/ When you’re talkin’ in your sleep»).
L’armonia della composizione figurativa di Pedro Martin-Calero detta il mood del clip, lo caratterizza: non solo questione di stile, ma di esercizio cosciente di una capacità fascinatoria che ha pochi confronti nella videomusica contemporanea.

 

Quarta parte

Prima
Seconda