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VIDEOCLIP ANNI DIECI: UNA DECADE DI VIDEOMUSICA/1

MILLE BOLLE

Eccolo lo speciale in quattro parti che archivia un altro videodecennio. Seguirà le stesse logiche che adotto per il compendio annuale: una divisione in categorie che permette di guardare a modalità e sensibilità differenti, una utopistica top 50 (programmaticamente fallimentare nel suo intento graduatorio – ma è solo un altro modo per allargare il campo visivo e segnalare 50 firme diverse -) e uno sguardo a registi (il trionfatore e 30 nuovi nomi nati nel decennio), artisti e campioni del click degli anni 10. Perché se questo è stato il primo decennio incontrastato della rete (Internet killed the MTV star), proprio la viralità, diventando la vera logica videomusicale, ha evitato (rimandato?) il tramonto del videoclip (YouTube saved the video star). Ma il libero e facoltativo accesso al titolo desiderato (evviva) e la fine dello stream imposto del canale televisivo tematico (evviva?) hanno reso quello del videoclip un universo caotico: tracciare delle coordinate certe e condivise si fa sempre più arduo, ogni prospettiva da cui si guarda il magma videomusicale non può che essere parziale, soggettiva, limitata.
Dal pensiero unico di MTV alle mille bolle (blu).
Se riscontrate delle assenze, dunque, non gridate all’errore o allo scandalo: semplicemente vivete in un’altra bolla.

Cosa registro in questo decennio videomusicale? Oltre alle tendenze di cui leggerete in queste quattro parti, ecco alcuni punti che mi sento di isolare.

A livello strutturale, tematico e stilistico: al di là del twerking, della coreografia come focus narrativo o concettuale (con o senza star), dei neon che ci stanno spaccando le pupille (e non solo…), del docudrama  e della retorica della realtà, mi pare che si sia imposto, in un modo più perverso e ossessivo di quello propugnato all’epoca da Madonna (un modello, sempre e comunque), la tendenza a piegare il video a mezzo per raccontare, sotto metafore più o meno camuffate, la propria parabola di star ed essere umano (la nuova autoreferenzialità: Kanye West, Taylor Swift, Lady Gaga, Katy Perry eccetera).

A livello tecnico: il cosciente recupero di armamentari pre-digitali che assume carattere di vera e propria militanza (dal nostro Virgilio Villoresi a Oscar Hudson).

A livello di formato: la definitiva rottura del copione che prevede video di durata standard (diretta conseguenza della diffusione della videomusica in rete e dell’abdicazione del palinsesto televisivo) e il dilagare dei video-fiume. Di qui le relative riflessioni sull’identità del videoclip.

A livello produttivo: la tenace resistenza di alcuni artisti e videomaker che non cedono al minimalismo dominante (ipertrofia e sbrigatività stanno uccidendo l’immaginario videomusicale – non c’è giudizio, è un fatto -) rispondendo al dominante pauperismo (produttivo e ideativo) con video-eventi, kolossal vecchia maniera e gigantismo anni 90. Il che rende il panorama alquanto schizofrenico.

Tutto il resto è nella cascata di parole a seguire.
Buona lettura, buone visioni, buon ascolto.

PERFORMATIVO

7/11 (Beyoncé)
diretto da Beyoncé Knowles, Todd Tourso, 2014
Distillato del video dell’era di YouTube: budget risibile, idee a profusione, massima resa.
Video performance del decennio perché qui è davvero l’artista che fa la differenza.
Da Be (& consorte) anche
Apeshit (The Carters),
diretto da Ricky Saiz, 2018
vedi qui

Thunder (Imagine Dragons)
diretto da Joseph Kahn, 2017
Neokolossalismo (gli anni 10 di Kahn come i 90) e solita magia del regista (rendere melodico il visivo): bianco e nero per arricchire la texture ed esaltare la tridimensionalità delle architetture di Dubai, performance mimetica, narrazione in trasparenza, coreografia di Aaron Sillis. Pochi videomaker penetrano così profondamente la struttura musicale, fino a eliminare ogni mediazione tra l’esibizione e l’emozione di chi guarda e ascolta. Pensiamo a una delle tipiche soluzioni kahniane, quella a 2’ 24’’, quando il montaggio richiama una percussione che ci si aspetta e che in quel passaggio manca: non la si ascolta, dunque, ma, prodigio, è come se risuonasse comunque. Maestro.

Send My Love (To Your New Lover) (Adele)
diretto da Patrick Daughters, 2016
Celebrando l’esibizione e sovrapponendo i diversi cantati di Adele, il video propone una tessitura visiva concettualmente superba (le immagini dicono com’è strutturato il pezzo). Di marca estetica superiore. Alla regia c’è Patrick Daughters, del resto.

Wrecking Ball (Miley Cyrus)
diretto da Terry Richardson, 2013
Se c’è un’opera che rifonda e dà nuovo ossigeno all’iconic video in questi anni è Wrecking Balls: per come è concepito (da un lato la drammaticità dell’interpretazione contraddice tutto il portato trasgressivo del personaggio, dall’altro il set alternativo mette in campo una nuova provocazione, ma sorretta da una firma “artistica” come quella di Richardson), per il modo in cui ha segnato la cultura pop e non solo, perché azzerando completamente i baracconi scenografici delle sue colleghe, Miley Cyrus si mette in gioco in una messa in scena minimale, il video puntando inoltre su una concettualità tanto elementare quanto pregnante. Ecco allora il set alternativo all’esibizione che traduce in termini visivi letterali le espressioni figurate del testo: All I wanted was to break your wall: il muro viene abbattuto dalla palla di demolizione cavalcata da Cyrus; All you ever did was wreck me: su quelle macerie è la donna a piangere e disperarsi. Ma l’artista, che dondola sulla palla, è nuda. La popstar, che usa il martello per abbattere le resistenze dell’amato, quel martello lo lecca. Richardson, citando Nothing Compares 2U (Sinead O’ Connor, diretto da John Maybury, 1990). conduce il video verso un esito limite che sollecita e fomenta l’ipocrisia di quel pubblico che, disapprovando sdegnato, lo viralizza il clip e, confrontandosi con l’immagine della popstar, opponendosi ad essa, indirettamente la consacra. Qualche settimana dopo l’uscita del video ufficiale (immediato oggetto di attenzione mediatica spasmodica e di molteplici parodie) viene pubblicato un director’s cut costituito dall’integrale ripresa, in piano sequenza e a camera fissa, della performance in close up.

Hotline Bling (Drake)
diretto da Director X, 2015
Non si diventa istant-classic per caso: in Hotline Bling l’attenzione è concentrata sull’esibizione di Drake e sulla sua ironica danza (meme immediato, in mille salse). E poi impossibile non rimanere affascinati dall’apparato scenografico con gli imprendibili spazi totali, tra luci e colori, in odore di James Turrell – Director X nega (l’evidenza) -. E dall’armonia con la quale tutto si amalgama, senza le forzature e i comparti stagni tipici dei promo di categoria. E se, come accade, hai voglia di rivederlo senza sapere perché, allora il video ha davvero vinto.

Beauty and a Beat (Justin Bieber feat. Nicki Minaj)
diretto da Jon M. Chu, Justin Bieber, 2012
L’hype del video sotto mentite spoglie: il furto del laptop di Justin Bieber con conseguente sfogo della popstar sul web a cui seguì l’epifania di un account twitter anonimo il cui titolare dichiarava di essere in possesso del materiale sottratto. La conclusione: l’ultimatum per la riconsegna del maltolto corrisponde alla data dell’uscita del clip e la sua diffusione allo svelamento della finzione.
Beauty and a Beat è presentato come parte dell’archivio video contenuto nel portatile della star, quindi connesso disordinatamente ad altri filmati. Ed è una parziale autoripresa in fintissimo pianosequenza che mostra l’artista mentre si diverte con gli amici a un party in piscina (o è un flashmob?). Nella sua parvenza di lavoro improvvisato e di basso profilo, si rivela, al contrario, un congegno-kolossal studiatissimo (i ballerini, le coreografie di nuoto sincronizzato, l’apparizione della sempre prodigiosa Minaj) con trionfo-selfie finale. Un precipitato d’epoca.
Jon M. Chu, regista, tra l’altro, dei due film sul canadese (Never Say Never e Believe), si imporrà nei cinema col successo planetario di Crazy & Rich.

Digital Witness (St Vincent)
diretto da Chino Moya, 2014
Quanto mi piaceva Chino Moya: che fine ha fatto? La stilizzata avant-garde di St Vincent fa eco, lo stesso anno, con l’esplosione glamour di Froot per Marina (allora ancora con The Diamonds).

Green Light (Lorde)
diretto da Grant Singer, 2017
Rendere protagonista del video la performance: l’esibizione ne diventa l’oggetto, non il genere. In questo senso potrebbe essere un lavoro concettuale, perché l’energia, l’espressività, il movimento costituiscono gli oggetti di una messa in scena in cui è un’identità artistica a dichiararsi. E il brano lo strumento che giustifica la messa a nudo. Così Lorde, trapassando i diversi livelli – realistici e finzionali: il viaggio in auto è un trip, i contesti virano in scene da musical (il pianista nella toilette) -, è costante, significativo centro dell’attenzione. Potente (e con Kate Bush nel cuore).
Sempre diretto da Singer, Perfect Places.

Barcelona (George Ezra)
diretto da Ben Reed, 2015
L’adorato Ben Reed zooma in avanti e trova George Ezra nella vegetazione: la centratura perfetta nega il caso e sfiora la coreografia. L’originalità “vola” e non dipende dal budget.

Hello (Adele)
diretto da Xavier Dolan, 2015
qui

Cranes in the Sky (Solange)
diretto da Alan Ferguson, Solange Knowles, 2016
Sfilata di consapevolezza femminile con una bella sventagliata di stili, in set statici en plein air e indoor di elegantissima concezione (l’art direction è di Carlota Guerrero). Il video fa il paio col precedente (stessa accoppiata – Solange & consorte – in regia) Don’t Touch My Hair. Un manifesto arty del black female empowerment che ha nella sorella Beyoncé la prima portabandiera.

Lazarus (David Bowie)
diretto da Johan Renck, 2016
Video-testamento, Lazarus (come Blackstar, la definitiva chiusura dell’epopea dell’astronauta Major Tom, di cui viene recuperato il teschio) da oggetto oscuro, con la morte di Bowie, sembra illuminarsi di senso, svelando la sua portata di teatrale congedo (l’abito a strisce: uguale a quello indossato dal musicista nel servizio fotografico del 1975 in cui disegnava l’Albero della Vita; il finale in cui Bowie affida il suo corpo all’armadio-sarcofago, chiudendone l’anta), lascia annichiliti per la lucidità del disegno che sottende (consegnare al pubblico l’atto finale di una vita concepita come opera d’arte).

Want You Back (Haim)
diretto da Jake Schreier, 2017
Pianosequenza che teorizza
a) sull’esibizione in clip, negandone la base (il lip sync della prima voce), ma esaltando gli elementi di contorno;
b) sulla coreografia, che non è solo una cornice, ma descrive e accompagna i suoni e il ritmo del brano.
Come fare di una canzone e i suoi elementi il centro del lavoro, aggirando i fondamenti del tradizionale video performance, eppure rimarcandoli tutti.

IDGAF (Dua Lipa)
diretto da Henry Scholfield, 2018
La lotta interiore tra un lato debole e un lato forte della personalità della protagonista (è l’orgoglio in gioco) è realizzata sdoppiando Dua Lipa e il suo corpo di ballo: le opposte istanze emotive vengono rappresentate come due squadre che si fronteggiano. Fino al momento della conciliazione suggellata da un bacio. Alla concezione del video ha partecipato anche il duo creativo Mosaert (Paul Van Haver/ Stromae e Luc Junior).
Tra i più cliccati del 2018.

Make Me Feel (Janelle Monáe)
diretto da Alan Ferguson, 2019
Accoppiata da sempre affiatatissima quella Ferguson/Monáe che qui gioca su neon colorati e motivi princiani (il video di Kiss, nella parte del set coreografico – omaggio doveroso al folletto che al disco ha messo l’ultimo zampino -).

Anaconda (Nicki Minaj)
diretto da Colin Tilley, 2014
Un concentrato di quella che veniva considerata la volgare cultura del tempo: talmente strategico nel suo ammicco sessuale e perfetto nel suo campionario di figure e situazioni, da divenire una sorta di simbolo d’epoca. C’è tutto e all’ennesima potenza. E Nicki al suo meglio.
L’anaconda non è un serpente, direbbe Rettore…
All’epoca si evocava PornHub, oggi ambisce al museo.
Da The Pinkprint, il capolavoro di Minaj.

Marry The Night (Lady Gaga)
diretto da Lady Gaga, 2011
Epitome dell’immodestia marca Gaga: la Lady si dirige in questo presuntuoso atto di fiducia in se stessa – l’ennesimo strabordante clip (14 minuti) – e narra del giorno più brutto della sua vita (quello in cui fu messa alla porta da una casa discografica), rivissuto come un incubo manicomiale. Palloso e irresistibile, capolavoro e paccottiglia. Scrisse acutamente Michael Cragg sul Guardian: «Le superstar sono al loro meglio quando hanno simultaneamente coscienza e incoscienza del loro essere ridicole». Fotografia di Darius Khondji, ché mica si scherza. Sintesi dell’ultimo rigurgito baracconante che da Alejandro (diretto da Steven Klein) a Born This Way (Nick Knight), benedicente l’ispirante nemesi Madonna, sfiorato lo sberleffo in salsa porno (il clip di Do What You Want, diretto da Terry Richardson, mai pubblicato ufficialmente), perverrà all’ultimo travestimento possibile, quello acqua e sapone dell’album Joanne in cui Gaga si spoglia di ogni teatralità esasperata: una nuova narrazione non meno studiata (dirigono Hogben e Gelardin, parte della factory di Nick Knight), ma che predica il ritorno alle radici familiari e un’ispirazione sincera. L’autenticità come ennesima trovata? Forse, ma funzionerà.

Lights Up (Harry Styles)
Diretto da Vincent Haycock, 2019
Si rimpiange (o si sogna) la voluttà orgiastica del contatto con l’altro. Nel mentre, in parallelo e tra quattro pareti, si vive la solitudine dell’artista e visioni suicidali. Anni che un clip non si focalizzava così ossessivamente sul corpo di una star e sulla sua messa a nudo come offerta di sé alle cupide brame dei fan (dal teorico e semidefinitivo Rock DJ di Robbie Williams, diretto nel 2000 da Vaughan Arnell?). Harry non distingue tra uomini e donne, si propone tangibile e fluido (il video esce alla vigilia del Coming Out Day) lanciando, secondo le logiche anni 80, un iconic video da manuale. Clip di cui, coerentemente, non vengono diffusi i crediti perché il regista sarebbe, come 30 anni fa, solo un valletto dello star-system. Ma siamo pur sempre nel 2019, così Haycock (uno che allo status di autore ci ha sempre creduto e che l’ha rivendicato, anche polemicamente, in più occasioni) accetta solo dietro director’s cut concordato.

Give Me All Your Luvin’ (Madonna feat. M.I.A., Nicki Minaj)
diretto da Megaforce, 2012
La massima videocarriera della Storia alle prese con un decennio in tono fisiologicamente minore. Ma con alcuni lampi: questa collaborazione con Megaforce, per esempio. Interessante perché rappresenta l’ennesima riprova che Madonna ha continuato a dettare le sue videoregole e che per lei autorialità significhi, come negli 80, sostanziale messa a servizio (svendita? Resa incondizionata?) di una poetica registica alle ragioni del suo personale mondo artistico. Così non sorprendono le puntualizzazioni del collettivo («Non avevamo previsto di includere le scene in cui balla di fronte al muro, ma lei ha insistito. Pensiamo che questo uccida la narrazione, per cui il montaggio finale non rappresenta più la nostra visione. È la sua. Era impaziente e voleva che tutto ruotasse intorno a lei, questo è quanto»), né l’imposizione del fidato David Tull al montaggio. Né il fatto che, alla prova del tempo, questo clip dimostri una freschezza e un brio che farebbero la gioia della quasi totalità dei performativi in circolazione adesso.
Per il resto, posti un paio di Åkerlund super (Bitch I’m Madonna e God Control), va messa a verbale la generale sottovalutazione di Medellín, diretto da Diana Kunst e Mau Morgó, prova ultima che la classe non è acqua.

 

COREOGRAFICO

Il decennio in cui esplode il coreografico: la danza non come semplice contorno di una performance, ma come elemento cardine che si associa a un concetto o a una narrazione, prescindendo dalla star. Dieci fulgidi esempi.

Wide Open (The Chemical Brothers feat. Beck)
coreografia di Wayne McGregor
diretto da Dom & Nic, 2016

Century (Feist)
coreografia di Noemie LaFrance
diretto da Scott Cudmore, 2017

New Rules (Dua Lipa)
coreografia di Teresa Barcelo
diretto da Henry Scholfield, 2017

I Will Fall For You (Sidi Larbi Cherkaoui & Woodkid)
coreografia di Sidi Larbi Cherkaoui
diretto da Sidi Larbi Cherkaoui & Yoann Lemoine, 2017

Singularity (Jon Hopkins)
coreografia di Hofesh Shechter
diretto da Seb Edwards, 2018

Stay Awhile (She & Him)
coreografia di Lisa Eaton
diretto da CANADA, 2014

Man On Fire (Edward Sharpe & The Magnetic Zero)
coreografia di AAVV
diretto da Brady Corbet, 2012

Say Say Say [2015 Remix] (Paul McCartney and Michael Jackson)
coreografia di Ryan Heffington
diretto da Ryan Heffington, 2015

Shaky Hands (Foxtrott)
coreografia di Wynn Holmes
diretto da Kevin Calero, 2015

Never Catch Me (Flying Lotus feat. Kendrick Lamar)
coreografia di Keone Madrid e Mari Madrid
diretto da Hiro Murai, 2014

LONG, CICLI

Scene from The Suburbs (Arcade Fire)
diretto da Spike Jonze, 2010
La placida constatazione delle scorribande  di alcuni ragazzi in bici, in giro per i sobborghi cittadini assolati (siamo ad Austin, Texas), viene smentita dall’inquietante presenza di poliziotti, ronde armate, mezzi militari; la violenza “giocata” dai ragazzi di giorno si converte in dramma reale con l’arrivo delle tenebre: il mutamento di atteggiamento dei protagonisti asseconda il corto circuito delle due tranche, con la città in stato d’assedio.
L’adolescenza alle prese con lo spettro della vita adulta: lo sguardo di Jonze riesce sempre a rovesciare il senso palese delle cose osservate e delle canzoni illustrate, a mostracene l’altra parte, il loro lato più nascosto, indifeso o inquietante.

Tropico (Lana Del Rey)
diretto da Anthony Mandler, 2013
Affresco vaneggiante che propone una cacciata dall’Eden di due novelli Adamo ed Eva, e che mescola – nella sovraccarica narrazione – iconografia religiosa, mitologia americana, riferimenti alla pop art e alla controcultura, il tutto nel prepotente trionfo di una imagery fiorita che satura coscientemente il registro visivo di un Anthony Mandler sfrenatissimo. Lana collabora e benedice.

Liberato
video diretti da Francesco Lettieri, 2018
Progetto che si pone decisamente al di fuori dalle consolidate logiche della videomusica nostrana: l’anonimato dell’artista ha creato una grande attenzione in rete, rendendolo un fenomeno virale; così, come di rado accade dalle nostre parti, musica e video – che si legano fortemente a una cultura e a un territorio – viaggiano parallelamente.

Palo Santo (Years & Years)
diretto da Fred Rowson, 2018
vedi qui

Hey Jane (Spiritualized)
diretto da AG Rojas, 2012
Un cortometraggio (dieci minuti – gli ultimi sei in un pianosequenza) che diventa distillato di poetica, condensato di stile e manifesto di intenzioni: camera a mano, narrazione in primo piano, nessuna effettistica, nessuna estetizzazione.

The Odissey (Florence + The Machine)
diretto da Vincent Haycock, 2016

Bloodsports ‘15: Pt. 1 Pt. 2 (Raleigh Ritchie)
diretto da Shynola, 2015

Darkest Before Dawn (Pusha T)
diretto da Kid Art, 2015

Lemonade (Beyoncé)
diretto da AA.VV., 2016

M A N I A (The Weekend)
diretto da Grant Singer, 2016

I Am Easy To Find (The National)
diretto da Mike Mills, 2019

TOP 50
prima parte (da 50 a 41)

#50
Gengis Khan (Miike Snow)
diretto da Ninian Doff, 2016

Omaggio al Bond-movie dell’era Connery che inverte le logiche narrative e di genere (inteso anche come sesso) della saga. Il villain di turno, frustrato dalla sua vita familiare, va a convivere con lo 007 che stava per uccidere. La spy story si traveste da musical camp.
Vince nelle categorie pop video e fotografia agli UK Music Video Awards, Ninian Doff è regista dell’anno.

# 49
New York City (Joey Ramone)
diretto da Greg Jardin, 2012

Il frame to frame di Jardin non si risolve soltanto in un ritratto della metropoli, offerto attraverso una molteplicità di luoghi e prospettive, con l’illusione di un costante movimento in avanti che va a perlustrare strade e luoghi, ma propone anche una verosimile enciclopedia umana (115 persone, tra artisti, passanti, homeless, negozianti, con alcuni cameo “musicali”), un attendibile catalogo di fauna newyorkese pronto a stare al gioco di un pirotecnico percorso nello spazio e nel tempo (si passa dal giorno all’imbrunire, dalla notte e ancora al giorno) che, aperto da Mickey Leigh, si conclude, dopo un omaggio al glorioso passato del fratello scomparso (i pannelli mostrati sul ponte di Brooklyn che riportano ulteriori foto in successione di esibizioni concertistiche d’antan di Joey Ramone) con il musicista nella subway: la metropolitana infila la galleria (puntando a Forest Hills, Queens, da dove i fratelli Ramone provengono) e l’obiettivo viene coperto.

# 48
Daydreaming (Radiohead)
diretto da Paul Thomas Anderson, 2016

Nel miglior videoclip di Paul Thomas Anderson, Thom Yorke, prigioniero del suo sogno, continua ad aprire porte e ad entrare in luoghi diversi. Il finale pare dirci che lui è un homeless, che vaga invisibile (anche metaforicamente) a chiunque.
Ma è un clip volutamente ambiguo, non a caso divenuto oggetto di sfrenata interpretazione da parte dei fan che hanno scandagliato ogni fotogramma considerando i soggetti coinvolti, gli arredi, i quadri, gli oggetti presenti e, nei diversi ambienti, le situazioni in atto. Le ipotesi più accreditate parlano di una rappresentazione simbolica della separazione tra Yorke e la sua compagna (scomparsa, dopo lunga malattia, proprio nel dicembre 2016): le porte sono 23 come gli anni della relazione, i contesti e circostanze potrebbero essere altrettante rivisitazioni di momenti della loro vita in comune – la ricorrenza di madri con bambini -; l’ultima scena del video (nella caverna) vede Yorke pronunciare due frasi in reverse (Half of my life, Half of my love) che confermerebbero la lettura sentimentale, a cui si aggiunge quella di un itinerario all’interno del passato grafico della band. Più altre mille possibilità.
Non importa quanto ci sia di vero, ma è questo che un video deve fare: sollecitare letture, suscitare passioni, essere rivisto.

# 47
Surf (Tommy Cash)
diretto da Tommy Cash, 2017

Tommy Cash è sempre straordinario nel combinare la provocatorietà delle situazioni all’estremo rigore della messinscena, tra i luoghi/topoi esplorati (quelli del porno: le sue situazioni, le sue figure) e l’immaginario di riferimento (la fotografia arty), con un umorismo che, tra le prurigini, suona quasi innocente.

# 46
We Found Love (Rihanna feat. Calvin Harris)
diretto da Melina Matsoukas, 2011

Nell’intenso incipit Rihanna parla del malessere legato alla storia d’amore finita, mentre si alternano i tristi ritratti attuali di lei e del suo boyfriend (interpretato dall’attore e modello Dudley O’Shaughnessy) a frammenti provenienti del passato prossimo. Le memorie felici della coppia spaziano in tempi e luoghi diversi, punteggiate dalla performance di Rihanna che canta il brano in una stanza, appoggiata a una parete sulla quale vengono proiettate immagini suadenti di nuvole, fiori in boccio, campi rigogliosi. Il cambio di marcia del brano, con il crescendo chimico, è reso da un time lapse che comprime visioni fulminee di un amplesso, la brace di uno spinello (come un arcobaleno acido) e il dettaglio sulla pupilla che si dilata. Siamo ad un DJ-set di Calvin Harris in mezzo al fango, con la folla che danza e si scatena. È il turning point del video: le proiezioni sulla Rihanna performante si trasformano in parallelo, diventano fuochi e fiamme metaforici che incendiano una casa: tutto si avvia alla catastrofe.
Senza ricorrere a elaborate scenografie (il video è girato a Belfast, quasi tutto in luoghi pubblici, seguendo il verbo del dominante docudrama), Melina Matsoukas colleziona una serie di stralci narrativi tanto semplici quanto persuasivi. E riesce a mediare tra l’esigenza di ossequiare la star (la bellezza di Rihanna risplende) con la volontà di non appiattirsi su uno standard laccato, ma su una storia raccontata con stile crudo e vigoroso. La aiutano la fotografia desaturata di Paul Laufer e l’interpretazione della cantante, meravigliosamente calata in una parte la cui costruzione non manca di riferimenti alla sua vita (la burrascosa relazione con Chris Brown).

# 45
Night Owl (Metronomy)
diretto da Quentin Dupieux, 2016

Realtà contro apparenza: nell’idillio con la Morte dell’ozioso bon vivant l’omicidio diventa, via surreale manichino, un evento di fiction replicabile all’infinito. Gioco di possibilità e allegro vaneggiamento, perverso, un po’ malato: tra cervelli che strisciano e molli atmosfere vacanziere, l’obiettivo primario è disorientare e rendere quel disorientamento riconoscibile, pienamente autoriale.
Nello stesso anno il nichilismo del promo all’intero disco dell’alter ego Mr Oizo, All Wet. Nella sua strafottente rinunciarietà un capolavoro.

# 44
Pelican (the Maccabees)
Diretto da David Wilson, 2011

Al lavoro sempre per commissioni di prestigio (Arcade Fire, Arctic Monkeys, John Grant, Tame Impala, Metronomy), David Wilson ha imposto un’opera personalissima che alterna lavori dominati da visioni fantasiose in libertà (la prediletta animazione) a narrazioni solo in apparenza tradizionali. Da una videografia varia e intelligente scelgo questo fuoco di fila di figure (oggetti e persone) spaccati in due, una semplice idea visiva che sembra guardare allo stile di Jim Blashfield e che intende risolversi in un primitivo loop dal ritmo stordente. Un repeat ossessivo che ipnotizza lo spettatore e si appiccica alla perfezione allo splendido brano dei Maccabees.

# 43
Hard Rain (Lykke Li)
diretto da Anton Tammi, 2018

La fine di una storia d’amore raccontata in flashback, per frammenti, visioni da prospettive sghembe, insistendo su alcune immagini metaforiche che stilizzano l’ambiguità (lui, dietro il vetro smerigliato, infine sparisce). In un’estasi stuporosa si ammicca a un erotismo dissolto, fattosi sogno o ricordo, tra specchi d’acqua e incanti naturalistici.
C’è stile, c’è dramma. E un regista con le idee chiarissime che sa sempre cosa guardare.
Lykke Li è creative director.

# 42
True Loves (Hooray for Earth)
diretto da Young Replicant, 2011

Primo video di Young Replicant dopo il grande successo di Lovely Bloodflow per i Baths, True Loves appare, al pari del precedente, come un’incursione in una narrazione a scatole cinesi e senza precise coordinate temporali: presente, passato e futuro si riveleranno legati da uno stretto legame di prefigurazione. Rappresentazione simbolico-allucinata di un rapporto amoroso in cui reali non sono le figure né le dimensioni che abitano, ma gli stati emotivi: in questo caso il senso di colpa, che fa coincidere l’oggetto del proprio desiderio con ciò da cui si tenta di fuggire.
Al di là delle possibilità ermeneutiche, quel che conta è come il complesso dei possibili significati passi in second’ordine rispetto al risultato, somma felice di tutti gli elementi: l’atmosfera sospesa, l’enigmaticità degli accadimenti, il gioco sofisticato delle corrispondenze interne, la disinvolta struttura narrativa che pone, fin dall’inizio, i personaggi nel vivo di un’azione, come se vedessimo il frammento di un film di cui non conosciamo le premesse. Il risultato abbaglia per il rigore, l’onirismo sottile, l’alto tasso di inventiva visionaria (l’uso dei colori, le luci sfumate, gli scenari incantati).
Video decisivo per Young Replicant, non solo perché consolida una prassi e uno stile originali che ritroveremo, pressoché invariati, in molti dei promo a seguire, ma perché ne rappresenta al meglio le istanze fondanti e ne costituisce, a tutt’oggi, il condensato più equilibrato e persuasivo.

# 41
Pyramids (Frank Ocean)
diretto da Nabil, 2012

Terzo capitolo della collaborazione di Nabil con Frank Ocean.
Per un brano di durata abnorme, piazzato all’esatto centro della tracklist del best seller Channel Orange e di cui il video (pur durando otto minuti) riporta solo la seconda parte, Nabil confeziona un clip in grande stile, virato ancora su toni cinematografici, in cui, a stretto giro da Novacane, si torna a vivere una girandola di mollezze attraverso la lente deformante dell’allucinazione. L’assenzio iniziale (quattro shot uno dopo l’altro) che stravolge la percezione della realtà e porta agli illogici colpi di pistola contro il bancone del bar, nel lungo prologo che precede l’inizio della canzone, detta allora le regole per una corretta ricostruzione del racconto: lo strip club (il Pyramid, appunto) è il luogo della dolorosa memoria in cui si galleggia al rallentatore, tra corpi in vendita e dollari sparsi ovunque, sagome e fisionomie stravolte. È tutta un’allucinazione perversa: nel presente (il livello sancito dal prologo, in cui Ocean esce dal bar in stato confusionale e inforca la moto) si sta viaggiando nel deserto, ancora avvolti nello stesso torpore psichedelico. L’intermezzo strumentale (l’assolo di chitarra di John Mayer in notturna, di fronte a una piramide al neon) segna il definitivo passaggio dal livello del ricordo fantastico a quello del presente, con Ocean proteso verso il miraggio di un’altra piramide impossibile.

Seconda parte

Terza parte

Quarta parte