Video

VIDEO DELL’ANNO 2017/2

I venti videoclip del 2017, i registi, i commissioning artist e altre amenità videomusicali.

# 20

tonight (LCD Soundsystem)
diretto da Joel Kefali
Joel Kefali (dopo l’esperienza Special Problems) ha messo insieme un percorso solitario di alto livello, culminato nel video di Lorde Royals (di cui la prima versione, prima che intervenisse un montaggio che, visto il successo del pezzo, mettesse in maggiore evidenza la cantante, resta un capolavoro). Non sorprende che gli LCD Soundsystem da sempre attentissimi al loro percorso videografico – tra i più trasversali e imprevedibili del nuovo millennio – siano pervenuti a una collaborazione. E lo fanno imponendo la loro maniera: una performance tutta concentrata in una pedana rotante, come in una sorta di cronaca in diretta di quanto sta accadendo nel brano musicale con intarsi metaforici (le figure fisse all’interno del set) e una patina ottantesca (che è must tendenziale, basti pensare al bellissimo video di Go Deeperche si è diretto Samantha Urbani) che è nel registro visivo e nella stessa presenza di quel mangianastri al quale James Murphy consegna le sue parole. Massimo consapevolezza e lucida concezione, è il marchio del gruppo al quale Kefali regala la sua incisiva macchina da presa.

# 19

Immigrants (The Hamilton Mixtape) (K’naan featuring Residente, Riz MC & Snow Tha Product)
diretto da Tomás Whitmore
Vibrante rappresentazione del dramma dell’immigrazione attraverso un viaggio emblematico, che sintetizza tragedia e paradosso di un’umanità perennemente instabile. Fulgida e mai retorica galleria di situazioni e personaggi, messa in scena come flusso di pittorici frammenti: esibizione di declamazione finalmente motivata, concetto in divenire, storie solo accennate perché tristemente note. Tomás (/Mister) Whitmore continua a pensare la videomusica in termini cinematografici.

# 18


Parentesi (Meg)
diretto da Uolli
Se c’è una via originale al videoclip italiano passa da un lavoro come questo, che nasce da una visione tanto moderna quanto morale, fondata su un uso consapevole, e non puramente opportunistico/trendy, delle tecniche prescelte, in cui ogni aspetto della messa in scena risponde a una logica precisa e non all’ossequio di una formula, alla tentazione di un ammicco. Senza fare paragoni scomodi, ma solo per rendere l’idea: quello che ieri faceva Michel Gondry e oggi fanno registi come Oscar Hudson e Virgilio Villoresi, che danno alla luce mondi in cui creazione e metodo, invenzione e strumento sono uniti verso un unico poetico obiettivo.
Uolli ribadisce la sua cifra analogica e artigianale (ma non per questo ingenua, anzi – il ricorso alla tecnica delle wiggle gif anziché all’animazione passo uno -) e dà una veste visiva alle sonorità elettroniche del brano di Meg, le cui caratteristiche dettano letteralmente i canoni della rappresentazione: quindi scenografia asettica, look retrofuturistico, cromatismi spiccati. Le fantasiose dimensioni esplorate attraverso il visore sconfinano nel primo set (le piante, le palline) e sovrappongono i livelli. Nessuna effettistica digitale per rendere questo sconfinamento, ma il ricorso a una meccanica ludica (l’aria che fa sollevare le palline, come nel vecchio gioco delle pipe) che è ulteriore sviamento temporale.
Vedi anche Videostar, FilmTv n. 28/2017

# 17

 

Captains Ship (Sasha & the Bear)
diretto da Roy Raz
Nel nugulo di video anti-Trump (espliciti, velati, militanti) questo sbaraglia il campo per la sottigliezza del costrutto, l’efficacia della narrazione, la forza simbolica. La questione di come il messaggio violento del presidente USA lavori sulle coscienze è resa attraverso l’esposizione di un processo, un rapporto a due che da sentimentale si fa decadente e infine tragico e melodrammatico.
Roy Raz è un campione di stile, trova sempre la perfetta misura nell’applicare le sue invenzioni visive alla sostanza di ciò che intende mettere in scena.

# 16


Gotta Get A Grip (Mick Jagger)
diretto da Saam Farahmand
La discoteca come il mondo privilegiato e gli avventori esclusi come immigrati a cui è precluso l’ingresso. Dentro è tutto danza, alcool, bagordi, all’esterno c’è la lotta per superare le barriere e aggirare i buttafuori, mentre alcuni giovani (eccoli i clandestini) sono riusciti a nascondersi nelle toilette. Saam Farahmand imprime a questa apocalittica rappresentazione simbolica il suo riconoscibile marchio visivo: orgia di corpi in movimento, sarabanda di dettagli, ralenti, superba resa fotografica. Con Jemima Kirke.
Abbinato al meno interessante Lost in England (con Luke Evans), diretto dallo stesso regista: ottima la fattura, ma narrazione debole.

# 15


How Did We Get So Dark? (Royal Blood)
diretto da The Sacred Egg
Un finto mystery realizzato da dio, che ridicolizza tanta videomusica simbolista e fuffosa, che gioca con un genere riconoscibile svilendolo proprio laddove potrebbe ossequiarlo. Più che un punto interrogativo (e l’orgia di interpretazioni possibili è sempre animata, come da intenzione del collettivo – il coniglio è l’anima? -), una gigantesca, ridanciana presa per il culo, che sovverte le aspettative (chi sono i buoni, chi sono i cattivi) e ci tiene col fiato sospeso per poi legittimare, nel finale apertissimo, qualsiasi impropero. So Dark.

#14

 

 

 


Surf
(Tommy Cash)
diretto da Tommy Cash
Tommy Cash è sempre straordinario nel combinare la provocatorietà delle situazioni all’estremo rigore della messinscena, tra i luoghi/topoi esplorati (quelli del porno: le sue situazioni, le sue figure) e l’immaginario di riferimento (la fotografia arty), con un umorismo che, tra le prurigini, suona quasi innocente.

 

 

# 13

 
Pleader (alt-J)
diretto da Isaiah Seret
Un bellissimo ritorno alla videomusica per uno dei più personali e ispirati narratori degli ultimi anni. La storia, solo in apparenza enigmatica (vedere e rivedere…), nasce da un’idea di Joe Newman, il chitarrista del gruppo, sviluppata da Seret in un lavoro che si ispira, come il brano, al romanzo Com’era verde la mia valle e a Sacrificio, il film di Andrej Tarkovskij.
Siamo in un villaggio di minatori gallese che sembra essere destinato, per un’oscura maledizione, a essere distrutto. Per evitarla il consiglio decide di far dare alla luce un figlio a una donna che sembra dotata di poteri sovrannaturali: essendo suo marito sterile, la si fa accoppiare con un altro uomo. Ma la nascita del bambino non impedisce la catastrofe: un meteorite cancella il villaggio. Il bambino, unico sopravvissuto, è allevato in un collegio dove è vessato per le sue umili origini. Sorretto dal pensiero del luogo natio, proprio attraverso quel canto che apparteneva alla sua gente – che, raccolto in una registrazione, verrà cantato dal coro scolastico – preserverà il ricordo di una civiltà («How green, how green was my valley?/ To be told of such hills/ To be held in such spots/ To behold such warmth/ Call to arms these harmonies!»).
Seret conferma il suo debole per i racconti ambientati in piccole comunità, soggette a regole e a logiche che rimandano ai concetti di ordine e autorità. In questo caso fa snodare la vicenda portandola fuori dal microcosmo iniziale, seguendo il percorso del protagonista fino alla ricongiunzione con le sue origini. E lo fa con un promo che ha il respiro di un cortometraggio, soffermandosi sui dettagli (il lavoro in miniera), restituendo le caratteristiche di un ambiente e dando alla canzone rilievo diegetico, associandovi sentimento e forza evocativa. Incorporandola nell’opera con naturalezza commovente (vedi anche Videostar, Film TV n.48/2017).

# 12


Chained To The Rhythm (Katy Perry)
diretto da Mathew Cullen
Il sodalizio Katy Perry – Motion Theory si rinnova. Al quarto capitolo (il primo e il terzo ancora con la regia di Cullen, il secondo diretto da Grady Hall e Mark Kudsi) l’intesa con la compagnia californiana partorisce un nuovo universo riconoscibile come la giungla kiplinghiana di Roar o l’antico Egitto disneyano di Dark Horse (in tutto quattro miliardi e passa di view), ma sottilmente inquietante e sotto il quale ribolle una vena esistenzialista.
Dietro l’apparente gioiosità di un luna park fatto di attrazioni colorate e innovative, sponsorizzato dai Pokémon, si cela la lugubre rappresentazione di una società inquadrata: si chiama Oblivia (come l’arcipelago in cui risiedono molti Pokémon, nome che fa diretto riferimento all’oblio e all’incoscienza) e le sue giostre hanno nomi come The Great American Dream Drop (le sue cabine sono altrettante case perfette in cui le coppie vengono incapsulate) e Love Me (le montagne russe del menage passano attraverso le reaction di Facebook e prevedono punteggi a forma di cuore).
Mentre stormi di persone vagano, ipnotizzate di fronte al proprio tablet, e alcuni individui vengono semplicemente catapultati fuori dai confini del parco, a turno, come criceti in gabbia, gli avventori corrono su una ruota garantendo l’energia-lavoro al sistema. E la sera ci si riunisce davanti al grande schermo per vedere lo straordinario spettacolo in 3D, A Nuclear Family, in cui una famiglia modello, nel suo borghesissimo salotto, rispetta tutti i luoghi comuni conservatori: di fronte al gigantesco televisore la moglie stira, il marito legge il giornale, la bambina disegna, mentre il pubblico si muove in perfetta, catatonica sincronia, a ritmo con la musica. È in quel momento che la sempre più titubante Perry ha il suo momento di illuminazione, che corrisponde, ovviamente, al featuring rivelatorio di Skip Marley che esce dallo schermo, a lei solo visibile, e afferma che il tempo per l’impero sta scadendo e che il momento della rivoluzione è vicino. È solo un attimo, poi si riprende con il tran tran obnubilante nel quale Katy si agita chiedendo attenzione. Quando sarà il suo turno di far girare la ruota deciderà di fermarsi. Il suo sguardo, consapevole della gravità del gesto, chiude il video.
Non c‘è rosa senza spine: nel mondo colorato di Katy Perry si è aperta una crepa, il tempo dei sogni vira verso l’incubo, lo spettro trumpiano si è allungato fino alla porta della sua favola. Altro che Black Mirror.

# 11


Green Light (Lorde)
diretto da Grant Singer
Rendere protagonista del video la performance: l’esibizione ne diventa l’oggetto, non il genere. In questo senso potrebbe essere un lavoro concettuale, perché l’energia, l’espressività, il movimento costituiscono gli oggetti di una messa in scena in cui è un’identità artistica a dichiararsi. E il brano lo strumento che giustifica la messa a nudo. Così Lorde, trapassando i diversi livelli – realistici e finzionali: il viaggio in auto è un trip, i contesti virano in scene da musical (il pianista nel bagno) -, è costante, significativo centro dell’attenzione. Che potenza.
Sempre diretto da Singer, Perfect Places.

# 10


Hear My Pain Heal (Sevdaliza)
diretto da Ian Pons Jewell
Siamo ormai abituati alle enigmatiche visioni di Ian Pons Jewell: quest’anno ce ne ha regalata una particolarmente fascinosa, girata a Milano, con quello che è ormai il suo fedelissimo DoP, Mauro Chiarello.
La lenta immersione in una casa ci mostra la morte dell’amato (la faccia oscurata per renderlo privo di identità, quasi un archetipo), il suo inquietante passato che torna a galla e riabita le stanze, l’anima ancora viva nel suo petto, la celebrazione del suo ricordo (la danza di Sevdaliza con le scarpe dell’uomo).
Tutto viene trasposto in una chiave visionaria, con un ruolo prioritario e simbolico attribuito alla luce e la consueta, miracolosa sinestesia tra immagini e suoni, quel consegnare le logiche del girato al beat, legando imprescindibilmente quanto vediamo a quanto stiamo ascoltando. Ecco, nel suo far coincidere l’ambientazione scenica con il paesaggio sonoro, Ian Pons Jewell ha raggiunto una maturità espressiva impressionante, colmando quel vuoto che un maestro come Martin De Thurah, sempre meno presente nel campo, ha lasciato in questi anni.

# 9

Lust For Life (Lana Del Rey feat. The Weeknd)
diretto da Rich Lee
Focus

# 8


Rest (Charlotte Gainsbourg)
diretto da Charlotte Gainsbourg
Il 2017 di Charlotte Gainsbourg è all’insegna delle inedite attività: così, al ruolo di autrice (la collaborazione alla scrittura dei brani del nuovo album) segue quello di videomaker. Gainsbourg aveva chiesto a Lars von Trier di girare i clip, ma il danese ha cortesemente declinato, suggerendole di girarli da sola e regalando all’artista un nuovo dogma da seguire per ognuno dei promo. Il risultato è, al momento, di cinque superbe prove in cui è Rest a dominare: mentre l’artista compone il brano, vediamo le immagini- collegamenti mentali che corrispondono a ciascuna delle frasi del testo. Così il momento in cui Gainsbourg canta non c’è mai, ma ci sono frammenti, noti e privati, che rappresentano l’idea visiva e la sensazione legate a una frase o una parola.
Il risultato è una felice composizione di ricorrenze concettuali che attraversa le epoche, un emozionante patchwork di ritagli sentimentali che rendono visibile, traducibile in figure, un percorso intimo.
Gli altri clip (meriterebbero un trattato ciascuno) sono tutti deviati e sofferti omaggi a se stessa: Deadly Valentine (con le due figlie) Ring-A-Ring O’ Roses (in cui c’è uno sdoppiamento e rispecchiamento nel figlio), Lying With You (ambientato nella casa paterna, in un’escursione freudiana nel passato). E Les Oxalis: il canto rivolto alle persone perdute risuona nel cimitero di Montparnasse in cui, oltre al padre Serge, è sepolta sua sorella Kate (la foto di Charlotte che vediamo sulla tomba era stata scattata da lei). E vira in allucinatorio – e metaforico – errare e perdersi nel deserto («Take one is over/ Bid adieu to you old sister/ Under cover/ Going sober/ Over and out»).
Vedi Videostar, Film Tv n. 46/2017

# 7


Want You Back (Haim)
diretto da Jake Schreier
Pianosequenza che teorizza
a) sull’esibizione in clip, negandone la base (il lip sync della prima voce), ma esaltando gli elementi di contorno;
b) sulla coreografia, che non è solo una cornice, ma descrive e accompagna i suoni e il ritmo del brano.
Come fare di una canzone e i suoi elementi il centro del lavoro, aggirando i fondamenti del tradizionale video performance, eppure rimarcandoli tutti.

# 6


Secrets (The Weeknd)
diretto da Pedro Martin-Calero
Rendere l’architettura protagonista del video: girato alla Toronto Reference Library, Secretsconferma l’occhio di Calero, che predilige il quadro d’insieme (l’uomo è figura nell’ambiente – la sua cifra -) per poi concentrarsi sul dettaglio (gli zoom), fino al significativo, immersivo primo piano, in uno stupefacente caleidoscopio di prospettive sghembe e giochi di forme, esaltati dai geometrici movimenti di macchina. Sempre sfrontato nei riferimenti (ieri le moine godardiane, oggi il giallo all’italiana – Argento, soprattutto – e i funambolismi depalmiani), il video oscilla tra un evidente thriller passionale (uno dei leit motiv della videografia del canadese) e una sottintesa metafora politica (l’ambientazione avveniristica) in quello che, a un primo livello, è un viaggio onirico della donna al centro dell’intrigo (la frase iniziale: «Je fais le même rêve tous les soirs»): un sogno che si traduce in una promiscua fantasia erotica che, forse, rivela a chi ascolta dove alligna la tresca («I hear the secrets that you keep/ When you’re talkin’ in your sleep»).
L’armonia della composizione figurativa di Pedro Martin-Calero detta il mood del clip, lo caratterizza: non solo questione di stile, ma di esercizio cosciente di una capacità fascinatoria che ha pochi confronti nella videomusica contemporanea.

# 5


Czech One (King Krule)
diretto da Frank Lebon
Viaggio aereo e trip visionario, giocato su slittamenti continui di livello: se il taglio visivo pare a bassa definizione, la costruzione dei sensi (e dei set) risulta di tutt’altra caratura. E impressionante è il modo in cui il regista restituisce il vortice allucinatorio nel quale il protagonista galleggia. Facile trovare dei riferimenti (l’asse lucidità-sogno, il confine segnato dal dormiveglia sono territori frequentati da sempre nel videoclip), ma indiscutibile è la personalità dello stile, il modo in cui Lebon lavora sulle immagini, le associa, le combina, le moltiplica, ne isola dettagli all’interno, facendo progredire la storia (c’è una narrazione) e chiudendo il cerchio visionario. Un discorso tecnico gestito magistralmente, e confermato dall’altro gioiello della stagione, Delta dei Mount Kimbie, cronaca cubista di una rapina che si fa inquietante gioco di identità, celando un mystery quasi lynchiano.
Frank Lebon indiscussa rivelazione del 2017.

# 4

 
Territory (The Blaze)
diretto da The Blaze
Clip che, come il precedente (Virile, lo segnalai nello speciale del 2016) assorbe con grande naturalezza quella che è la tendenza principe di questo nuovo millennio videomusicale, il docudrama, fatto di immersione ambientale, descrizione puntuale di contesti e persone che li abitano, piegandolo alla retorica del videoclip e giustificando, nel rispetto delle logiche documentarie, il viaggiare parallelo del brano musicale. Senza la visionaria enfasi di Romain Gavras (pioniere e cantore massimo del genere) o l’eleganza concettuale di AG Rojas, The Blaze trova una via personale al filone intarsiando la cronaca con improvvisi ricami sinestetici e con impennate emozionali (la mdp che pedina il protagonista e allarga lo sguardo all’intera magione), dando l’idea di una coreografia e di una narrazione, ma senza dichiararle con nettezza. Il risultato, nella sua fluidità, evita ogni intellettualismo, arrivando dritto al cuore: circoscrivendo un territorio affettivo che comprende focolare domestico e comunità amicale (e una massa di racconti inespressi), il promo ne restituisce con autenticità toccante momenti di condivisione, lontano dai conflitti, nella piena celebrazione dello spirito libertario che è proprio di un’età. Non solo un ritorno a casa (siamo in Algeria), ma anche la riappropriazione di un istinto, il riconoscimento di uno spazio protetto e la rivendicazione di un’identità.
Grand Prix ai Cannes Lions.
# 3
 
 No Reason (Bonobo feat. Nick Murphy)
diretto da Oscar Hudson
Rivendicare un metodo come marca poetica: Oscar Hudson lo sta facendo con una determinazione e una chiarezza di idee encomiabile. Zbigniew Rybczyński nel cuore, ma ripensato e tradotto in immagini con effetti fisici creati in camera. Nessun intervento in CGI: il tunnel spaziotemporale nel quale precipita l’hikikomori è composto da un’infilata di set realizzati in differenti scale. È una nuova forma di integralismo, un manifesto etico e una modalità di produzione sfidante che si traducono in un video in cui messa in scena e narrazione scorrono nel medesimo alveo.
Qui Oscar Hudson espone la lavorazione del video.
Qui il dietro le quinte.
Vedi Videostar, FilmTv n. 6/2017

# 2


Truth (Kamasi Washington)
Diretto da AG Rojas
Sintomo sano di quello che oggi è diventato il videoclip, col mutare della piattaforma di diffusione principale (la rete): un oggetto che non ha più un format standard, ma duttile, tale da ampliare i percorsi espressivi praticabili e comprendervi anche un lavoro come questo (14 minuti di durata: è nato come installazione museale) che accompagna, col suo flusso immaginifico, il lungo brano di Kamasi Washington. L’anima cosmopolita di Los Angeles palpita in questo perlustrare, inframmezzato dalla “messa in set” di Duke Ellington Session Break, una foto del 1956 di Roy Decarava, con il lentissimo carrello che stringe sulla figura di spalle di Rickey, il padre di Washington, in un suggestivo richiamo alle radici, intime e musicali. La realtà è campionata e consegnata a un tableau simbolico, cristallizzata in sipari frontali e sfondi neutri, interni ed esterni, in ritagli che cantano la differenza e si fanno sublime monito alle frantumazioni e ai conflitti innescati dal Potere.
Un naturalismo lirico quello di AG Rojas, che sa parlare attraverso un dettaglio, una posa o un’espressione rubata e che non diventa mai mera compostezza formale: in queste immagini scorre la vita di un luogo, perché l’occhio che la cattura l’ha conosciuta davvero.
Vedi Videostar, FilmTv n. 16/2017

# 1


Look What You Made Me Do (Taylor Swift)
diretto da Joseph Kahn
Focus sul video.

Altre amenità

 One More Fluorescent Rush (Avalon Emerson)
diretto da Hayden Martin

Qué He Sacado Con Quererte (Guadalupe Plata)
diretto da Raul Lopez Serrano per NYSU

I Know You (North State)
diretto da Yverz

Afterglow (Jacques Greene)
diretto da Mauriès Matos

Golden Dandelions (Barns Courtney)
diretto da Alex Southam

Little Dark Age (MGMT)
diretto da Nathaniel Axel & David MacNutt

Swish Swish (Katy Perry feat. Nicki Minaj)
diretto da Dave Meyers

Swish Swish -lyric – (Katy Perry feat. Nicki Minaj)
diretto da Dario Vetere

Boys (Charli XCX)
diretto da Charli XCX, Sarah McColgan

Mask Off (Future)
diretto da Colin Tilley

XANANAS (M¥SS KETA)
diretto da Simone Rovellini

Trampoline (Papooz)
diretto da Daniel Brereton

Il tempo non ci basterà (Mecna)
diretto da Giada Bossi

REGISTA

Oscar Hudson
Lo segnalai nel 2015 come regista rivelazione dell’anno: da allora ha continuato a inanellare piccoli grandi gioielli, exploit che si rifanno al verbo analogico di Michel Gondry e strutture seriali, che rinviano ancora al francese e, all’origine, ai labirinti di loop e, come detto, ai ricorsi ciclici di Zbigniew Rybczyński (Lift, l’inedito da OK Computer dei Radiohead, in questo è spudorato fino all’accademico nel ricostruire l’illusione della continuità nel percorso di un ascensore attraverso 18 piani). Il tour de force virtuosistico di Young Martha “Homie”(Young Thug & Carnage) è la piena conferma di una padronanza tecnica e di un’inventiva di marca superiore. È un fuoriclasse a cui manca ancora un po’ di cuore.

Floria Sigismondi
Regista-artista-autrice sempre lucidissima, concentrata nell’edificazione di un mondo autoriale, come dimostra la regia ispiratissima di Without Love di Alice Glass e la direzione creativa di Wolves Still Cry per il clip autodiretto da Lawrence Rothman (a cui regala il dramma per marionette di Designer Babies). E poi il gioiello per Perfume Genius.

Pedro Martin-Calero

RIVELAZIONI

Frank Lebon

Greg & Lio
Grégory Ohrel e Lionel Hirlé, già in evidenza con un primo esperimento (il video non ufficiale diNiggas in Paris) stanno costruendo negli ultimi due anni una preziosa videografia (si aggiungano i commercial) fatta di prospettive inusuali, rovesciamenti di senso, montaggio connotativo, citazionismi sapidi, illusioni ottiche e tutto il corredo di cliché che la videografia transalpina sa usare come nessun’altra. Dynabeat è un video sanamente pop, in cui l’intenzione creativa, a dispetto dei pesanti intellettualismi correnti, non è mai ingombrante o ostentata (si vedano anche i precedenti per Jain, Come e Makeba). La conferma èBasique per OrelSan, pianosequenza che si chiude con una maestosa impennata, premessa per ulteriori, attese meraviglie.

COMMISSIONING ARTIST

 

alt-J
Il gruppo è al solito molto attento nel costruire la sua videografia, composta di tappe tutte ponderate. Per l’ultimo album puntano tutto sul narrativo e sparano una doppietta diretta da Young Replicant. 3WW è la consueta (e affascinante) narrazione a chiave di Takacs, stavolta in ambientazione messicana: l’uomo che va a sotterrare l’amata in un luogo sicuro e che muore nel tragitto, finisce per essere seppellito dalla morta. L’incontro poetico in una dimensione ultraterrena ha una grande forza visiva (premio alla fotografia di Dustin Lane a Camerimage 2017). Deadcrush, mediamente molto apprezzato, sfodera, in effetti, coreografia e art direction stupende, ma si poggia su una narrazione lambiccata e un concetto debole (i tre membri della band si identificano ciascuno in una donna-simbolo: Sylvia Plath, Lee Miller e Anna Bolena). YR ci mette del suo per rendere l’idea interessante (la misteriosa ambientazione, come in una dimensione parallela, uno spazio virtuale), ma rimane un lavoro che convince a metà. In In Cold Blood diretto da Casper Balslev la storia sembra essersi già consumata quando il topolino arriva, ma in realtà è lui il vero protagonista. Narrato da Iggy Pop.
Di Pleader, diretto da Isaiah Seret, si è già detto.

Kendrick Lamar
HUMBLE. diretto da Dave Meyers, The Little Homies
DNA. diretto da Nabil, The Little Homies
LOYALTY. (feat. Rihanna) diretto da Dave Meyers, The Little Homies
ELEMENT. diretto da Jonas Lindstroem, The Little Homies
LOVE. diretto da Dave Meyers, The Little Homies

Arca
Anoche diretto da Jesse Kanda
Reverie diretto da Jesse Kanda
Desafío diretto da Jesse Kanda

Perfume Genius
Slip Away diretto da Andrew Thomas Huang
Die 4 You diretto da Floria Sigismondi
Wreath