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Video dell’anno 2009- 2010

Messe di nomi nuovi quest’anno, alcuni straordinariamente interessanti, mentre la leva che si è consolidata negli anni passati fa solo comparsate di lusso. Gondry oramai si concede pochissimo (un gioiellino dei suoi, Open your heart di Mia Doi Todd), Spike Jonze firma l’happening dei Lcd Soundsystem (Drunk girls), Jonathan Glazer ragiona comunque in termini di cinema (Treat me like your mother dei The dead weather di Jack White), Garth Jennings è in forma splendente (Cousins dei Vampire Weekend). Joseph Kahn è oramai una star commerciale che ha abbandonato la ricerca e si affida al solo effetto (il grand guignol spudorato di All the lovers di Kylie Minogue [foto] e il violento petting di Misery dei Maroon 5, da ultimi).
A ragion veduta l’onda clippara degli anni 90 (la vera virata sul fronte dell’arte, posto che la musica di quegli anni era predisposta come poche a prescindere dalle solite dinamiche – il cantante che canta, il gruppo che suona – e lasciava spazio alla libera suggestione per immagine) che determinò una nuova estetica video e che vantava i numi tutelari che abbiamo detto (Gondry, Jonze, Cunningham, Jennings, Glazer, Romanek, nomi che letteralmente monopolizzarono il decennio) oggi sembra individuare in Chris Cunningham il suo riferimento primario, i video (bellissimi, sono stati dodici mesi molto ricchi) che presentiamo ne recano le tracce in ogni dove (non le sto neanche a segnalare, sarebbe un continuo): le sue istantanee deformate della realtà, certe trascendenze psichedeliche, la biologia mutante e tecnologicizzata, la sua science-fiction “possibile”, le glaciali e cupe ricognizioni nell’inferno contemporaneo sono diventati un patrimonio al quale si attinge quasi inconsapevolmente, tanto ha nutrito l’immaginario video di questi anni.
Il registro inquietante è frequentemente opzionato per condire brani cadenzati o di atmosfera decadente, non di rado elettronici, tanto da essere diventato una sorta di must, a volte scontato, ma non di rado foriero di soluzioni insolitamente creative: si prenda l’idea del virus di luce di Messages (The Filthy Dukes) diretto da Lasse Hoile, le raccapriccianti scoperchiature dei volti in Celestial bodies (Vanity) del sempre efficace Ferry Gouw (a cui si deve anche la bella allucinazione di Becoming a Jackal dei Villagers e l’ultimo deca-dance sciupafemmine di Bryan Ferry), la straordinaria battaglia con pistole caricate di liquido colorato in Spheres of fury (Hecq Vs Exillion) di Tim Brown e Christopher Hewitt, resa dall’atmosfera del brano e dal taglio visivo anni 80, come uno spaccato di violenza crescente, smentita dall’ironica presentazione dei protagonisti sui titoli di coda. Si prenda, soprattutto, l’atmosfera allucinante e vagamente lynchiana di How to destroy angels (The space in between) di Rupert Sanders [foto].
L’horror è invece una scelta esplicita del collettivo canadese Salazar, vera rivelazione di quest’anno, che, tra Argento, The Blair Witch ProjectThe Descent, con Shaved (Babe Raimbow) firma un video in letterale aderenza al genere, con un sospetto di ironia dietro l’angolo, che non viene fugato, ma neanche confermato [foto]. Lo stesso collettivo firma un’opera di grande fascino e mistero, Gently Gently (Christopher Smith) che ricrea l’avventura di un esploratore in un paesaggio invernale  – in cui l’unico elemento animato è la neve (lo stesso protagonista è un immobile pupazzo) – come se guardassimo all’interno di una boccia di vetro. Trasparenze orrorifiche anche nello splendido video anni 70 di Odessa (Caribou) diretto da Video Marsh.
Il capolavoro disturbato dell’anno rimane senz’altro Blonde fire (The Hickey Underworld) diretto da Joe Vanhoutteghem, in cui il registro truculento viene sublimato dal certosino lavoro sulle carcasse svolto dal protagonista che, in un classico scantinato degli orrori, assembla una serie di catatoniche creature frankesteiniane che fungeranno da rockers e pubblico [foto]. L’accoppiata (regista-gruppo) viene ribadita anche per il tristissimo squallore casalingo ritratto in Future worlds, in cui la cyclette, con dolente ironia, ha effetti sorprendenti su un padrone di casa allo svacco.
Bando alle inquietudini: caso peculiare quello del gruppo Ok Go! che ha fatto dei video-eventi il centro nevralgico della sua produzione: dopo l’exploit di Here it goes, seguito da altre amabili stramberie (che il gruppo contribuisce a inventare), si ripresentano con il consueto pianosequenza e una sofisticatissima macchina  Rube Golberg (i contatti su You tube hanno superato i tredici milioni) per This too shall pass diretto da James Frost, Syyn Labs e OK Go: virtuosismo tecnico ragguardevole, ma troppo visto. Più originale (e divertente) la versione del medesimo pezzo en plein air, con una coreografia (in piano sequenza…) che si espande imprevedibilmente, mentre la camera sui impenna in un’improvvisa plongé finale, coinvolgendo un numero crescente di comparse (la regia è di Brian L. Perkins e OK Go). Ma il vero exploit è l’ultimo End Love diretto da OK Go, Eric Gunther e Jeff Lieberman, acrobazia in time lapse che sarebbe anch’essa cosa non nuovissima se non si convertisse in uno sfiancante e virtuosistico happening. Chapeau [foto].
Una considerazione a parte merita invece il danese  Martin De Thurah che continua a firmare inconfondibili opere enigmatiche, di altissima fattura, sempre giocate sulle atmosfere, i toni oscuri, la tensione. A parte When I grow up (Fever ray), con la ragazza in bilico sulla piscina che sembra azzardare ua danza rituale, De Thurah quest’anno si mette in evidenza col trittico firmato per i Mew: la natura sembra attendere un avvento misterioso in Introducing Palace Players; si omaggia esplicitamente Von Trier – c’è pure l’ipnosi… – nel dogmatico Repeaterbeater [foto]; si mette in scena un immaginario infantile ludico e un po’ crudele in Beach, il più lontano dai consueti lavori (presenta anche una serie di interventi in graphic). Questi ultimi due video sono codiretti da Lasse Martinussen e Adam Hashemi.
Hashemi in assolo piazza l’impeccabile narrazione di Swim (Oh no Ono) che racconta con molta poesia dei turbamenti di un adolescente attraverso la visualizzazione delle sue fantasie in un ospedale, con tanto di eiaculazione finale: il massiccio imporsi dei musicisti scandinavi ha portato a galla, dunque, una schiera di artisti dell’immagine (lo stesso kolossal-ista Jonas Ackerlund) che hanno dimostrato uno sguardo e una creatività straordinariamente originali; non sorprende allora che l’attesissimo ritorno degli MGMT sia stato segnato dal sontuoso video di Flash delirium [foto] di Andreas Nilsson (che aveva il difficile compito di far dimenticare gli splendidi predecessori di Ray Tintori e compagnia girando) in evidenza quest’anno anche con lo smashup giamaicano Rabbit (Miike Snow). E a proposito degli MGMT, del tutto rimarchevole il lavoro del parigino So Me per il secondo delirio video di It’s working che propone un giocoso trip psichedelico tutta ironia e doppie letture (finalmente una canzone esplicita – un singolo! – sulla droga, senza moralismi e sensi di colpa, vivaddio).
Tra le cose davvero memorabili di quest’annata il director’s cut di Heaven can wait (Charlotte Gainsbourg/Beck) diretto da Keith Schofield che è composto da spezzoni di una cinquantina di diverse idee-video concepite per la canzone, sorta di zuppa teorica sulla possibilità di far dire alla clip qualsiasi cosa, di piegarla a qualsiasi esigenza estetica, narrativa, effettistica dicendo sempre dell’assurdità del contemporaneo. Un video che ha il dono di supportare dannatamente bene il pezzo e prendere tantissime direzioni, andando a toccare ambiti disparatissimi, dalla denuncia sociale alle creazioni artistiche di William Hundley.[foto]
La lezione di Gondry è tenuta ben presente dal collettivo parigino Megaforce che in Puirsuit of happines (Kid Cudi feat. MGMT/ Ratatat) racconta la notte da incubo del protagonista con continuo ribaltimento sogno/realtà con soluzioni  molto vicine, per fattura e ispirazione, a quelli del genio versaillese. Megaforce firma anche il delirante Solitude is bliss (Tame Impala) dove lo scenario di un massacro viene usato come passerella coreografica dal protagonista.
LEGS imbandisce il bel sabba musicale, in odor di Ken Russell, di Dogs are days over (Florence & The Machine) e, sulla stessa onda rivisitativa, mescola Olivia Newton John e kitsch-horror nella session aerobica dei vampiri nella disco anni 70-80 di Alive (Goldfrapp). La consueta malinconia sognante di Casey Raymond e Ewan Jones Morris, che predilige da sempre brani folkeggianti, quest’anno evoca fantasmi: si vedano il realismo magico di Shoeing the bones (Cate Le Bon) e le visioni infantili del depressivo I wanna go to Marz (John Grant).
Il video più teorico dell’anno è Cry (Gayngs) diretto da Olson -Gale – Vernon – Lamas, cover del pezzo di Godley&Creme e letterale remake del loro video (con apparizione straordinaria dello stesso Kevin Godley, a fungere da palese link a entrambi gli aspetti, musicale e visivo) [foto]. Non può mancare la meta-clip e William Stahl dirige Mother (Bon Homme) in cui l’artista propone al produttore varie idee per il suo video, tutte scartate (compresa quella che stiamo vedendo: il produttore che esamina le idee del video). In Mother si fa cenno (l’irruzione dello SWAT) anche a uno dei video più controversi dell’annata, Born free (M.I.A.) diretto dal figlio d’arte Romain Gavras, una denuncia agli autoritarismi che non risparmia immagini esplicite e violente. Darling it’s true (Locksley) diretto da Stocksmith ricalca invece, con evidente consapevolezza, l ‘idea cardine di uno dei must in video degli ultimi anni, il piano sequenza “moviolato” a piacere di Imitation of life (REM) di Garth Jennings. Un brano degli Here we go magic, Collector, è infine alla base di un video di Nat Livingston Johnson costruito come un falso reperto degli anni 80, e girato su nastro opportunamente trattato (e dunque leggermente rovinato e sovraesposto) con una videocamera JVC del 1984: assolutamente indistinguibile dal materiale autentico dell’epoca, è un risultato semplicemente (im)perfetto.
Chic&Artistic con Symphonies (Dan Black) firma una delle cose più deliziose dell’annata, video che passeggia con leggerezza nei vari immaginari cinematografici (si va dal western, alla fantascienza, toccando persino la nouvelle vague), proponendo una sequela di tipici titoli di testa, senza mai affondare nel testo [foto].
E a un approccio fortemente cinematografico (per impatto visivo e intreccio a vista) si rifà il sempre brillante team Terri Timely nel road-clip Marrow (St Vincent), il glaciale sci-fi Antibodies (Poni Hoax)  diretto da Danakil, la Tokio inquieta immaginata da Julien Levy per Poison lips (Vitalic) e soprattutto la trilogia british di Daniel Wolfe per Plan B, un musical che va dal preambolo (Stay too long), al dramma processuale (She said) fino alla violenta tragedia carceraria (Prayin’). Impossibile tralasciare, poi, l’incubo serie B di What you need (Tiga) di Cassiano Prado, con splendido scenario in 3D.
Follow me down di UNKLE diretto da Warren du Preez e Nick Thornton Jones è un progetto che si sviluppa in più direzioni (video e fotografia) e che vede i due artisti puntare sulla prorompente fisicità della modella Liberty Ross, in una visione molto rarefatta (e di raffinatezza a tratti stucchevole) di un mondo di spirituale ed edonistico incanto che si spalanca all’improvviso agli occhi di un avventore che, si direbbe, ne sarà risucchiato (come suggerisce il finale).
Premiatissimo, indicato dagli addetti ai lavori come il più ragguardevole dell’annata Love Lost (Temper Trap) diretto da Dougal Wilson [foto] è in effetti una geniale rievocazione di un ambiente proletario inglese (il referente cinematografico è Kes di Ken Loach) con una garbata deviazione metafisica, perfettamente in tono. Da segnalare i due bei lavori di David Ma per Foals (in particolare Spanish Sahara, di innegabile impatto).
Sempre nutrito il drappello di video che puntano sui prestigiosi cameo hollywoodiani. Ne cito tre per tutti:  il figo-ad-ogni-costo Giving up the gun (Vampire Weekend) con Jake Gyllenhaal, fiacca creazione di The Molloy (più efficaci nella leggerezza 80 di Vacation sempre per i VW) , il grindhousiano Stylo (Gorillaz) di Jamie Hewlett con Bruce Willis,  e  Dance floor (The Apple in the stereo) diretto da Greg Gilpatrick con Elijah Wood.
Grindin’ (Nobody beats the drum) diretto da Rogier van der Zwaag è uno stop motion che con semplici cubetti colorati elabora una specie di savescreen artigianale, ma talmente perfetto da apparire come frutto di un’elaborazione al computer: una notevole realizzazione, la cui fattura viene rivelata nel finale. In stop motion Grand Central (Tomasz Stanko Quartet) diretto da Katarzyna Kijek & Przemysław Adamski che utilizzano un chilometro di filo, scosso e illuminato in maniera diversa da quattro pile luminose di colori differenti ed una lampada: l’effetto finale è sorprendente. Sullo stesso solco Come to grief (The Molotov), scritto e prodotto da Dave & Nicole (diretto da David Higgs, fotografia/fotografie di Nicole Heiniger), funambolismo girato in 35 mm e composto di sole 4000 immagini montate. Fangela (Here we go magic) di Snejina Late è anch’esso un delizioso lavoro artigianale in stop motion, girato in Super 8 con caleidoscopi, disegni e effetti di luce fatti in casa. Sofisticatissimo invece il video a tecnica mista (stopmotion, fotografia, disegni su pellicola) di Sleep (Ethav), un viaggio onirico di grande fascino che conferma la maestria del duo ungherese Domestic Infelicity [foto].
Del tutto artigianale anche il lavoro di M Blash Lewis takes off his shirt (Owen Pallett) una serie di strambe visioni casalinghe, molto ossessive ed enigmatiche che s’impone per follia e inventiva.
L’indecisione sull’assegnazione del primo posto riguarda due video ugualmente belli e che rispecchiano i due filoni centrali delle opere che mettono in immagini la musica: quelle con l’artista che segue il pezzo e lo canta (o il gruppo che lo suona) e quelle in cui invece si coglie l’occasione della clip per creare un oggetto a parte, con proprie dinamiche, intuizioni, poetiche e rappresentazioni in cui la musica letteralmente funge da significativo accompagnamento. Confesso di prediligere quasi sempre la seconda opzione ed è per questo che  assegno il secondo posto a Young again (Kasper Bjørke) di Karim Huu Do [foto]: perfetto esempio di clip promozionale, musica ed immagini in invidiabile equilibrio, suggestioni iterate, splendido scenario forestale che sgocciola sui protagonisti (la verde giovinezza…): anche se poi chi canta è un attore e quindi diciamo che si sfugge sottilmente al discorso di cui sopra. Non va tralasciato l’altro video di Bjørke, il bellissimo Efficent machine, diretto da Alexander Topsoe & Thomas Daneskov, lavoro di concettuale understatement in linea ironica e parodica col testo della canzone (sorta di I feel love del nuovo millennio).
Il primato va allora riconosciuto a Andy Bruntel, interprete di piccoli capolavori di inquietudine, autore tra i più personali dell’ultima generazione (si pensi solo alla favola macabra anni 70 di Under the pines dei Bodies of water): Scissors (Liars) è un’opera potente, con una narrazione compiuta, una  tensione e un mistero crescenti e finale choc, di quelli che basiscono. E ti lasciano… di sasso.

Scelte più possibile variegate:

1) Scissor (Liars) di Andy Bruntel [foto]

2) Young again (Kasper Bjørke) di Karim Huu Do

3) Shaved (Babe Raimbow) di Salazar

4) Swim (Oh no ono) di Adam Hashemi

5) Blonde fire (The Hickey Underworld) di Joe Vanhoutteghem

6) Collector (Here we go magic) di Nat Livingstone Johnson

7) Heaven can wait (director’s cut)  (Charlotte Gainsbourg/Beck) di Keith Schofield

8) Love Lost (Temper Trap) di Dougal Wilson

9) Repeaterbeater (Mew) di Martin De Thurah, Adam Hashemi, Lasse Martinussen

10) Symphonies (Dan Black) di Chic & Artistic

N.B. – In principio avevo previsto anche un paragrafo sui lavori mainstream, ma un po’ l’enorme quantità di video interessanti già presi in considerazione, un po’ la deprimente omologazione (anch’essa interessante come eventuale oggetto di studio, sia chiaro) della clip dell’ “artista da major” (per intenderci: quella che scorre di media sulle tv dedicate) mi hanno fatto desistere. Al meglio questi video vogliono stupire e, ça va sans dire, questo non può stupirmi.
Avanti. Veloce. Dunque.