TRAMA
RECENSIONI
Vice, ovviamente, sta per vicepresident. Il titolo del film mette dunque subito in evidenza quella che è stata la carica politica più importante occupata da Dick Cheney, l'uomo nell'ombra dell'amministrazione Bush Jr. e uno che quella carica l'ha piegata alla sua volontà, ridisegnandone completamente i confini. La vicepresidenza secondo Dick Cheney non era una posizione passiva e di secondo piano in cui «attendere solo che il presidente muoia», ma aveva un ruolo strategico ben preciso, grazie al quale Cheney riuscì ad accentrare sulla sua figura uno smisurato potere decisionale. Tuttavia, è bene ricordarlo, Vice traduce anche il termine "vizio" e quindi, Treccani alla mano, «Incapacità del bene, e abitudine e pratica del male; il concetto del vizio, sul piano morale, è […] strettamente correlativo a quello della virtù, di cui costituisce la negazione».
Vicepresidente e vizio, la carica politica e il modo in cui quella carica viene (dis)onorata, il potere e l'uso che se ne fa: nel titolo di quello che, nella forma e nelle intenzioni, è il seguito ideale del bellissimo La grande scommessa, Adam McKay nasconde in piena vista tutta l'aura mefistofelica del suo protagonista, prendendo fin da subito una posizione scevra di qualsiasi possibile fraintendimento. Insomma, «Io non sono imparziale» direbbe con Moretti. Ecco allora che ad un tentativo di restituzione della complessità del reale, Vice preferisce di gran lunga la strada della chiarezza espositiva (l'uso intellettuale del montaggio è sempre volto a creare metafore molto facili: si veda ad esempio il pescatore e l'amo nelle sequenze centrali di dialogo tra Cheney e George W. Bush) che però non si traduce mai in una banalizzazione narrativa. Perché in Vice convivono farsa e tragedia, disperata parodia e nobile intenzione documentaria, rabbia e lucidità espressiva, facenti capo ad una domanda che di questi tempi ritorna come un martellante refrain e che, non a caso, si poneva anche Michael Moore nel suo ultimo Fahrenheit 11/9: «How the fuck did this happen?». Come diavolo è successo? Come diavolo siamo arrivati a questo punto? Come diavolo è potuto accadere che un vicepresidente sia riuscito ad ottenere così tanto potere e ad usarlo in modo così poco nobile e trasparente? Sono domande che portano con sé tutto lo sgomento di chi, non riconoscendosi più nel presente, cerca quantomeno di ricostruire il percorso che lo ha condotto fin qui, per capire dove le cose non sono andate come avrebbero dovuto. Domande semplici. Domande vicine a qualsiasi common man.
Come accadeva ne La grande scommessa infatti, anche in Vice l'idealtipo dell'uomo comune è ben presente nella costruzione del discorso. Laddove però nel film del 2015 questi era il destinatario dichiarato (e anche, affettuosamente, preso in giro) della comunicazione ipertecnica praticata in un mondo oscuro come quello della finanza, qui McKay si spinge oltre, fino a dargli in mano le redini del racconto. Insomma, da un parte, in un film che prima di tutto si domandava (con non poca ironia) come rendere accessibile ad uno spettatore qualsiasi il linguaggio freddo e specialistico della finanza, l'uomo comune stava a valle del discorso; dall'altra, in un film che auspica una presa di coscienza dal basso e che schernisce un po’ sconsolato il costante desiderio di distrazione della nostra epoca, l'uomo comune sta anche a monte, contemporaneamente narratore e destinatario di un racconto che vuole denunciare, senza mezze misure, i vizi del potere.
Ancora una volta, McKay nobilita l'uomo comune mentre lo deride. Ne critica il menefreghismo, la superficialità e l'incapacità di vedere l'apocalisse in corso, eppure continua ostinatamente a crederci, a sperimentare con il linguaggio e con tutte le forme del cinema per cercare il modo più efficace di comunicare con lui. Che non è mai il più banale o il più superficiale. Da qui allora i bucolici finti titoli di coda a metà film (come a dire che l'happy ending è possibile solo nella finzione), da qui il soliloquio shakespeariano tra marito e moglie, da qui l'uso metaforico e insistito di un'immagine così forte e chiara come quella del cuore malato, da qui le parentesi farsesche (la scena del menù) in funzione di commento e presa di posizione immediata rispetto a quanto si sta narrando.
Nessuna ambiguità dunque, nessuna (o quasi) libertà interpretativa lasciata allo spettatore. Nonostante il mistero, la riservatezza e le ombre che aleggiano attorno alla figura di Dick Cheney (dichiarati in una didascalia all'inizio del film), in Vice è tutto lì, perfettamente comprensibile, perfettamente leggibile, perfettamente evidente. Il rischio (di cui peraltro McKay è consapevole e sul quale gioca nella scena durante i titoli di coda) è quello di soffocare lo spettatore con le proprie idee, di finire per prenderlo alla gola e non lasciargli né il tempo né lo spazio di riflettere e dialogare con esse. Il merito, affatto trascurabile, quello di cercare un modo onesto, tutto sommato personale e poco convenzionale di guidare l'interpretazione e pilotarla a proprio piacimento. Utilizzando nient'altro che le specificità di linguaggio del cinema.