TRAMA
Un uomo e una donna, appena sposati, che percorrono l’India alla ricerca di conferme. Lui incline al materialismo storico, lei alla ricerca spirituale, osservano entrambi una realtà febbricitante, contraddittoria e talvolta disperata con l’occhio interessato di chi insegue una verità assoluta, senza alcuna concessione alle convinzioni altrui. Tra interruzioni e cambi di percorso, il loro viaggio farà sorgere nuovi interrogativi, dubbi alimentati da visioni tra loro divergenti, come quella proposta dall’Europeo assimilato che riesce a vedere il mondo in una goccia di rugiada al mattino.
RECENSIONI
Con un titolo originale così spiazzante avremmo sperato si potesse trattare di un film di fantascienza, di quella fantascienza retrò che aggrediva la fantasia dello spettatore, aficionado o meno, portando ad ebollizione il gradiente di aspettativa a partire dall’operazione semantica sprigionata proprio dai titoli. Lo spiazzamento rimane comunque, soprattutto nel constatare che Scream of the Ants è (anche) un film di fantascienza, con due protagonisti-alieni (i novelli coniugi mediorientali) che atterrano su un pianeta ignoto (l’India) e incominciano ad esplorarlo, ma una science-fiction che declina ben presto su di una inane metafisica pamphletistica. Tornano - e non può essere altrimenti - i leitmotiven del viaggio e della recherche delle ultime opere makhmalbafiane (Viaggio a Kandahar, Sesso e filosofia) consegnandosi a una deriva cinematografica che sembra assumere sempre di più la scoperta dell’ “altro” come pretesto della messa in scena del sé, del proprio esperire, del proprio dirsi. La querelle sul divino innescata dalla coppia di viaggiatori e che informa tutto il loro percorso e quello pellicolare, si adagia su facili a gracili schematismi di avvizzita filosofia e non si sdegna di accompagnarli lungo i fiancali di uno sbiadito luogo comune come quello del cammino verso una indefinita e indefinibile spiritualità (considerato il locus). Proseguendo idealmente il discorso inaugurato da Il silenzio (suo ultimo grande film), sullo spirituale come dimensione davvero interiore messa in comunicazione attraverso un canale auricolare, e dunque fisico, e tutta la densità dell’universo musicale come linguaggio di questa interiorità, le primissime sequenze annunciano in un bruciante scambio di campi, profondi e poi ravvicinati, la rinuncia al vedere (la ragazza che seduta in un non-luogo disperso in una zona desertica, o in un qualsiasi abisso siderale, si copre significativamente gli occhi) e il presumibile accoglimento di una dimensione sonora, in un territorio che risuona ancora della Vac, la sillaba divina. Dopodiché diviene tutto quanto vaniloquiante verbosità sullo sfondo di inutili descrizioni paesaggistiche, un atlante di sensazioni cromatiche estremamente e insensatamente compiaciuto, fino alla pretesa raggiunta spiritualità nel lavacro del Gange per scoprire che tutto è intriso di sacro. Poverissimo sottotesto simbolico, meglio la fantascienza da due soldi.