TRAMA
Haiti, anni Ottanta. Brenda (Charlotte Rampling), Ellen (Karen Young) e Sue (Louise Portal) tre donne americane in vacanza, sono a caccia di avventure per dimenticare il grigiore delle loro vite. Si invaghiscono del giovane Legba (Menothy Cesar), bellezza locale che offre loro particolari servigi. L’ambiguo legame che si stabilisce, farà scoprire alle ignare turiste americane l’altra faccia di Haiti, fatta di sfruttamento povertà e violenza, sul finire della terribile dittatura di Jean Claude “Baby Doc” Duvalier (1971-1986).
RECENSIONI
Argomento delicato quello affrontato da Cantet ma, miracolo, ecco un film che (ogni riferimento a certo cinema italiano è voluto) non se ne compiace (quasi) per niente perché ne fa uno sfondo e non la sua ragione d’essere: l’attenzione è per queste donne, le loro storie e passioni, i loro tormenti. Il turismo sessuale (terminologia scorretta prima ancora che semplicistica, in questo caso), il confronto-scontro tra due culture, il problema haitiano ci sono, non sono marginali ma sono elementi che vivono naturalmente all’interno delle situazioni rappresentate: queste rimangono il fulcro dell’opera e non il pretesto per trattare il tema scottante di turno (caratteristica che si riscontrava anche nei due precedenti “impegnati” RISORSE UMANE e A TEMPO PIENO). Le confessioni in camera delle tre turiste scandiscono la narrazione mettendo in luce motivazioni, dubbi, impulsi, alibi, ma anche umanità, voglia di vita, e tre caratteri sostanzialmente differenti che vedono i loro rapporti modificarsi col progressivo svelarsi dei propri sentimenti dissimulati e alfine proclamati (poiché queste donne amano, prima ancora di fare sesso). Cantet parla con disinvoltura del desiderio femminile e lascia, soprattutto, che a farlo sia la donna; e la donna, in modo del tutto inconsueto per il mondo della celluloide, lo fa, si svela senza inibizioni, rivendica il proprio diritto a godere senza essere giudicata. Il quarto intervento in macchina è di Albert, l’albergatore, che esamina la questione dal punto di vista interno di un paese politicamente e socialmente martoriato (anche il duetto tra Legba e la madre ha questa funzione vagamente didascalica: Haiti come paradiso infernale - o inferno paradisiaco se si preferisce -).
Parlato in tre lingue (chissà il doppiaggio italiano…) VERS LE SUD se a tratti appare fin troppo controllato, peccando Cantet di eccesso di prudenza, il suo trattenersi apparendo a volte più una strategia accorta che una scelta efficace (il film patisce qualche rigidità di troppo), dall’altro riesce a rendere in maniera convincente la profonda complessità dei rapporti tra i protagonisti: se il loro incontrarsi è l’incrocio tra una povertà sociale e una povertà affettiva, entrambe da comprendere nelle loro articolate motivazioni, l’hotel è non solo il posto in cui queste donne trovano la soddisfazione dei sensi ma anche quello in cui il ragazzo haitiano può rifugiarsi, dove viene considerato, ascoltato e soccorso; la realtà insomma, è molto più complicata di quanto appaia. Attrici perfette, si citi la sola Rampling per mera devozione.

Quando Legba compare per la prima volta, quasi a proteggersi dalla sua condizione (umana ed anagrafica), è rannicchiato in posizione fetale; da qui la drammatica vicenda di tre ingannatrici, tre creature che negano le proprie sensazioni, tre gusci svuotati dal peso di vivere specialisti della sola menzogna (agli altri, a sé stessi). Ognuna delle donne sbrodola la propria vita davanti a un video, camera fissa, senza pudore di sorta (sarebbe fuori luogo): l’algida Ellen si scioglierà al fuoco della passione, Brenda urla il suo amore ma prenderà un’altra rotta (…verso Sud), un modello di convivenza retribuita è il paradiso terrestre di Sue. Cantet, riponendo il voto del “film educativo” e prosciugandone l’inevitabile schematismo, si presenta al bivio del suo percorso artistico: cambiando rotta il regista gioca apertamente sulla chimica dei sentimenti. E vince. Servendosi di un’arte della caratterizzazione particolare ed avvincente, cui tutto contribuisce (dialoghi, sguardi, costumi, sfondi), l’intero film è una semplice gamma di sfumature modellata sul volto dei personaggi (su tutti Legba: il suo lavoro è gabbia o sottile fonte di piacere? Enigma, questo, senza soluzione), un rimando di acquerelli e mezzetinte che creano una continua e vorticosa ambiguità sentimentale disorientante verso lo spettatore. La regia non conosce il virtuosismo grazie ad una cinepresa ostinatamente incollata alla squadra attoriale (la Rampling è la solita regina), intenta a sfiorare una catena di gesti minimali non meno devastanti di una scena madre. Scegliendo la sterminata spiaggia haitiana per spargere le ceneri dell’amore, l’autore firma qui la sua prova migliore: seppur intensissimo ed intimamente commovente VERS LE SUD rimane magistralmente equilibrato nell’impiegare il sociale come lieve colore di sfondo, il canto del disagio si intravede solo in controluce per chi osserverà con cura. Oltre questo, una dimostrazione di cinema maiuscolo, capace di parlare di turismo sessuale senza esprimere (/imprimere) la solita noiosa condanna morale; cinema che sfida con disprezzo la trovata ardita (la danza di Brenda con il bambino è una sequenza di disagio insostenibile), abbraccia naturalmente la tragedia e poi torna sulla terra, intagliando un finale di sommessa crudeltà.
