TRAMA
Nell’ultimo anno della Seconda guerra mondiale nella remota Vermiglio una famiglia, con l’arrivo di un soldato rifugiato, per un paradosso del destino, perde la pace, nel momento stesso in cui il mondo ritrova la propria.
RECENSIONI
Piaccia o meno, l’unico modo che ha il cinema oggi per avere un pubblico è inventarselo. E un pubblico ce lo si inventa un po’ con quello che si ha. In un Paese a quanto pare contento di imbalsamarsi nella gentrificazione turistica, con intere città (tipo Bologna) trasformate nella proloco di se stesse, è fisiologico che a inventarsi un pubblico siano, e certo non da oggi, le Film Commission regionali. Quindi tra le cose che hanno un po’ di speranza di tirare, la fascinazione esotica per il premoderno di casa nostra o quasi è, e non da oggi, senz’altro tra le più affidabili.
Nulla di male in premesse del genere. Tutto sta in ciò che si riesce a farne. Maura Delpero se l’è cavata piuttosto bene, perché ha aderito all’obbligo turistico con sufficiente umiltà da trovarsi poi nella posizione di poter imprimere una direzione inattesa rispetto alle coordinate di partenza. Quindi niente priapismi alla Salvatore Mereu (decano incontrastato del cinema regionale), e niente agro dolcinismo alla Alice Rohrwacher.
In progetti come questo, molto “progettati” sulla carta e a tavolino, lo sforzo di tenere insieme più film diversi (ciascuno direzionato verso un immaginario pubblico di riferimento) rischia sempre di tradursi in una sconfortante frammentazione. Delpero, ed è davvero il meglio che si possa chiedere in queste circostanze, riesce invece a fondere tra film diversi in uno solo, passando del tutto fluidamente da uno all’altro.
La prima parte è quella che molti hanno definito “alla Olmi”: un paesino sperduto nei monti altoatesini, verso la fine della guerra, ricostruito nei suoi tempi distesi, il suo quotidiano ricorsivo e nelle sue atmosfere ovattate. Una numerosa famiglia (i Graziadei), con a capo un accigliato patriarca maestro di scuola (Tommaso Ragno, straordinario); le osterie fumose, le fontane per il bucato, le facce degli autoctoni non professionisti e bambini che ogni tot minuti saltano fuori in numero variabile a fare tenerezza. Racconto più orizzontale che verticale, meno impegnato a “narrare” che a passare in rassegna brandelli eminentemente descrittivi captati da un punto di vista discretamente interno al mondo che guarda.
Le fila del racconto cominciano a serrarsi nella seconda parte, quando Vermiglio sembra diventare una serie TV (però di quelle buone), con personaggi che cominciano a rendersi riconoscibili insieme ai rispettivi tracciati narrativi. La guerra, intanto, finisce, e tra i vari fatterelli corali di questo e di quello, fra una sigaretta fumata di nascosto e l’immancabile (omo)sessualità repressa, si staglia un evento un po’ meno piccolo: un soldato siciliano di passaggio, che ha trovato il modo di sposare e mettere incinta una Graziadei prima di tornare a casa, viene ucciso sull’isola natia dalla “vera” moglie che ha scoperto la sua bigamia.
Arriva così la terza parte, il terzo film, quello che ci fa arrivare alla conclusione che, tutto sommato, il film valeva la pena di essere fatto. Mentre la gente mormora, la Graziadei gabbata dal fedifrago prende e va in Sicilia, in carcere, a guardare di qua dalle sbarre la responsabile del delitto d’onore. È una pagina effettivamente molto bella, in cui viene percorsa la direzione del tutto inusuale nel cinema italiano, di un incontro margini-margini in un momento in cui mondi interi sembravano separarli, bypassando completamente il centro. L’avere rinunciato allo sviluppare questa situazione (la donna la guarda e basta, non succede null’altro, e il viaggio è appena accennato) non è una mancanza, ma la chiave della riuscita di quest’ultima parte (e dunque del film). A grappolo, tutti gli altri personaggi e situazioni finiscono per allinearsi a questa nel ricevere il bagliore di una modernità che ha appena cominciato a dischiudersi, senza seguirlo oltre. Benché nelle prime due parti il film non manchi di suggerirci qualche nevrosi che cova sotto la superficie, non siamo minimamente in presenza di un equilibrio che viene infranto. Non una maledizione, non una liberazione: qualcos’altro, e comunque non una palingenesi. Recuperando l’orizzontalità della prima parte, la regia passa in rassegna gli abitanti di Vermiglio colti (persino il rigido maestro-patriarca) al cospetto di una mutazione congelata nel momento del suo affiorare; raccoglie i sintomi del loro vacillare, ma nulla viene scalfito, né nulla viene suggerito di ciò che seguirà. Nulla cambia, ma che il vaso di Pandora sia stato scoperchiato si legge nei volti e nei gesti. Nulla esplode, anche registicamente è tutto come prima, ma che il film prenda una tangente impalpabilmente anomala è impossibile negarlo.
Non sarà Olmi, ma questa ipotesi su come guardare indietro alla modernità è sufficientemente originale e degna di approfondirsi, magari nei prossimi film di Delpero. Quella soglia non è la perdita di un’innocenza da rimpiangere nelle modalità esotico-spettacolari del turismo cinematografico (con cui pure Vermiglio non può non flirtare), ma il dischiudersi di un nuovo che non ha mai veramente smesso di essere nuovo, pronto a portarci in direzioni che non abbiamo mai davvero percorso.