Drammatico, Sala

VERGINE GIURATA

TRAMA

Hana è una vergine giurata. Una donna albanese che, secondo il codice arcaico del Kanun, ha rinunciato alla propria identità di genere per vivere e lavorare come un uomo – in cambio della sua verginità e castità. Si fa chiamare Mark. Un giorno, per rivedere la sorella Lila, Hana/Mark sale su un pullman che dall’Albania la porta in Italia.

RECENSIONI

 

 

La questione del ruolo della donna nelle società contemporanee è, spesso, al centro dei dibattiti pubblici. Se ne discute sempre molto, almeno in apparenza. E per i motivi più svariati. Uno dei problemi che affligge le teste di coloro che si dicono progressisti e tolleranti è come cogliere la giusta distanza fra rispetto per sistemi di valori diversi e necessità di garantire a ciascuno alcuni diritti umani che si ritengono fondamentali – diritti che, secondo alcuni, altro non sono che la maschera ideologica di un sistema culturale che è, in fondo, soltanto il nostro. In alcuni casi, la distanza fra due apparati valoriali è siderale, impossibile da colmare con mezzi puramente intellettuali. È vero che ogni scelta di vita, per quanto estrema, può essere normalizzata attraverso il riferimento a un certo quadro di appartenenza?
Il film di Laura Bispuri, presentato in anteprima all’ultima Berlinale, ci mette di fronte a una situazione limite. Il fenomeno delle vergini giurate, o burrneshe in lingua albanese, ha un’origine antica nell’area balcanica. Un luogo che appare, qui come non mai, così lontano e così vicino. Il codice medievale del Kanun, per lo più tramandato oralmente, prevede la possibilità, per donne che rinuncino alla vita femminile e scelgano la castità, di vivere come uomini in mezzo agli uomini. In una società rigidamente patriarcale, ove a una donna non è consentito quasi nulla – imbracciare armi, scegliere lo sposo, passeggiare da sola fra i monti – l’essere uomini possiede innegabili vantaggi. Tuttavia, all’origine della drastica scelta delle burrneshe, vi sono, storicamente, ragioni di vario tipo. Ricerca di libertà precluse alle donne, volontà di sottrarsi al matrimonio, effettivo desiderio di vivere come uomini, necessità di supportare la famiglia. Nella società contemporanea, in rapida evoluzione, l’impiego effettivo del Kanun, che regola rigidamente ogni aspetto dell’esistenza individuale e collettiva, sta progressivamente sparendo. Eppure, qualcosa sopravvive nelle regioni più remote dell’Albania.

La ricerca di Laura Bispuri – al suo primo lungometraggio, dopo una serie di corti al femminile (Passing Time, Biondina) – parte da qui. Dalle istantanee della fotografa bulgara Pepa Hristova che, nel libro Sworn Vergins, alterna panoramiche di scenari naturali montagnosi a ritratti delle vergini giurate, dalle foto in bianco e nero di Paola Favoino, dal romanzo della scrittrice albanese Elvira Dones, e da incontri personali con alcune vergini – una compare nel film, nella parte di Pal. Di questo materiale, Bispuri fa una sintesi, cercando di cogliere l’essenziale, sfrondando la trama del romanzo di Dones, e trasferendone l’ambientazione dagli Stati Uniti al Lazio. Evitando psicologismi posticci, offre la spiegazione più semplice e al contempo più enigmatica a supporto della scelta di Hana, che decide di diventare un uomo, almeno apparentemente, perché lo stile di vita che ritiene a lei più consono è compatibile esclusivamente con un codice di comportamento maschile. Bispuri mette  quindi a confronto due tipi di ribellione, quello di Lila, che passa attraverso la fuga, e quello di Hana, che consiste nell’adesione totale alle regole della comunità. La terza figura, in una sorta di arco ideale che va dalla tradizione al rinnovamento, sarà quella della nipote Jonida, tipica adolescente occidentale, che plasma il proprio corpo attraverso lo sport, e rifiuta ostinatamente tutto ciò che la riporta alle proprie origini etniche.  Allontanandosi dal particolare e dall’aneddoto, Bispuri trasforma una storia personalissima – quella di una burrnesha che lascia l’Albania per l’Italia – in una riflessione globale sull’identità personale e sessuale, o in un’educazione sentimentale sui generis, tema caro alla regista fin dai precedenti cortometraggi.
Nella realtà, pare siano pochissime le vergini che decidono di lasciare l’Albania dopo aver prestato giuramento di castità. Difficilissimo da capire, per noi, come un codice civile e penale di origine medievale possa tenere legati i propri figli servendosi esclusivamente di concetti quali “onore”, “rispetto” o “promessa”. Bispuri preserva il mistero. Non ci spiega esattamente perché, a diversi anni dalla morte dei genitori adottivi, Mark senta, proprio in quel preciso istante, la necessità di allontanarsi dal proprio paese per raggiungere la sorella che, nel frattempo, si è trasferita in Italia con il marito e la figlia. Nessun risvolto psicologico da indagare o da scoprire. Nessuna rabbia repressa per i genitori adottivi – Hana appenderà subito una loro foto in salotto. Alba Rohrwacher, magrissima, spalle incurvate e sguardo schivo, sembra l’interprete perfetta.
Con un gioco di specularità magmatiche, Vergine Giurata è costruito su un doppio binario. Temporale e ideale. Nel tempo presente, Mark, di nuovo orfano, è accolto dalla sorella Lila, che vive con il marito Stjefen – con cui, anni prima, era fuggita dall’Albania – e con la figlia Jonida. Dopo un difficile inserimento nella nuova famiglia, Mark comincerà un percorso di trasformazione, recuperando la parte più femminile di sé. Nel tempo passato, l’orfana Hana è accolta in un’altra famiglia, quella composta dal ruvido montanaro Gjergi, da sua moglie Katrina e della loro unica figlia Lila, che la tratterà come una sorella. Superate innumerevoli difficoltà iniziali, Hana intraprenderà il cammino che la porterà all’abiura della propria sessualità. Più che su un presente reale e su un passato rievocato attraverso una serie di flashback, il film si gioca sull’innesto continuo dei due segmenti temporali, raccordati, nei minuti iniziali, dalle scene che documentano il viaggio di Hana per raggiungere Lila. In entrambi i casi, al centro sta la difficile costruzione dell’identità personale. Un tema universale, che va ben oltre la differenza di genere. Quando Hana decide di diventare Mark è ancora un’adolescente. Diventerà un uomo senza mai essere stata, completamente, una donna. Senza mai aver conosciuto l’amore. Ecco perché, quando sentirà la necessità di tornare a essere Hana, dovrà costruire dalle radici, con l’aiuto della sorella e della nipote, il proprio modo personale di essere una donna.
I medesimi rapporti, di sovrapposizione e contrasto, si ritrovano sul piano visivo e stilistico. Nelle scene in Albania prevalgono i verdi, i bianchi e gli azzurri. Grandi spazi aperti e panoramiche maestose dei monti ricoperti di neve. A fare da sfondo al segmento ambientato in Italia, sono invece le periferie laziali fra Roma e Terracina, uno spazio urbano destrutturato e amorfo, dove l’azione si svolge per lo più in interni tipologicamente ben definiti ma anonimi (la casa, la piscina, il parcheggio sotterraneo, bar).  Camera a mano a seguire i movimenti nervosi di Hana/Mark, impiego della luce naturale, uso minimo di musica extradiegetica – si sente, ad esempio, in uno dei rari momenti di lirismo, quando Hana e Lila corrono lungo un sentiero di montagna –, Bispuri fa proprio uno stile che, nei circuiti internazionali, è comunemente associato al cosiddetto cinema del reale. Ne fa uso con intelligenza, concedendosi qualche divagazione, come nelle scene acquatiche in piscina, quasi oniriche, con i corpi delle nuotatrici che si sovrappongono, scivolando l’uno sull’altro. Ed è proprio l’acqua – la neve nella prima parte, l’acqua della piscina nella seconda – l’elemento naturale che sembra guidare e proteggere i cambiamenti e le trasformazioni dei personaggi.
Eppure Hana parla talmente poco e risponde talmente di rado che non riusciamo a individuare il momento preciso in cui qualcosa cambia davvero, che sia il dialogo notturno con la sorella, la contemplazione della superficie scura della piscina, il gioco del fiato cominciato da Ionida. Nella trasformazione di Hana, c’è qualcosa d’impalpabile. La sua iniziazione all’amore non ha nulla di tenero o sentimentale. Il primo, parziale, rapporto di Hana con Bernhard, in bagno, è volutamente depotenziato di ogni enfasi. Nella parte finale, quando il cognato si rende conto del cambiamento in atto, trasferisce Hana in un appartamento tutto suo. Hana scrive su una lavagnetta alcuni propositi che, nella sua testa, sono indice di una modificazione profonda – cose come usare sempre l’italiano, guardare negli occhi Bernhard quando le parla, o comparare una gonna. È forse inevitabile che, a questo punto, lo spettatore abbia l’impressione che Hana vada incontro a un cambiamento radicale e che nulla sarà come prima. Ma non è esattamente così. Quel che farà, di lì a poco, è soltanto indossare, con una punta di scetticismo, un reggiseno che le ha portato la sorella. Quando Bernhard le sfiorerà il braccio, in piscina, Hana non potrà evitarsi un moto di fastidio. Bispuri rifugge dagli approdi troppo facili. Il percorso è ancora lungo. Quel che vediamo – Hana che canta una vecchia canzone albanese con la sorella – è una scintilla di luce.