Noir, Recensione

VENDICAMI

Titolo OriginaleFuk sau - Vengeance
NazioneHong Kong, Francia
Anno Produzione2009
Genere
Durata108'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia
Musiche

TRAMA

Macao. Irene sta preparando il pranzo per il marito e i due figli. Non appena rincasati, l’uomo e i bambini vengono uccisi da tre sicari armati fino ai denti mentre la donna resta gravemente ferita. Francis Costello, padre di Irene e truand convertitosi in proprietario di un ristorante sugli Champs-Élysées, si reca nell’ex colonia portoghese giurando vendetta alla figlia agonizzante.

RECENSIONI

Incipit fulminante: il ménage domestico dei Thompson viene devastato dall'irruzione di tre killer che falcidiano la famiglia senza risparmiare i due bambini e lasciando in fin di vita la sola Irene (Sylvie Testud). Al capezzale della figlia, l'ex gangster Francis Costello (Johnny Hallyday) le promette solennemente che la vendicherà. Solo e spaesato nel marasma di Macao, Costello assolda fortunosamente tre uomini della malavita locale - Kwai (Anthony Wong), Lok (Lam Suet) e Chu (Lam Ka Tung) - offrendo loro un lauto compenso nonché la proprietà del suo ristorante parigino Les frères. I tre, ignari che il mandante dello sterminio dei Thompson è proprio il loro boss George Fung (Simon Yam), accettano il contratto. Comincia così una spedizione punitiva che li porterà a diventare amici per la pelle e a incrociare fatalmente le pistole col mefistofelico Fung.

Gangster che fraternizzano estraendosi i proiettili a vicenda, mucchi selvaggi che s'immolano rotolando cubi di carta e stracci, padri castigatori ottenebrati da una memoria vacillante: i codici del noir secondo Johnnie To sono arabeschi morali, balistici e psichici. Ideogrammi di piombo e sangue sublimati da un concetto di cinema olimpicamente incurante del realismo e delle sue regole repressive. Sulle spettacolari carambole disegnate dallo script del complice Wai Ka-Fai (sceneggiatore specializzato in copioni costellati di colpi di scena e coincidenze paradossali), il cineasta hongkonghese imbastisce una ballata vendicativa intrisa di brividi polar (Costello, come il Samouraï Delon che doveva essere al posto di Hallyday), risonanze western (le sparatorie girate come duelli) e parentesi conviviali (nei film di To non mancano mai cibo e vino, materie prime che fungono da collante sentimentale). Una danza macabra scandita da scontri a fuoco di lunatico bagliore, coordinatissimi ripiegamenti acrobatici e solitari regolamenti di conti all'insegna di un'instabilità mnemonica (Costello ha un proiettile nel cervello che gli corrode la memoria) compensata in parte da polaroid-reminder e in parte dal calore umano di una famiglia elettiva ricostruita sulle rive del Mar Cinese. Variazione sul tema del wild bunch già frequentato in The Mission (1999) e in Exiled (2006), solo a un occhio miope e superficiale Vengeance (sensazionalisticamente tradotto in italiano con Vendicami) potrebbe apparire uno sterile esercizio di stile: i meccanismi della messa in scena di Johnnie To hanno raggiunto un grado di maturità tale da rendere ogni suo noir/poliziesco un'esplorazione delle possibilità strutturali e combinatorie del cinema, come i leggiadri borseggi di Sparrow (2008) o le visioni schizoidi di Mad Detective (2007) certificano inequivocabilmente. Ormai è la trasfigurazione il suo habitat naturale, la creazione di un universo in cui tempo, spazio ed eventi si tramutano in rigorosa, geometrica fantasmagoria. Oltrepassata la soglia anagrafica e filmografica dei cinquanta, il fondatore della Milkyway Image aggiunge con Vengeance un'altra adamantina tessera al mosaico più inventivo e originale che il cinema degli ultimi venti anni abbia dedicato alla gloriosa tradizione del crime movie. Fotografia densa e guizzante del fidatissimo Cheng Siu-Keng e musiche vigorosamente 'weastern' di Lo Tayu. Presentato in Concorso al 62º Festival di Cannes e distribuito lacunosamente in Italia a poco meno di un anno dall'uscita in Francia (20 maggio 2009).

Lente panoramiche inquadrano l'interno di una casa ben arredata e i primi piani di fotografie raffiguranti una serena famiglia composta da una giovane donna occidentale, un uomo orientale e i loro figli. Una musica dolce e cullante mostra la giovane impegnata nel preparare la cena quando, una volta tornato a casa il marito, la traccia sonora (e con essa la pacifica quiete) viene interrotta da un'improvvisa e violentissima carneficina. Questo il devastante incipit di Vendicami, ultimo film del regista hongkonghese Johnnie To. Un'opera che si presenta fin da subito ibrida, carica di fusioni e confusioni di ogni tipo, a cominciare da quella culturale. Una famiglia etnicamente mista fa da apripista ad un neo-noir in cui il rapporto tra individuo e territorio vive e si alimenta della discrasia etnico-culturale tra il suo eroe ed il luogo in cui agisce. Francis Costello (nome con non poche allusioni melvilliane), padre della donna che compare in apertura alla quale promette vendetta, è un anziano francese alla ricerca della sua rivalsa in un luogo culturalmente a lui ostile. Per farlo assolda tre killer mercenari ai quali promette tutto ciò di cui dispone in cambio dell'uccisione degli assassini di sua figlia e del loro mandante. L'intreccio narrativo fa non tanto da struttura portante quanto piuttosto da espediente strumentale volto all'allestimento dell'intreccio formale, vero interesse privilegiato del regista: la messa in scena non è mai canonica né tantomeno aderente alle regole di un solo genere di riferimento. Appena si intravedono le simbologie e gli archetipi del cinema noir (americano, francese, orientale) perentoriamente questi svaniscono, sfumano osmoticamente nel poliziesco, nello spaghetti western. Il collage formale eretto dal regista sistema il film nella scia di quel cinema sempre e comunque consapevole di sé stesso e della sua storia, talmente cosciente del genere da azzannarlo, ingoiarlo, frullarlo e risputarlo sullo schermo. Più entropico, più vibrante di prima. É probabilmente questo ciò che ha affascinato Tarantino, questa cognizione sardonica e capillare del cinema e delle sue modalità di rappresentazione, tale da masticare e rimediare fonti narrative di ogni specie, da Melville ai b-movie dell'estremo oriente. Così come il regista di Pulp Fiction fin dal suo esordio ha progressivamente rimediato il cinema mondiale, presente e passato, allo stesso modo, ma in maniera più silenziosa, meno effervescente, To opera una personale, originale, postmoderna collazione del noir orientale. La matrice di partenza è sicuramente quella creata negli anni ottanta da John Woo, con il suo iperrealismo incandescente, i ralenti esasperati e le prime ibridazioni con il linguaggio fumettistico. A questo si aggiunge una rielaborazione autonoma e personale del noir kitaniano, minimalista e mutilato, prosciugato, spesso, della facoltà scopica, calibrato secondo precisi principi di sottrazione che vanno a contemplare l'uso del buio e del fuoricampo. To mescola e riformula tutto adattando il puzzle al presente, collocandosi saldamente nella contemporaneità inserendo nel noir orientale e nella sua unità minima di riferimento, la scena d'azione, uno spiccato gusto per il feticcio, per l'aneddoto ironico e dissacrante, per la digressione ed il paradosso. Fin da subito i personaggi sono presentati come eroi fumettistici, vestono quasi sempre allo stesso modo, la loro recitazione è spesso stilizzata e dispongono di marche personali (anche queste fumettistiche) auto-ironiche, generatrici di un mondo, un universo extra-diegetico indipendente – si pensi al personaggio che vive in campagna in una baracca isolata con la sua famiglia, commerciante d'armi celato, uomo jolly inaspettato, un Walter Brennan reincarnato - che li posizionano in un cinema che va da Tarantino a Wes Anderson, ai fratelli Coen.