Drammatico, Recensione, Sportivo

VELOCE COME IL VENTO

TRAMA

Entrambi bravissimi al volante. Lui però ha sepolto da anni sogni e talento sotto la tossicodipendenza, mentre sua sorella, più giovane, vorrebbe mordere la vita, sconfiggere la paura, cercando se stessa nelle gare di Gran Turismo. Dopo molti tempo, si ritrovano inaspettatamente insieme, a condividere di nuovo lo stesso tetto, lo stesso sogno. Dalle iniziali difficoltà e incomprensioni a un legame che nascerà e si fortificherà dentro e fuori i circuiti automobilistici. Per tornare a essere una famiglia.

RECENSIONI

Emilia-Romagna. Loris, 'il ballerino': lo chiamavano così e continuano a farlo anche se da tempo si è fermato. La velocità per lui era una danza, piedi, curve, stacchi, salti. Ora che le corse sono un ricordo rosicchiato dalla tossicodipendenza, ora che le ruote sono soltanto quelle di un camper adibito a squallida dimora, e quel sorriso da giovane promessa incorniciato in foto si è trasformato in denti corrosi dentro un ghigno intontito, è sua sorella Giulia ad aver preso il volante tra le mani. Ma è testa più che istinto, è  controllo, troppo a volte.
Loris e Giulia De Martino, ovvero Stefano Accorsi e Matilda De Angelis nel nuovo film di Matteo Rovere, Veloce come il vento. Fratelli.  Si ritrovano dopo molti anni al funerale del padre, colui che nelle vene di entrambi ha iniettato la passione per il volante e le corse, il loro allenatore. Lei,  diciassettenne, coltiva il suo talento nelle gare di Gran Turismo, mentre fuori dalla piste può muoversi solo in bici o in motorino; del Loris pilota ormai rimangono invece i residui del tempo, alcune coppe e piccole glorie di gioventù, una Peugeot 205 Turbo 16 nel garage di una casa a cui torna insieme alla sua fidanzata (Roberta Mattei), anche lei consumata dalle droghe. Giulia è contraria, rabbiosa, vorrebbe solo badare al fratellino (Giulio Pugnaghi) che Loris non aveva mai visto prima, ma è costretta infine ad accettare la coppia, mentre sulla testa pende una spada: se non vincerà il campionato, infatti, perderanno la casa. Solo con l'aiuto di Loris potrà farcela. Anche lei dovrà imparare quindi a 'danzare'.

Ecco, i fratelli De Martino, in tempi diversi, la prova della vita la fanno correndo. La velocità con cui tutto accade e con cui tutto si gioca sta nel titolo e nello svolgimento narrativo e formale del film. Perderla significa perdersi, in questa storia che trasforma le psicologie in emozioni, che attraverso il genere vuole afferrare la vita.  Dunque, cocci di famiglia da rimettere insieme, tra motori e curve: che siano quelle dei circuiti ufficiali  porzioni di una città improvvisamente diventata teatro di un inseguimento o, ancora, quelle di una gara illegale, non cambia poi molto: sono traiettorie dei sentimenti. tra vittorie mancate e raggiunte, tra adrenalina e dolore, paura, smarrimento ed euforia, una redenzione non cercata ma forse trovata. L’idea di  un cinema come spettacolo, racconto,  che non sia solo cornice ma anche complessità, ossia il tentativo di una via italiana a modelli lontani, come potrebbe esserlo, ad esempio, il bellissimo Rush di Ron Howard anziché l’universo Fast and Furious, da molti citato. Nessun riciclaggio o  ricalco, insomma, quello del regista classe 1982 (già autore di Un gioco da ragazze e Gli sfiorati, produttore di Smetto quando voglio e dell’esperienza televisiva e cinematografica dei The Pills). Il limite, semmai, è proprio dentro il suo stile personale. Perché di stile personale si tratta, ma che non riesce del tutto a farsi visione, sintesi piena delle istanze che lo sottendono.  Qualcosa che investe, diversamente, ma su un piano di incontro, forma e sostanza. La prima, cioè,  in certi momenti appare più didascalia rafforzata, effetto stilistico, un’estetica programmatica più che eccesso, contrasto, ambiguità.  La seconda, invece, si muove in un paradosso, tra la prova di Accorsi, che al di là di tatuaggi, capelli sporchi e dialetto, conquista davvero una delle sue interpretazioni migliori, e la sua figura: a questa, infatti, la sceneggiatura (scritta dal regista con Francesca Manieri e Filippo Gravino) imprime simpatia e cuore d’oro ma non una dimensione “assoluta”, tragica anche quando – e in questo caso lo è – “comica”. L’umanità di Loris , insomma, sembra essere più scritta che filmata, è manifesta, è dichiarata. È un personaggio a metà, tagliato, più che sospeso.  E Veloce come il vento, allora, è action movie che corre, sì, ma fermandosi a pochi metri dell’epica. Non è un demerito, ma un traguardo mancato, ed è un peccato.

Per prepararsi alla parte, Accorsi ha perso dieci chili, ha dormito poche ore perché il suo volto mutasse, ha frequentato un mondo di piloti e meccanici e preso lezioni di guida spericolata. Il suo personaggio, e la storia in generale, sono ispirati alla figura di Carlo Capone, ex stella del rally, che dopo il burrascoso ritiro dal mondo delle corse prese ad allenare una ragazza, come raccontato dall'anziano meccanico Antonio Dentini, da poco scomparso (il personaggio interpretato da Paolo Graziosi è un omaggio a lui). La De Angelis, invece, classe 1995, musicista e cantante dei Rumba de Bodas, non aveva ancora la patente quando ha saputo di essere stata scelta per interpretare Giulia. Dopo il film è arrivata anche la fiction di Rai1 Tutto può succedere. Il pubblico televisivo è riuscita a conoscerla prima, quello cinematografico ci auguriamo possa rivederla presto.

Una via italiana al genere è possibile, e Matteo Rovere ne è uno degli alfieri (ha prodotto, anche, Smetto Quando Voglio): il suo stile ricerca, come nel precedente Un Gioco da Ragazze, i “trucchi” del mestiere del raccontare all’americana, in questo caso il film sportivo con retroscena drammatico e riconciliazione familiare. L’impostazione da “favola” sul favolistico gioca troppo e i trucchi riescono e non riescono, perché denudati, come nel finale dove si tenta di depistare lo spettatore con una morte fasulla che, appunto, “falsifica” il resto: espedienti di questo tipo a Hollywood funzionano perché la mitologia nel mondo di celluloide, dopo tanti anni, è un universo a sé, un immaginario filmico accettato come distante dalla realtà e credibile a prescindere, se riconoscibile nelle sue traiettorie canoniche. Lo spettatore sa che la storia raccontata, per quanto “realistica”, reale non è, e accetta di buon grado. Con i sapori, i tipi veraci italiani e questa ambientazione imolese/romagnola, la “falsificazione” della sceneggiatura stona, perché più americana, appunto, che italiana. Poco male: ci sono l’adrenalina delle corse, anche clandestine stile Fast and Furious, il premio in palio che va oltre la gara stessa, il recupero di un’anima perduta e una famiglia sfasciata da ricomporre, con linee narrative molto simili a The Fighter. Soprattutto, c’è il memorabile personaggio affidato a Stefano Accorsi, ispirato al torinese Carlo Capone, campione europeo di rally nel 1984 finito nelle spire della droga. L’attore gli dà vita in stile Jack Sparrow di Pirati dei Caraibi, dissidente e borderline ma mai sopra le righe, con carica eversiva benefica attraverso i suoi insegnamenti sulla “ribellione”: testimonial pubblicitario della Peugeot, ha ottenuto anche la consulenza e i mezzi della casa automobilistica. Una figura con cui Rovere pareggia i conti su ciò che non è riuscito a replicare dei codici americani: uno spirito anarchico siffatto Hollywood se lo sogna. Controfigura e coach di tutti, il campione italiano di rally Paolo Andreucci.