Horror, Recensione

VANISHING ON 7TH STREET

NazioneU.S.A.
Anno Produzione2010
Genere
Durata90'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Un improvviso blackout colpisce la città di Detroit. All’alba del giorno seguente, per le strade rimangono solo mucchietti di abiti vuote e auto abbandonate, mentre la città è in balia di ombre inquietanti e spaventose. Gli unici sopravvissuti sembrano essere Luke, Paul, Rosemary e James, il cui ultimo rifugio è un vecchio bar con un generatore a benzina e delle scorte di cibo. Con l’illuminazione del locale che tende lentamente a esaurirsi, dovranno trovare una fonte di luce alternativa e una via di fuga dalla città prima che sia troppo tardi.

RECENSIONI

Da qualche anno a questa parte, sembra che i film chini ad abbeverarsi alla vena dissanguata del genere apocalittico siano condannati a riflettere sull' incapacità stessa del cinema di (ri)pensare la fine del mondo. Costretti a rinnovare un immaginario escatologico sfinito d'idee, anche i titoli più convincenti degli ultimi anni, da E venne il giorno a The mist, sembrano tutti intenti a frugare nella medesima voragine, ripartendosi in due essenziali tendenze: da una parte, la massima astrazione del disegno catastrofico, ai limiti del film-saggio (cfr. Cloverfield, dove si inghiottiva il respiro eroico ed aereo del monster-movie nel suo controcampo impotente e ad altezza suolo), dall'altra, il consapevole riciclo ludico di iconografie preesistenti (trovando il suo modesto emblema nel pastiche Doomsday, patchwork di tòpoi post-atomici). L'ultimo film di Brad Anderson, nella fenomenale esilità del suo soggetto e nella chiara rievocazione di atmosfere à la Twilight Zone, ha l'indubbio merito di fondere entrambi i tratti in un'icastica riflessione sull'esaurimento del mondo e del cinema. Il plot, innanzitutto, sembra redatto con l'invidiabile ingenuità della vecchia serie di Rod Serling: la massima stilizzazione horror di un ombra informe e onnivora, appena animata da vaghi profili antropomorfi, va di pari passo con la riduzione del mondo a guardaroba, senza più corpi all'infuori delle pozze di vestiti (derisa in sala per la sua disarmante elementarità, l'allegoria visiva sembra quasi una parodia del blockbuster macchinico à la Bay, dove l'umanità, decomposta in CGI, si riduce ai suoi loghi vestiari). Dietro il dimesso armageddon c'è un solo, archetipico, Moloch - il puro e semplice buio, in grado di fagocitare chiunque in un silenzioso risucchio. E la sua prassi distruttiva corrisponde al primo principio di illusione cinematografica, riducibile, sin da Méliès, alla muta sparizione di un corpo tra pieghe dell'immagine - una dissoluzione eletta da Anderson a unico movimento del film.

Come insegna la fenomenologia del nuovo apocalittico, anche Vanishing on 7th street evita un'adeguata spiegazione della catastrofe, preferendola relegare ad una distratta battuta-contenitore di tutti gli spiegoni (im)possibili. La fiaba nera è ambientata a Detroit, città/carcassa post-industriale, e già dall'incipit mostra sfacciata le sue mire: con il raggio di luce e polvere a trafiggere il buio della sala, il proiettore d'improvviso rallenta, la lampada allo xenon si estingue, l'immagine gradualmente svanisce; il proiezionista resta unico superstite e gli spettatori, apparentemente divorati dallo schermo, paiono affondati nei loro stessi vestiti, dileguatisi in un misterioso stacco di montaggio. A partire dalla scelta di un proiezionista come co-protagonista del survival movie, l'elegia sulla fine del cinema/mondo non potrebbe essere più cristallina. Del resto, la serie di Serling non indulgeva solamente nelle bizzarrìe narrative e negli acrobatici finali a sorpresa, ma anche nel netto moralismo e nel marcato simbolismo di figure e situazioni. Anderson, che dell'idealismo fantastico di Twilight Zone, pur depurato dal classico positivismo sci-fi, è un discepolo tanto estetico quanto morale (basti ricordare il suo Sounds like, l'episodio più intenso tra i Masters of Horror della seconda serie), esibisce il sottotesto meta in battute di spudorata autoreferenzialità (Siamo l'ultimo giro di bobina prima che si fermi tutto) e in sfrontati giochi di parole sull'inganno della luce e del cinema (la Newton sottolinea come il suo bambino, non sapendo articolare la parola light, era solito storpiarla in lie). Il pessimista conte morale, girato con la Red e debitamente irrobustito da sparse intuizioni visive, modula una costellazione di luci intermittenti (insegne al neon, torce elettriche, roghi effimeri) ed emula il flicker di un proiettore guasto per lasciar pulsare lo sfarfallìo di una duplice agonìa. Ideale prosecuzione teorica del magistrale Cigarette burns di Carpenter, il conciso requiem di Vanishing on 7th street, altro piccolo saggio horror sull'esaurimento del cinema via cabina di proiezione, non può che parteggiare per l'apocalisse, e noi con lui.

Fin qui gli aspetti migliori di un horror psicologico dal basso profilo (pochi gli attori, gli effetti speciali e i momenti apicali) eppure a suo modo incisivo e personale. Certo, il film soffre di vistose debolezze di script: il carneade incaricato della sceneggiatura non ha esattamente il piglio di Serling o di Matheson, e a metà percorso l'opera si affloscia in annacquato kammerspiel, affossando le avvincenti premesse in dinamiche di gruppo più stanche e scontate. Non aiuta nemmeno la sciatteria degli attori, assorti in irritanti geremiadi e affetti da un overacting poco consono al tiro della pellicola. Eppure, nonostante le sue fragilità, Vanishing on 7th street riconferma il talento visivo e il passo classico del cineasta più oscurato dal tentacolare orgoglio (registico) degli Anderson, allontanato dalle pretese autoriali di Paul Thomas e Wes e frettolosamente confinato, insieme a Paul W.S., al limbo dei mestieranti operosi e impersonali. Ma il cinema di Brad Anderson, novello Val Lewton bistrattato come un Nolan minore, cova un respiro d'altri tempi sotto la scorza del b-movie, si affida a una mise en scène avvolgente e ben riconoscibile, vanta una filmografia discreta ma ostinata, intessuta di affilate variazioni dostoevskijane sul tema della colpa (Session 9, L'uomo senza sonno, Sounds like, Transsiberian) e punteggiata, nel mezzo di tali e tanti thriller psicologici, da due atipiche commedie romantiche (Next stop wonderland e il fantascientifico Happy accidents). Alle luci umili e nitide del suo iter registico si va così ad aggiungere quest'ultimo piccolo brockengespenst, opera minore ma di sintomatica lucidità.