Animazione, Bellico

VALZER CON BASHIR

Titolo OriginaleWaltz with Bashir
NazioneIsraele
Anno Produzione2008
Durata90'
Sceneggiatura
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Il cineasta Ari ha un sogno ricorrente, ambientato in Libano nel 1982 quando era nell’esercito, che non riesce a focalizzare. Parla con gli ex-commilitoni, sperando che la memoria riaffiori.

RECENSIONI

China freudiana

Non è un sogno. È l’animazione di un documentario che interpreta un sogno per diventare politico. Persépolis senza ironia. Il disegno (Folman nasce documentarista ed è stato ispirato dalle introduzioni animate per la sua serie “The Material that Love Is Made of”) è per pudore, per mischiare conscio e inconscio, reale e surreale (citando Kurt Vonnegut e Apocalypse Now), in un puzzle da ricomporre, in una memoria frantumata dai fantasmi di guerra. Nella prima parte, il regista eleva tutto a esperienza psicanalitica, a simbolico onirismo, stile Gerald Scarfe. Le testimonianze degli intervistati, colme di sangue e terrore, sono sublimate nell’immaginazione, con brani meravigliosi (i temibili cani randagi latranti, la felliniana Dea del Mare, il “videoclip” bellico/grottesco in cui il mitra diventa chitarra rock). Il rimosso, il non regist(r)ato migra, sublime, in una dimensione edulcorata. Ma il Cinema è anche terapia: Ari non vuole fuggire ma ricordare, deve montare l’immagine. Nella seconda parte, l’inchiesta di china freudiana si ancora sempre più alla Terra, fino a farsi, nelle terribili scene dal vero finali (un pugno allo stomaco), di carne e ossa. In mezzo sta il valzer con Bashir (Bashir Germayel, neopresidente libanese assassinato e vendicato con brutale ferocia dai falangisti cristiani): il soldato spara e balla e né Folman, né lo spettatore, sanno più se quanto vedono/ricordano è sogno o assurdità della realtà. Il film di denuncia che segue, meno sorprendente, ma ugualmente potente, spiega il ruolo della paura nell’innescare in questi giovanissimi soldati il meccanismo dell’amnesia dissociativa, di fronte ad un eccidio che Folman non esita ad appaiare alla persecuzione del proprio popolo. La grafica richiama molto il fumetto, è dominata da tinte gialle (follia/malattia), attraversata a sprazzi da una lieve tridimensionalità che, dando più “corpo” alle immagini documentarie ricalcate, testimonia la faticosa riconquista di solidità dei ricordi. La colonna sonora è fondamentale: fra arie sinfoniche, psichedeliche e hit anni ottanta, annega dolcemente l’anima in un’altra dimensione, fra dolore (il silenzio della morte) e allucinazione.

Riaffiorare dall’acqua [1] per assistere alle infinite possibilità del rimosso.
Il ricordo, nel tentativo di ricostruire un avvenimento apparentemente dimenticato, ricerca le immagini e il loro senso attraverso una trasfigurazione artistica, che si frammenta, slitta, in una miriade di suggestioni iconografiche [2]. Tutte le visioni dei reduci servono al regista per sintetizzare la sua creazione, donando alla memoria collettiva un referente concreto che, dal visionario filtro del ricordo, si conclude nel ritorno alla realtà, non più work in progress, ma diretta testimonianza dei fatti. Valzer con Bashir vuole la verità, commistiona la (probabile) funzione rivelatrice del documentario con l’evasione dell’inconscio: dall’immagine onirica delle varie esperienze soggettive, autosufficienti nel resistere all’ossessivo desiderio di comprensione [3] , si tende a ricomporre il puzzle di cosa sia realmente accaduto.E’ una tensione verso l’uscita dall’arte, alla quale si lascia il potere di racchiudere un’infinita capacità espressiva e metaforica, ma non quello di chiudere il cerchio. Il finale non è una consolazione, un accomodante gioco emotivo per lo spettatore. La lunga zoomata nel ghetto, tra la folla di donne palestinesi che si disperano, è uno squarcio di netta coerenza. Si doveva arrivare lì, a testimoniare e, in maniera piuttosto inquietante, a dimostrare come lo spettro del passato si ripeta in senso opposto [4].

[1] Il mare ha un forte valore simbolico, è la porta per evadere dal conflitto. Il regista vuole uscirci per tornare nella città, ricongiungendosi con se stesso, mentre i suoi compagni, nei loro racconti, ci ricadono inevitabilmente. Le immagini riaffiorano, ma rimangono ancora intrappolate dalla difesa dell’immaginazione.

[2] Ogni visione ha una propria autonomia estetica, dall’episodio del Mattatoio che richiama atmosfere gotiche al folle lirismo tra gli uliveti di Frenkel. Ognuno ha il suo mondo, la sua interpretazione, ma nessuno, tranne il profondo desiderio del protagonista, riesce ad uscire dalla sua allucinazione. L’allucinazione non è comunque da isolare al singolo resoconto, poiché prende la forma di una sintesi di chi intervista e di chi racconta.

[3] Lo straniamento del come vengono rivissute le esperienze passate è molto forte. Si toccano le corde del grottesco, ai limiti dell’assurdo. Una mancanza di senso necessaria per difendersi dall’orrore della guerra, ma che nasconde dietro di essa dolorose metafore di cosa questa significhi. Di sequenze illuminanti ce ne sono tantissime, una su tutte, l’agghiacciante domino di esplosioni e uccisioni che si susseguono in una non logica progressione (chi colpisce, viene immediatamente colpito, in un bizzarro crescendo di morte. In fondo ci chiediamo quale sia il valore della vita…).

[4] Basta una parola: Olocausto.