Drammatico

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TRAMA

Lisbona. Le giornate del signor João Vuvu, anziano vedovo.

RECENSIONI

Monteiro si congeda dalla vita e dal cinema con un’opera come al solito sconcertante per glaciale acume e sulfurea follia. Se la vita è un pendolo che oscilla senza sosta fra il dolore e la noia, le giornate del signor Vuvu sono una suite perfettamente calibrata di conversazioni domestiche, passeggiate nel parco, incontri casuali, soste silenziose in cui il dolore (l’abortita riconciliazione con il figlio) non fa che rendere più dolce – raro contrasto – i sapori dell’esistenza, i (non) colori della luce e del buio, la dolcezza dell’argomentazione più sfrenata (il manifesto blasfemo esposto nella scena del caffè è esilarante e inattaccabile, da ogni punto di vista), la gioia del sesso meno codificato, l’irrisione sussurrata e impietosa di tutto l’universo [autore empirico compreso, vedi i cenni (i rimproveri sornioni) alle opere precedenti di JCM, LA COMMEDIA DI DIO su tutte]. Piani sequenza di superba staticità, dialoghi infallibili, squarci di poesia [il ciclico mistero della vita e dell’amore, cullato dal medesimo duetto de La Verbena de la Paloma (meta)recitato in una scena del film] si susseguono lungo tre ore sublimi, prima del sontuoso epilogo in cui la Morte, fedele spettatrice delle umane vicende, si presenta nelle mi(s)tiche vesti di una sirena/fanciulla-fiore e spalanca a tutto schermo un occhio di taglio buñueliano in cui il cinema (si) riflette con abbagliante profondità. L’impassibile tenebra dell’ignoto indugia ai margini della pupilla dilatata, il limpido verde centrale è il solo, fragile pegno possibile.

Ultimo, indimenticabile atto del cinema ombellicale di un maestro. Nella definitività affabulatoria del film di Monteiro sembra entrare di prepotenza, ma anche di soppiatto, di sguincio o semplicemente di riflesso tutto lo scibile umano: politica, filosofia, religione, morale triturate in un girovagare circolare che ci dice della necessità dell'uomo di imparare a convivere con l'insolubilità dell'enigma esistenziale. Aforismi, ironia bruciante, giochi di parole, bellissimo cinema che fa spalancare l'occhio (l'immagine- testamento finale), che nella sua composizione visiva privilegia l'ombra (figure immerse spesso in un pittorico controluce) e l'i(a)llusione ottica, che sfregia la correttezza con irriverenze che farebbero la gioia dei vecchi censori (Giuseppe che dice a Maria: "Abbiamo scoperto l'immacolata fornicazione ma ci siamo dimenticati di trascriverne la formula"). Siparietti come tessere di un mosaico di libera geometria per un film anarcoide e sovversivo, che solleva mille questioni ma ci rammenta che è sempre il problema ad essere interessante, mai la sua soluzione.