TRAMA
Dal graphic novel di Alan Moore e David Loyd: in un futuro prossimo, la Gran Bretagna è diventata una dittatura che controlla, discrimina, uccide. Si oppone l’antieroe solitario V, che indossa la maschera del prototerrorista Guy Fawkes responsabile, il 5/11/1605, di un fallito attentato dinamitardo al Parlamento. Una faccia un programma, insomma…
RECENSIONI
Potere alla parola
Tematicamente parlando, V for Vendetta rappresenta non poche affinità/continuità con la poetica matrixiana: futuro post-qualcosa, regime liberticida, Controllo, “realtà” imposta dall’alto da ri-scoprire e re-inventare, sono tutti elementi già presenti, e in qualche modo portati alle estreme conseguenze, nella trilogia di Matrix. Da questo punto di vista, dunque, c’è poco da segnalare e anche poco da aggiungere. C’è invece da evidenziare un piccolo paradosso che sta nella scelta dei Wachowski bros. di abbandonare la macchina da presa, consegnata nelle mani corrette ma nulla più del 2nd unit director James Mc Teigue, e di affidare la propria personale riconoscibilità autoriale esclusivamente al potere delle parole della sceneggiatura. Se si pensa all’impatto estetico/registico che la trilogia ha avuto sul cinema d’azione di fine secolo scorso (e oltre), la cosa non è lungi dall’apparire eccentrica nella sua evidente “intenzionalità”, e viene quasi da chiedersi cosa ci sia sotto. Ebbene, sotto forse c’è che V for Vendetta è un film verboso, ben poco agi(ta)to e largamente antispettacolare, che affida alle parole di V, quasi in apertura, una dichiarazione d’intenti (non presente nel graphic novel originale, dunque tutta farina wachowskiana) tranquillamente riferibile ai due fratelli sceneggiatori: parafrasando, V dice ai suoi spettatori (e agli spettatori in sala: è in uno schermo nello schermo e guarda in macchina, classica interpellazione casettiana [1]) -“le parole sono importanti, dunque per ora basta azione e ascoltatemi perché sono parole importanti quelle che sto per dirvi”- seguìto dall’appello alla nazione: -“dunque aprite gli occhi e agite”-. Ora: se il giochino duplicatorio testè esposto funziona, e a me sembra di sì, allora i fratelli W sono il doppio di V, noi cinespettatori siamo il doppio dei telespettatori di V (leggi: cittadini/sudditi inconsapevoli, vittime di una tecnocrazia nazistoide) e il film è un film esplicitamente politico (anti-Bush o cosa volete voi), concepito “serio” e dunque da prendere sul serio. Letto così, come temo vada letto, V for Vendetta regge poco, è l’ennesima tiratella anti-potere, anti-nazi/fascista (bella forza), che scivola ben presto in quella predicatoria banalità che può sfociare nel fastidioso. E’ bene precisare che tutti questi difetti erano già presenti, in nuce, nel graphic novel di Alan Moore che però riusciva a sublimarli (quasi) del tutto accentuando l’aspetto antieroico, solitario e vendicativo di V, molto meno interessato al facile proselitismo del suo corrispondente cinematografico (il quale, ad esempio, oltre a fare appelli in mondovisione fa recapitare a tutta la popolazione maschere di Guy Fawkes). I Wachowski invece banalizzano la vicenda elevandola, per così dire, dal particolare al troppo generale (il finale con tutto il “popolo mascherato” improvvisamente consapevole e pronto alla rivolta sfiora il ridicolo, oltre ad evidenziare una sceneggiatura dall’evoluzione lacunosa), dandole consistenza ben più fattiva e filtrando, con intenti edulcoranti, gli aspetti più scomodi legati alla storia e ai personaggi [2] (due esempi: Evey non è più una sedicenne disperata aspirante prostituta ma una bella e rispettabile impiegata twenty-something; la visita di Mr.Finch al campo di concentramento è “lucida” e non sotto effetto di LSD, dettaglio questo non trascurabile nel fumetto originale). Resta il marchio di fabbrica citazionista dei fratellini, che continuano a frullare di tutto un po’ (Orwell [3], Il fantasma dell’opera, Bradbury, Il Conte di Montecristo e molto molto altro, ovviamente) e che si concedono, nel duello finale, un breve e non eclatante richiamo estetico che con accenni di bullet time ci ricorda per un momento i fasti visivi che furono.
[1] Casetti, Francesco, “Dentro lo sguardo. Il film e il suo spettatore”, Bompiani, Milano, 1986.
[2] Vale la pena ricordare che “l’eroe” della situazione è un terrorista. Date tali premesse, coi tempi che corrono qualche smussatura qua e là c’era da aspettarsela.
[3] Nel film c’è anche un riferimento (in)diretto al “1984” di Radford: la presenza dell’attore John Hurt, al quale i Wachowski riservano un ruolo “uguale e contrario” a quello interpretato all’epoca.
Che Idea
Tratto dal romanzo illustrato di David Lloyd e Alan Moore, è un progetto dei fratelli Wachowski diretto dal loro aiuto-regista esordiente: sorprendentemente affidato più al verbo, alla drammaturgia, al pathos del fervore idealistico che al fantasy/philosophy Hi-tech che ci si aspettava dai due autori Matrixiani, è un cappa-e-spada di rivalsa alla Il Conte di Montecristo, che esalta il testo politico di base, al contempo schematico e sovversivo. Lo schema immagina una dittatura censoria alla 1984 di Orwell che non si discosta un minimo dalle direttrici più abnormi del Nazismo. La sovversione dello schema fa riferimento ad un’attualità di sempre (Moore lo concepì in era thatceriana) che esalta l’atto terroristico (!) come antidoto a qualsivoglia restrizione delle libertà da parte dei governi che cavalcano la paura dei popoli: quest'ultimi, in definitiva, sono i veri responsabili degli orrori che non guardano. Fa tutto parte da sempre di uno schema, e questo l’ottima sceneggiatura lo sottolinea: allora “V”, attore che nella finzione dice la verità, Fantasma del palcoscenico, terrore col sorriso che si esprime per massime shakespeariane e colpisce di parola (come il film: perché nelle dittature sono le parole a cambiare significato), non è più retorica né personaggio con identità, ma solo Idea, compendio e simbolo di qualcosa di indistruttibile e già generato. Il collante allegorico che supera le formule nella loro rappresentazione “esplode” nella magnifica sequenza finale Metropolisiana, in cui il popolo indossa la maschera di Guy Fawkes per ritrovare il proprio volto. Al fianco di “V”, i”V”-i (Evey), una Portman che rappresenta la coscienza collettiva anestetizzata: è l’Amore contro la Vendetta che accetterà la propria sconfitta in nome della Reazione. Idee fianco a fianco, “V” è temprato dal fuoco ed Evey dall’acqua (dopo un’altra azione estremista a fin di bene: la tortura della Paura), in un sottile grandioso parallelo. Che potente lezione di Libertà.
Basato sul graphic novel di Alan Moore and David Lloyd, il film sceneggiato dai fratelli Wachowski si regge più sull’originalità della trama che sulla solidità della sua costruzione. James McTeigue – al suo debutto alla bacchetta dopo una abbondante decade passata ad assistere altri registi – non sembra riuscire a far brillare la pletora di attori britannici che ha a disposizione, da Stephen Rea a John Standing, da Stephen Fry a John Hurt. Sul piano delle performance, nemmeno la coppia di protagonisti riesce a sollevare la media: la naturale grazia di Natalie Portman è appannata da un accento che suona fasullo a sillabe alterne, e la consueta rigidità di Hugo Weaving si traduce in impaccio sotto la pesante maschera ghignante. L’innegabile carisma che il protagonista mascherato eredita dalla pagina stampata è qui confinato a pochi riusciti tocchi di pennello che si perdono nella vacuità della composizione di fondo. Purtroppo, le poche invenzioni visive di gradevole effetto – come il coro di Londinesi mascherati che invadono le strade, le esplosioni/demolizioni corredate da fuochi artificiali, e gli spietati omicidi che costituiscono l’eponima vendetta – cadono nel vuoto creato dai triti simboli pseudo-fascisti, dalla rappresentazione orwelliana dei mass-media alla soglia della parodia, e dai confronti fra le armi da fuoco della “giustizia” e l’arma bianca del “terrorista”. In altre parole, uno spreco.