Drammatico, Sala

UTAMA

TRAMA

Altipiano boliviano. Un’anziana coppia quechua vive la sua vita quotidiana, che viene sconvolta da una forte siccità. Il nipote si reca sul posto per convincerli a trasferirsi in città.

RECENSIONI

La siccità che Paolo Virzì immagina a Roma in una distopia del presente sull’Altipiano boliviano è già realtà. Utama cambia le coordinate ma come Lunana, ambientato in Tibet, inscena un villaggio alla fine del mondo, un ultimo avamposto, un punto di resistenza senza alcun eroismo bensì scritto nell’ordine naturale delle cose. Il film di esordio di Alejandro Loayza Grisi, Gran premio della giuria al Sundance e rappresentante all’Oscar per la Bolivia, inquadra la comunità residuale dei quechua che vive nel suo mondo con le sue regole, a quattromila metri di altitudine. È un nuovo cinema ecologico, perché registra il rapporto tra l’uomo e la natura, ma anche cronaca del presente: basta vedere la foto dell’ultimo indigeno brasiliano, da poco scomparso, che viveva isolato da oltre venticinque anni e fu immortalato in un unico scatto. È sempre questione di immagine. Senza paragoni diretti, rischia di essere questo il destino di Virginio e la moglie Sisa, protagonisti del racconto: restare ultimi, rimpicciolire sino a una grandezza impercettibile e poi scomparire. L’arrivo della siccità costringe a rivedere il loro modo di vivere. Virginio sceglie di resistere. La condizione climatica infatti viene accolta con fatalismo, nella convinzione tutto sommato serena che prima o poi cambierà: è la stessa idea del protagonista di Bentu di Salvatore Mereu, un contadino che aspetta la fine della “siccità del vento” per dividere i chicchi di grano dalla paglia. Da parte sua, Virgilio si specchia nell’acqua e l’acqua lo “riguarda” in una soggettiva impossibile, dato che il liquido sta finendo ma ancora saldo è il rapporto simbiotico con l’ambiente intorno; si innesca quindi un rifiuto, un percorso di negazione da parte della coppia che prosegue nella propria quotidianità.

La preoccupazione per la fine di un mondo si incarna nel nipote Clever, la nuova generazione, che non è inviato da nessuno ma si fa messo di se stesso, auto-incaricato di proporre la migrazione per sopravvivere: è però un’ipotesi impossibile. Il giovane di fatto non può capire che gli anziani non lasceranno l’Altipiano, non intendono né possono abbandonare la utama (in quechua: nostra casa) perché ad essa appartengono, non in un semplice discorso identitario ma per osmosi, in virtù di un rapporto proprio materico tra l’uomo e la terra, il cielo, i fiumi. Il regista lo mostra con la macchina da presa: attraverso le riprese in altissima definizione sfrutta la maestosità del paesaggio, in cui le figure umane si muovono, uno sfondo che è insieme ipnotico e malinconico, come si addice alla bellezza al tramonto. Virginio è infatti malato: accusa un respiro pesante, che è il respiro della terra stessa, sintomo di qualcosa di più grave. Nella sua ostinazione resistente lo nasconde, occulta anche alla moglie, perché sa che il movimento di uscita dall’Altipiano sarebbe a senso unico: è un gesto di coerenza, il suo, non vuole morire nell’ospedale di una metropoli, preferisce tornare alla terra con cui si è sempre mescolato. Utama racconta il mutamento climatico inesorabile ma lo fa senza enunciare messaggi, ponendolo come dato di fatto nel tessuto narrativo, avanzando attraverso il tratteggio dei personaggi e con la forza della metafora: la principale, naturalmente, è il male oscuro di Virginio attorno al quale si aggira un avvoltoio che ha fiutato la preda. Un male che diventa correlativo oggettivo della situazione contingente, perché un tumore simbolico divora l’Altipiano e lo porterà gradualmente a dissolversi. Il suo requiem lo suona l’Orquesta experimental de instrumentos nativos, che mescola gli strumenti tradizionali ai suoni occidentali, ossia quelli che li sostituiranno. Dopo la tragedia arriva la pioggia, ma la fine è solo rimandata.